MICHELANGELO BUONARROTI(1474-1564)

DI

JOHN ADDINGTON SYMONDS.

Signore, e Signori!

Non posso cominciare la mia lettura, senza prima esprimervi il profondo sentimento ch'io provo per l'onore che il vostro invito mi conferisce. Io, Inglese, sono invitato a parlare nella città di Firenze, davanti ad un uditorio di Fiorentini sopra uno dei Fiorentini più illustri. Nessuna cortesia potrebbe giungere più gradita all'animo di uno studioso e di uno scrittore.

È stato spesso osservato che il Rinascimento fu un periodo di uomini dalle multiformi attitudini e di universali genialità. Vi noveriamo uomini come Leon Battista [330] Alberti, il quale insieme alla letteratura, alla scienza e alle matematiche, esercitò la pittura e l'architettura, e si segnalò per forza ed agilità fisica; uomini come Leonardo da Vinci, dei quali è dubbio, se le stesse facoltà artistiche non fossero inferiori alla originalità delle loro invenzioni scientifiche; principi come Lorenzo de' Medici, che furono uomini di stato, poeti, filosofi, critici della più squisita sensibilità, raccoglitori di antichità, inspiratori della gaia vita e della moda; e finalmente, vi vantiamo Michelangelo Buonarroti.

Mi propongo di parlare di Michelangelo sotto il suo quadruplice aspetto di scultore, di pittore, di architetto e di poeta. In vita, fu ritenuto eccellente in ognuno di questi rami dell'Arte. Benedetto Varchi in un'Orazione letta all'Accademia Fiorentina, gli decretò una quadruplice corona, e ve ne aggiunse una quinta proclamandolo “amatore divinissimo„.

Michelangelo si professò sempre essenzialmente scultore. Diceva a Giorgio Vasari che “a Settignano aveva succhiato lo spirito dello scalpello col latte della sua nutrice„, la quale era figlia e moglie di scalpellini. Chiamato a dipingere la Cappella Sistina, protestò che la pittura non era mestier suo; e più tardi, allorchè Leone X insistè perchè egli completasse la facciata del San Lorenzo e edificasse la Nuova Sagrestia e la Libreria, amaramente si dolse di non aver mai studiato architettura.

Tuttavia Michelangelo riteneva l'arte del disegno eguale in ogni suo ramo e indispensabile strumento di tutte le scienze, e tale teoria è da lui chiaramente esposta nelle famose Conversazioni di San Silvestro in Roma, che ci sono state conservate dal pittore spagnuolo, Francesco d'Olanda.

Il primo passo per un artista consisteva, secondo lui, nel rendersi padrone del disegno lineare con penna, inchiostro, gesso o punte di metallo. E il solo soggetto che [331] Michelangelo considerava degno d'imitazione, era il corpo umano nudo; perciò sosteneva che la profonda conocenza delle proporzioni fisiche e anatomiche dell'uomo, era essenziale all'architettura scientifica. È evidente che una viva genialità lo traeva alla scultura, di cui la forma umana è l'assoluta ed esclusiva preoccupazione. I paesaggi, gli edificî, i fiori, le ricche stoffe, i gioielli, i mobili, che hanno una parte così importante nell'arte del quattrocento - nel Ghirlandajo, in Benozzo Gozzoli, in Piero di Cosimo, in Sandro Botticelli e persino in Leonardo da Vinci - Michelangelo li escludeva rigorosamente dalla sua sublime ed astratta sfera dell'arte. L'unico elemento decorativo che egli introducesse nella vôlta e nella parete occidentale della Cappella Sistina, fu la forma umana maschile e femminile; maschile principalmente, in ogni possibile attitudine. Egli sdegnò quei problemi di prospettiva aerea, quelle squisite gradazioni di luce e d'ombra, quelle così dette sfumature, che formavano la principale delizia del magico Leonardo. Linee austere del corpo, che cominciavano dagli studî anatomici del cadavere, e s'inalzavano agli elaborati e maravigliosi studî del nudo vivente; - questa fu la severa scuola nella quale Michelangelo esercitò il suo genio giovanile. È vero che egli passò il primo anno di tirocinio nella bottega del Ghirlandajo, dove imparò l'arte della pittura a fresco, e seguì il misto stile del quattrocento; ma quando entrò nei Giardini di Lorenzo de' Medici a San Marco, l'ambiente a lui più conforme dette nuovo impulso al suo genio. Il maestro Bertoldo, deputato da Lorenzo de' Medici all'insegnamento dei giovani artisti, era stato seguace di Donatello, e l'influenza di Donatello improntò di sè l'adolescenza del Buonarroti, e potè su lui durante tutto il viver suo. Noi lo sentiamo nel tipo delle faccie adottate pel David, per Giuliano de' Medici, per il così detto Adone e Vittoria del Museo Nazionale: lo [332] riscontriamo di preferenza nelle mani grandi e nelle lunghe dita muscolose, che danno un'impronta particolare alle sue statue, come al Captivo del Louvre.

Avendo toccato della prima educazione di Michelangelo, voglio ricordare due maestri che, pare, abbiano avuto una diretta influenza sul suo stile. L'uno fu Jacopo della Quercia, lo scultore senese, i cui bassorilievi sulla facciata di San Petronio a Bologna suggerirono a Michelangelo il trattamento del soggetto della creazione di Adamo ed Eva nella Cappella Sistina; l'altro fu Luca Signorelli. Il grande pittore di Cortona fu di temperamento conforme assai al Buonarroti. Ambedue si compiacevano del nudo, dell'anatomia, della inesauribile varietà di attitudini che può essere studiata nel corpo umano. L'immaginazione di ambedue era veemente, sublime, contrassegnata da terribilità piuttosto che da grazia o da dolcezza. Il Signorelli, non meno di Michelangelo, sdegnò la vaghezza degli accessorî meramente ornamentali. I contemporanei notarono l'intima connessione fra i due artisti. Il Vasari, come di un fatto conosciuto, scrive: “esso Michelangelo imitò l'andar di Luca, come può vedere ognuno„.

Non deve ritenersi per questo che il Buonarroti fosse seguace di qualsivoglia maestro a lui precedente. Il vero sta nel parere contrario. Niun grande artista ebbe mai un'individualità più imperiosa, una più libera originalità di genio. Non v'è della sua mano uno studio dal nudo, non un frammento di scultura in marmo, non una figura dipinta a fresco, non un architrave o nicchia, non un sonetto, non la sentenza di una lettera, che non faccia immediatamente distinguere la sua dall'opera altrui. In ciò egli offre un gran contrasto con Raffaello, il cui maturo stile era formato da successivi atti di assimilazione o imitazione, che dal Perugino possono chiaramente seguirsi, per Leonardo, e per Fra Bortolommeo, sino alle antichità romane ed a Michelangelo.

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Il giovane Buonarroti doveva tutto allo studio della natura. Dotato di un peculiar dono del sentimento di essa, cominciò dal copiarla con quanta maggior cautela potè, senza chiederle in qual maniera gli altri uomini avessero risguardato o tratteggiato i suoi capolavori. Egli gettava una solida base per il termine della sua virilità, coi realistici disegni dal vero. Ciò si manifesta in tutte le opere della sua carriera giovanile. Restiamo meravigliati dinanzi al realismo del Bacco, ch'egli eseguì per Jacopo Gallo a Roma. L'ideale bellezza della Pietà a San Pietro, si combina colla profonda anatomica accuratezza nella modellatura del Cristo morto. Ma la statua che mostrò il realismo di Michelangelo nella sua luce più forte, è il David, che stette tanto tempo sulla gradinata del palazzo della Signoria. La scala di questa stupenda figura è colossale. Ma il tipo scelto è quello di un giovane appena formato. Michelangelo aveva letto che, quando si avventurò contro il gigante Filisteo, David era soltanto: “giovinetto, sano e di bello aspetto„; ecco perchè gli dette quel gran capo, quelle mani colossali, che sono fuori di proporzione per il torace della figura ancora imperfettamente sviluppato. Noi sentiamo che il suo David ha ancora due o tre anni per crescere, per consolidarsi, per espandersi, prima di raggiungere il suo pieno sviluppo. Non si può negare che questa devozione alla realtà, trasse seco nel David, qualche sacrificio di grazia e di bellezza. V'è un po' di goffaggine nella testa disquilibrata, nelle mani sproporzionate di cui ci rendiamo conto soltanto quando ci ricordiamo quanto sinceramente lo scultore amasse la verità. Lo stesso si può dire circa l'espressione repulsiva e l'atteggiamento del Bacco. Nel desiderio di afferrare il momento di ebrietà incipiente, Michelangelo neglesse le armonie dell'arte idealizzante. Insisto su questo punto, poichè si crede comunemente che Michelangelo fosse un'idealista, o uno schiavo delle tradizioni [334] classiche; mentre la verità è nel contrario più assoluto. Vedremo poi in quali condizioni fu obbligato a sviluppare un tipo fisso di fisica bellezza.

Le statue di cui ho parlato, posero Michelangelo nella prima classe dei maestri di disegno; e gli procurarono una nuova chiamata a Roma dal Papa, che, fino a un certo segno, è stato il suo cattivo genio. Era inevitabile che Giulio II e Michelangelo dovessero contrarre intimità. Essi erano uomini di egual calibro e dello stesso temperamento - grandiosi nei loro disegni, fieri nella esecuzione dei loro piani, terribili nella violenza e nel vigore del loro genio; - uomini costrutti moralmente e materialmente con linee di forza e di grandezza, piuttosto che di grazia e di sottigliezza; uomini in cui niente era di volgare o di mediocre, i cui stessi difetti erano improntati di passione e di grandezza. Essi s'incontrarono come nubi cariche d'elettricità, pregne di tempeste e di lampi. Di primo tratto s'intesero l'un l'altro. Il resultato dei loro primi colloqui a Roma fu uno schema, che traeva seco la distruzione della vecchia Basilica di San Pietro. Papa Giulio decise di erigersi un gigantesco monumento mentre era ancora in vita. Doveva essere una montagna di marmo ricoperta di più di quaranta figure colossali: Profeti e sibille; Allegorie delle arti e delle scienze; Statue di vittorie e di provincie prostrate, ascendenti verso una sommità sulla quale gli angeli elevavano nell'aria il sarcofago del Pontefice, mentre la terra piangeva per la sua perdita e il Cielo si rallegrava per l'assunzione della sua anima all'eterno godimento. Lo schema di Michelangelo era così stupendo che l'abside della Basilica non poteva contenerlo; laonde Giulio II decise l'immediata distruzione della venerabile Madre chiesa occidentale. Questo atto aveva un gran significato. Non indicava solamente l'imperiosa natura del Papa, il quale spazzava via qualunque cosa contrastasse ai suoi [335] ambiziosi disegni; ma simbolizzava anche quel mondano spirito del Rinascimento, entusiasta per la gloria, indifferente per la santità delle tradizioni religiose. Segnava un'epoca nuova nella storia della Chiesa, presagiva lo scisma Luterano e annunziava la reazione cattolica. La presente Basilica di San Pietro rimane un colossale simbolo in pietra di tutti quei cambiamenti che separarono il medio evo dall'età moderna.

Questo disegno fu disastroso per Michelangelo, poichè lo condusse a quello che il Condivi chiamò - la Tragedia della Tomba di Giulio, - una tragedia prolungata per cinque atti dolorosi, su un periodo di più di quaranta anni pieni di perplessità e d'angoscia. Per prima cosa, Michelangelo fu mandato a scavare il marmo a Carrara; tornato a Roma trovò che il Papa aveva perso ogni interesse nel monumento, e furioso per il modo con cui fu trattato in Vaticano da alcune guardie e da alcuni prelati, egli se ne partì con aspre parole; tornò in Firenze, rifiutò di ascoltare i messi di Giulio e disubbidì ai brevi papali che lo richiamavano.

Ma la tomba gli pesava come una macina attorno al collo. Papa Giulio non intendeva abbandonare intieramente l'idea del monumento. Dopo la sua morte, i suoi eredi entrarono in una serie di contratti collo scultore, in ciascuno dei quali era involto qualche cambiamento nel disegno, e così le statue che erano state sbozzate per il primo disegno, divennero inutili via via che lo schema andò facendosi graduatamente più angusto. Le rovine del disegno originale sono sparse in Francia e in Italia, nei due sublimi Captivi del Louvre, nella Vittoria e nell'Adone del Museo Nazionale, nelle grottesche figure nude del Giardino di Boboli. Michelangelo fu accusato di mala fede e di appropriazione indebita. Finchè visse sospirò e supplicò che gli fosse concesso di condurre a termine la grande impresa, che era [336] stata il sogno della sua vigorosa maturità e che fu lo struggimento della sua vecchiaia. La vita sua si prolungò perchè egli rinnovellasse il San Pietro, e lo incoronasse con quella meraviglia del mondo che è la cupola. Ma la disgraziata tomba non vi trovò alcun posto. Il deformato e defraudato sepolcro - un rattoppo di schemi discordanti - fu finalmente eretto in San Pietro in Vincoli. Là noi andiamo ancora per ammirare il gigantesco Mosè, la Madonna piena di grazia, le bellissime statue di Lia e Rachele (Vita contemplativa e attiva) che sono fra le opere più belle dei capolavori in marmo. Ma si sente che esse sono soltanto frammenti di un'incompleta concezione; poco convenienti alla situazione loro, mancanti di equilibrio, malamente associate alle opere di scultori meno valenti - un miserabile ritratto del Papa, una sgraziata Sibilla e uno spregevole Profeta.

Volendo porre bene in vista questa tragedia della Tomba di Papa Giulio, ho dovuto anticipare gli avvenimenti; torno ora al momento in cui Michelangelo, in collera, lasciò Roma e tornò a Firenze. Questo accadeva nella primavera dal 1506. Vi rimase circa sette mesi, e fu immediatamente impegnato in un'impresa che esercitò in appresso non poca influenza sulla sua carriera. Il Gonfaloniere Soderini risolse di decorare i muri della Sala del Gran Consiglio con due grandi affreschi rappresentanti fatti della storia di Firenze. L'uno di essi fu commesso a Leonardo da Vinci, che scelse per soggetto un episodio della Battaglia di Anghiari. Michelangelo ricevè l'altro, ed elesse un episodio della guerra di Pisa: una banda di soldati fiorentini sorpresi da una truppa della cavalleria di Sir John Hawkwood mentre presso Pisa si bagnavano nell'Arno.

I cartoni preparati da questi illustri rivali sono periti. Ci sono pervenuti solo per fama e per mezzo di deboli copie; ma è evidente da quello che i contemporanei dicono [337] del disegno di Michelangelo, ch'esso era un capolavoro del tempo. Il Cellini, che con altri studiosi lo copiò nella sua adolescenza, lo considerava superiore agli affreschi della Cappella Sistina. L'argomento permetteva a Michelangelo di spiegare tutta la sua profonda scienza della forma umana, e di dar vita ad un gruppo di uomini nudi in movimenti passionati ed energici. Le attitudini più variate che possono esser prese da soldati repentinamente sorpresi e chiamati alle armi mentre si bagnano, erano trattate con una conoscenza del vero vivente, con una padronanza della forma, con una esperienza dell'anatomia muscolare, non immaginate mai fino allora. I frammenti che sopravvivono - studî in penna ed in gesso; una trascrizione di un'atletica figura incisa da Marco Antonio Raimondi, una miserabile copia en grisaille della composizione generale - sono sufficienti per giustificare le lodi del Cellini, e per farci sentire che nella Guerra di Pisa abbiamo probabilmente perduto la più fresca produzione della maturità di Michelangelo. Sembra che anche in questo cartone egli si sia attenuto all'intimo e severo studio della natura. Il suo ideale della forma non era ancora divenuto così artificioso e schematico come apparve dipoi. Il Vasari racconta due storie contradditorie circa la sparizione di questo cartone. Secondo l'una, il disegno andò disperso per la gelosia del Bandinelli; secondo l'altra, una masnada di artisti lo avrebbe messo in pezzi durante la malattia di Giuliano de' Medici nel 1516.

Mentre Michelangelo era occupato a questo Cartone, durante l'estate del 1506 fra il Papa e il Gonfaloniere procedettero alcuni negoziati concernenti l'estradizione dello scultore al suo imperioso signore. Il Soderini temeva realmente che Papa Giulio movesse guerra a Firenze, se Michelangelo non gli era rimandato, perciò Michelangelo nel novembre se ne partì per Bologna con [338] una lettera di raccomandazione e di protezione sotto il sigillo della Repubblica. A Bologna trovò il Papa che godeva il trionfo su questa città, dalla quale aveva appunto espulso i Bentivoglio. L'incontro fu burrascoso. Ma papa Giulio avea bisogno di Michelangelo, e, dopo avergli mostrato un po' di collera, condiscese a perdonarlo. Il lavoro, che ora il Papa gli commise, fu una colossale statua di bronzo di sè stesso, seduto, con una mano alzata per minacciare i ribelli Bolognesi. Michelangelo vi occupò due anni, e la finì dopo un indugio tedioso. La statua fu debitamente posta sulla porta centrale di San Petronio. Nel 1511 i Bentivoglio tornarono; i Bolognesi si sollevarono. La statua di papa Giulio fu gettata giù dal suo trono e data al Duca Alfonso d'Este di Ferrara, il quale ne fece un cannone, che chiamò “la Giulia„. Nulla è restato che possa darci la benchè minima idea di questa statua.

Era davvero necessario che Michelangelo avesse una lunga vita, perchè alcun che sopravvivesse a provare la sua maestria ed il suo genio. Nel 1511 aveva 36 anni, e già tre delle sue opere più belle erano state distrutte o condannate ad una sollecita dispersione; la tomba di papa Giulio com'era stata prima ideata, la statua del Papa, e il Cartone per la guerra di Pisa. È strano che la privata corrispondenza di Michelangelo non contenga sillaba di commento o di compianto sullo sfacciato oltraggio fatto ai capolavori, che davano la misura delle esuberanti energie dei migliori anni della sua virilità.

Il Cartone era essenzialmente l'opera d'uno scultore. Vi era applicata l'arte del disegno in grande ad un argomento che, intrinsecamente, non aveva altro valore che di spiegare il nudo in azione. Tuttavia Michelangelo si era impegnato ad eseguire questa composizione a fresco e in gara con Leonardo da Vinci, che era il primo pittore di quel tempo. Dopo questo non poteva [339] rifiutare un ordine od un invito insistente, a far prova della sua maestria su una grande scala, come pittore a fresco.

Un tale ordine gli venne da papa Giulio appena compiuta la statua a Bologna. Egli invitò Michelangelo a Roma, e gli palesò l'intenzione di assegnargli gli affreschi per la vôlta della Cappella Sistina in Vaticano. S'insinuò che Bramante, architetto della Corte papale, e zio di Raffaello da Urbino, avesse indotto papa Giulio a questo passo, persuadendolo che sarebbe stato un cattivo augurio il completare il suo proprio mausoleo. Bramante sperava che Michelangelo paleserebbe la sua incompetenza nella difficile arte della pittura a fresco sulla superficie di una vôlta. Fino allora Michelangelo non aveva dato altro segno di facoltà pittorica che in una tavola dipinta per la famiglia Doni di Firenze. Egli stesso, diffidando delle proprie forze, protestò ch'egli era scultore di professione, e si sforzò di rifiutare quella commissione.

Papa Giulio tenne fermo, e Michelangelo fu costretto a cedere. Nel maggio del 1508 cominciò a lavorare per la vôlta sui cartoni. L'attuale pittura fu continuata l'anno seguente, mentre i compartimenti centrali del soffitto furono scoperti nel novembre 1509. Non sappiamo con certezza come fosse fatto il lavoro: Michelangelo aveva impegnato abili assistenti di Firenze; ma trovandoli incapaci di collaborare con lui, li rimandò. Ond'è che la maggior parte dell'opera dev'essere stata da lui compiuta nella solitudine. La Cappella fu gelosamente preservata da ogni intrusione: il Papa solo per mezzo di una galleria privata, visitava il maestro sulla impalcatura. Quando il giorno d'Ognissanti del 1509 gli affreschi della Creazione, della Caduta, del Diluvio, furono scoperti, l'intiera Roma si affollò per vederli. L'effetto fu sorprendente. Michelangelo, famoso già come maestro di disegno e di scultura, era ora salutato come principe dei pittori.

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La pittura colpisce il sentimento estetico della maggior parte degli uomini più direttamente e più acutamente di quello che non faccia la scultura. Per questa ragione apparisce che Michelangelo subitamente arrivò coi suoi affreschi della Cappella Sistina, ad un grado di fama a cui non lo avevano innalzato il David e la Madonna della Febbre. Se Bramante aveva cercato di annichilire il rivale, facendolo dipingere a fresco, aveva commesso uno sbaglio portentoso. Michelangelo spiegò la più consumata arte del disegno in quelle centrali composizioni della vôlta; la più gran dignità di trattamento nel difficile soggetto della Creazione; la più elevata bellezza della forma nelle figure di Adamo e di Eva - il primo uomo e la prima donna; - la più forte e drammatica passione nel Diluvio. E quello che non poteva immaginarsi fu, che egli si mostrò, se non un brillante, un sapiente colorista. Il colorito di quelle vaste pitture simili a nubi, era così luminoso e così graziosamente intonato, le tinte delle carni dei nudi così chiare; così ben calcolata l'architettura dei contorni, che anche il suo gran nemico non potè negargli il merito di essere un grande e originale artista decorativo. Ciò che emergeva dall'intiera opera era la titanica personalità dell'uomo, che riusciva a fondere forma, colore, architettura nella sublime realizzazione di una singola e peculiare visione.

Poi le porte della Cappella Sistina si richiusero, e Michelangelo tornò al suo solitario lavoro. Non sappiamo nulla di quello che passò durante i mesi seguenti; ma nell'ottobre del 1512 la Cappella fu nuovamente aperta, e i Profeti e le Sibille e i nudi Geni sulle loro mensole apparvero nel loro incomparabile splendore. Le lunette e gli angoli delle vôlte furono scoperte coi gruppi di figure istoriate. L'intiero schema si mostrò finalmente nella sua stupenda gloria e forza. Gli artisti confessarono [341] ad una voce che niente v'era nell'arte che si potesse paragonare a quell'opera - artisti che disperavano di un ulteriore progresso dell'arte sotto il rispetto dell'esecuzione. Michelangelo aveva mostrato quello che Michelangelo solo poteva fare. Un mondo di potenti forme umane era stato distribuito e schierato nei cieli sul capo dell'uomo. Niente stonava nello stupendo schema: non v'era una linea, non un'attitudine ripetuta. La bellezza e il ritmo governavano l'intiero complesso. Una musica visibile era stata creata per l'eternità.

Subito dopo l'esecuzione degli affreschi della Cappella Sistina, Giuliano Della Rovere morì, e Giovanni de' Medici fu fatto papa col titolo di Leone X. Il nuovo Pontefice figlio di Lorenzo il Magnifico, non solo come Papa, ma come patrono ereditario, aveva il diritto di pretendere i servigî del Buonarroti. Nell'autunno del 1515, Leone formò il disegno di completare la chiesa Medicea di San Lorenzo con la costruzione di una grande facciata, di una Libreria e di una nuova Sagrestia. Il cardinale Giulio de' Medici suo nipote (che fu poi Clemente VII), prese ancora più grande interesse allo schema, la cui esecuzione fu commessa a Michelangelo. Invano Michelangelo protestò che egli era già più che occupato colla Tomba di papa Giulio. Invano egli gridò che l'architettura non era mestier suo. Fu obbligato a sottomettersi, e per diciotto anni, dal 1516 al 1534, la sua vita fu principalmente occupata nell'opera di San Lorenzo. Fece i disegni per la Facciata, per la Sagrestia, e per la Libreria. Passò anni interi nelle cave di Carrara e di Serravezza, estraendo blocchi di marmo per quei principeschi edifici. Si dedicò allo studio dell'architettura, tracciò strade, fece contratti con muratori e con capi muratori: fece davvero ogni cosa meno quello a cui il suo genio lo aveva destinato. Lo scalpello, durante tutto questo tempo, rimase relativamente inoperoso nella sua bottega.

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Vediamo che cosa ci resta dei tre disegni dei Papi a San Lorenzo. La facciata non fu mai eseguita. Quello che ne sappiamo è che doveva essere ornata di statue in nicchie e di bassorilievi. La scala della Libreria era pressochè finita quando Michelangelo abbandonò l'opera. Dall'architettura incompleta, è evidente che i numerosi spartimenti e le nicchie erano anch'essi destinati alla scultura. In questo tempo Michelangelo, che era stato costretto a farsi architetto, considerava i muri soltanto come superfici adatte per esporvi delle statue. La gran sala della Libreria e le sue decorazioni in legno, furono eseguite sotto la sua sorveglianza da abili artefici. Fra questi edificî, quello in cui è meggiormente impressa l'orma del genio di Michelangelo, è la Nuova Sagrestia. Noi la vediamo ora quale Michelangelo intendeva che dovesse essere. La cupola e i muri nudi al disopra delle partiture marmoree, erano destinate per le decorazioni a fresco. Le nicchie di queste partiture marmoree dovevano essere riempite di statue. Anche il muro fronteggiante l'altare avrebbe dovuto esser dipinto, e la superba Madonna avrebbe dovuto troneggiare sopra una mensola sporgente fra i santi Cosimo e Damiano.

Ci resta abbastanza del piano originale per fare di questa Sagrestia una delle opere d'architettura e di scultura più stupende d'Italia. Lo stile architettonico è tanto originale quanto lo statuario. Ambedue riflettono l'opera di un singolare genio, che non ha nè confronti, nè uguali; e ambedue colpirono i contemporanei come rivelazione di nuove possibilità nell'arte. Durante l'erezione della Cappella, i due ultimi eredi maschi legittimati di Lorenzo il Magnifico - Lorenzo duca d'Urbino, e Giuliano duca di Nemours - morirono. Fu finalmente deciso di consacrare la Cappella alla loro memoria, e di erigere le tombe coi ritratti in marmo di questi Principi.

Michelangelo concepì i sepolcri Medicei in un austero [343] spirito di allegoria; non curandosi di riprodurre i lineamenti dei Duchi. Lorenzo, chiamato “Il pensieroso„, è un simbolo del lato più oscuro dell'umana natura. Immerso in una profonda melanconia e sprofondato in una perpetua e cupa tristezza, siede meditando sulla morte e il destino, sulla caduta degli imperi e sul fato dei re. Giuliano, avvolto in una luce più viva, colla fronte più serena, in un'attitudine più vivace, rappresenta le energie della vita umana, le nostre attività e le nostre speranze, i nostri desiderî e le nostre ambizioni. Sotto i loro troni, contorte in strane attitudini sulle curve dei sarcofagi, sono quelle quattro tremende allegorie enigmatiche, simili a Sfingi, alle quali i nomi della Notte e del Giorno, del Crepuscolo e della Sera sono stati dati appropriatamente. Ma esse significano assai più di quello che quei titoli importano. Come le statue dei Duchi allegorizzano due differenti aspetti dell'esistenza umana; così i quattro genî stanno quali simboli del sonno e della veglia, dell'azione e del pensiero, delle tenebre della morte e dello splendore della vita, dello stato intermediario fra la tristezza e la speranza, che formano i confini dell'una e dell'altra. La vita è un sogno fra un sonno e l'altro; il sonno è il gemello della morte; la morte è la porta della vita: questi sono i velati e misteriosi pensieri suggeriti da questi miti titanici.

Ricordatevi che non solo la linea maschile di Lorenzo il Magnifico si era estinta fra il principiare e il finire di questa opera a San Lorenzo; ma la stessa Repubblica di Firenze era morta. Michelangelo era stato testimone del sacco di Roma, dell'assedio di Firenze, della completa estinzione delle libertà italiane compiuta da Carlo V a Bologna. Egli aveva avuto una parte direttiva nella difesa della sua nativa città contro gl'Imperiali; e quando riprese lo scalpello aveva il cuore pieno di mestizia, d'indignazione, di dolore.

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Ecco perchè l'Aurora si slancia dal suo giaciglio con uno spasimo di tragico dolore. Il suo destarsi è simile al tornare della conoscenza in colui che è restato annegato e riapre gli occhi stanchi sopra un mondo ruinato. Ecco perchè la Notte giace intieramente assorta nell'oscurità e nell'ombra della morte, così che pare impossibile scuoterla da quell'eterno letargo. No, non si desterebbe anche se potesse.

Caro m'è il sonno e più l'esser di sasso.

Mentre che il danno e la vergogna dura

Non veder, non sentir, m'è gran ventura.

Però non mi destar; deh, parla basso!

Questi furono gli angosciosi pensieri che Michelangelo espresse nella sostanza e nella forma delle sue grandi statue. Esse vibrano con melanconia, come la musica di una sinfonia funebre, come il canto di morte e la marcia funebre d'una nazione. Quando papa Clemente morì, lo scultore posò il suo scalpello, abbandonò la Sagrestia incompiuta, e non tornò più a Firenze. Passò il resto della sua lunga vita a Roma lavorando ancora sotto una serie di cinque Papi.

Paolo III lo rimandò alla Cappella Sistina. Doveva ricoprire con un affresco, rappresentante l'Ultimo Giudizio, la parte occidentale, al disopra dell'altare. Quest'opera nella quale occupò cinque anni, anche rovinata, resta il lavoro più straordinario dell'arte pittorica. Michelangelo aveva sessant'anni quando cominciò questo affresco. La freschezza e il vigore del suo genio giovanile eran passati; ma la profonda scienza sopravviveva nella sua piena attività. Senza ricorrere alla natura, poteva, colla sua conoscenza della forma umana, inventare attitudini, atteggiar corpi nell'aria, tracciare movenze estremamente audaci. Sdegnò introdurre un solo motivo che non fosse figura, e tutte le sue figure, i gruppi di forme umane [345] che si alzano e cascano e s'intrecciano, sono nude. Arrivati a questo tempo, il suo tipo della forma così realista nel David, così intimamente studiato dal vero nel Cartone, così sublimemente bello nella vôlta della Sistina, era irrigidito nel manierismo. Nell'esecuzione di ampie composizioni pittoriche, è impossibile seguire da vicino il modello. L'artista deve preservare una certa unità di tipo e stabilire proporzioni d'analogia fra tutte le sue figure. Infatti egli deve creare una razza di uomini e donne a sua somiglianza; - secondo la somiglianza di un'immagine archetipa della sua mente. Ciò cominciò a fare Michelangelo nel Cartone e lo continuò nella vôlta; ma divenne rigido e inalterabile nell'Ultimo Giudizio, s'inscheletrì e si paralizzò negli affreschi della Cappella Paolina.

Domandiamo quali fossero i larghi contorni di questo tipo che dettero corpo al sentimento di Michelangelo per la dignità e bellezza della forma umana. Lo discopriamo all'altezza della perfezione nel suo Adamo. La testa piccola, il collo corto ma proporzionalmente muscoloso, le spalle immensamente larghe, il torace gagliardo; le braccia lunghe terminanti in grandi mani robuste; corto l'addome, le cosce prolungate al di là della loro consueta lunghezza, piedi corrispondenti in larghezza alla grandezza delle mani. Col progredire del tempo, le spalle e il torace si svilupparono in grossezza, finchè divennero pesanti. Queste proporzioni determinavano il suo tipo femminile. Si può dire infatti con verità che le sue donne sono soltanto una specie un po' differente di uomini. Egli non sentì mai la reale grazia e bellezza della verginità. Tutte le sue figure femminili - la Notte, l'Alba, Leda, le donne del Diluvio - sono donne adulte con gli attributi della maternità. Primitivi, titanici sono gli epiteti per descrivere la razza umana fatta dal Buonarroti secondo l'immagine sua propria. Egli creò maschi e femmine; [346] ma essi non sono simili in niente agli esseri del nostro globo; sembrano appartenere a quelli di qualche lontano pianeta, dove le linee del paesaggio sono più semplici e le forze della natura son più efficaci.

La vecchiaia di Michelangelo fu quasi tutta consacrata alla costruzione del San Pietro. Abbiamo veduto che il disegno della tomba di papa Giulio condusse alla distruzione della Basilica di Costantino. Bramante nel 1505 era occupato nell'erezione di una nuova chiesa. Preparava piani, schiariva gli spazii e gettava le fondamenta; ma non visse tanto da compiere l'opera sua. Raffaello da Urbino, Baldassare Peruzzi, e Antonio di San Gallo, furono successivamente impiegati in quell'edificio. Ogni architetto alterò il disegno del predecessore. L'opera fu frequentemente interrotta da qualche disastro in Italia - specialmente dalla tragedia del sacco di Roma nel 1527. Il Sangallo si decise finalmente per un disegno che contraddiceva lo spirito della concezione Bramantesca. A questo punto, nel 1546 il Sangallo morì. Michelangelo era allora indicato come architetto in capo. Egli ripudiò il modello del Sangallo e ne preparò uno nuovo che corrispondeva più intimamente al disegno originale della chiesa. Questo fu accettato e per diciassette anni egli diresse le costruzioni con meravigliosa energia in uomo di età sì avanzata. Già un mezzo secolo era trascorso da che egli era entrato al servizio di papa Giulio.

Facciamo una pausa per ritrovar fino a che punto la presente Basilica di San Pietro è la genuina produzione dell'intelletto del Buonarroti. La sublime caratteristica che salva questa chiesa da una gigantesca mediocrità - la Cupola, che sorge come una lirica da una massa di prosa pretenziosa - appartiene a Michelangelo. Insuperabile per originalità, impareggiata per audacia, la Cupola di San Pietro è sufficiente a proclamare la grandezza del Buonarroti come architetto. Noi, fortunatamente, [347] possediamo il modello in legno per la cupola che fu costruito sotto i suoi propri occhi. Nonostante che certi particolari, i quali avrebbero aggiunto grazia e forza alla struttura, siano stati omessi dai successivi architetti, tuttavia le parti essenziali del disegno - la squisita curva esterna, la vasta ed eccelsa concavità della vôlta interna - sono state conservate. Questo rimane quindi indiscutibile proprietà del genio di Michelangelo.

Ma gli architetti che successero a Michelangelo nell'opera di San Pietro, il Della Porta, il Maderno ed altri, alterarono talmente il suo disegno, che le linee principali ne furono sfigurate. Egli intendeva di conservare la forma di una croce greca, che avrebbe permesso alla Cupola di dominare l'intero edificio: essi vi aggiunsero una nave e la pesante facciata, che riduce insignificante la Cupola. La grandezza del primo concetto, noi la sentiamo soltanto quando vediamo il San Pietro da lontano; o dal Pincio, o meglio ancora da Tivoli o da Ronciglione.

L'ultimo periodo della vita di Michelangelo fu illuminato da un'amicizia, che è forse il più celebre episodio della sua esistenza, voglio dire della stretta intimità che lo unì a Vittoria Colonna, marchesa di Pescara. Non sappiamo quando prima si conobbero: era probabilmente verso l'anno 1540; ma è certo che quando la loro amicizia si strinse, Michelangelo aveva 60 anni e Vittoria era sui 50. È perciò ridicolo parlare di amore appassionato fra l'illustre principessa e il potente scultore. La falsificazione del testo delle poesie di Michelangelo ha portato una gran confusione in quest'affare; ma ora sappiamo che soltanto alcune di esse furono scritte per la Marchesa e che la maggior parte erano dedicate a persone delle quali, ad eccezione di Tommaso Cavalieri, giovane gentiluomo romano, poco sappiamo.

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Nè sentimentale, nè romantica, quest'amicizia fu per altro ben reale. Michelangelo e Vittoria simpatizzavano nel loro sentimento religioso: ambedue per gusto ed inclinazione appartenevano a quelle persone veramente pie del Rinascimento, che desideravano una riforma della Chiesa fatta da sè stessa, e che avrebbero salutato con gioia una maggior larghezza nel suo credo dogmatico nella direzione della fede evangelica; ma ambedue erano, nel vero significato, devoti figliuoli della Chiesa Cattolica. Considerarli appartenenti alla sètta di Lutero, o parteggianti per la riforma germanica, sarebbe affatto ingiustificato dall'evidenza.

Durante tutta la sua vita, Michelangelo fu profondamente religioso. È probabile che nella sua prima gioventù egli sentisse l'influenza del Savonarola; è certo che continuò ad essere uno studioso della Bibbia. Poche delle sue grandi opere furono d'argomento profano. Abbiamo soltanto il Bacco, l'Amore, il Bruto e alcuni pezzi meno importanti di statuaria, da contrapporre alla Pietà del San Pietro, alla Madonna di Bruges, alla Sagrestia Medicea, alla Pietà del Duomo, al Cristo risorto, al David, agli affreschi della Cappella Sistina, e a tutte le figure che furono disegnate per le tombe di papa Giulio e dei duchi Medici. La sua immaginazione fu dunque sempre occupata da soggetti sacri. Perciò, in vecchiaia, sembra ch'egli sentisse che le attrattive della bellezza, l'interesse dell'arte pura, gli affari del mondo, avevano occupato troppo la sua attenzione. In varî dei suoi ultimi sonetti avvertiamo una nota di rimorso e di rimpianto. In questo tempo appunto, quando i suoi pensieri si volgevano con profonda austerità verso Cristo, quando la morte si approssimava, e le cure di questo mondo andavano perdendo presa sulle sue affezioni, i consigli e la simpatia di Vittoria furono il conforto più grande per la sua anima.

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Tale era la vera natura di un legame che altri s'è ostinato a presentare in una luce falsa. Sotto l'influenza di Vittoria, Michelangelo compose un gran numero di disegni a matita bianca e rossa per illustrare la Passione e la Crocifissione di Nostro Signore, i quali formano un interessantissimo capitolo della sua produzione artistica. Senza dubbio, egli disegnò qualche monumentale opera in marmo o a fresco; ma niente d'importante sopravvive, eccetto la Pietà, che è nel Duomo di Firenze.

Principalmente pei sonetti e madrigali di Michelangelo composti dopo il suo ritorno a Roma nel 1534, lo consideriamo Poeta. Come ho già detto, alcuni di questi sonetti sono puramente religiosi e notevoli pel candore evangelico della loro fede nel merito redentore della Croce di Cristo; ma per la maggior parte sono effusioni altamente astratte e filosofiche, inspirate da un senso appassionato della bellezza, e ombreggiate di platonismo. In qualche periodo della sua vita - probabilmente quando faceva parte delle riunioni di Lorenzo il Magnifico a Firenze - egli bevve a larghi sorsi alla sorgente delle speculazioni platoniche. Niun poeta moderno ha espresso la dottrina del Fedro e del Simposio con più ardore di commozione personale. Niuno si è così intieramente assimilato il misticismo di quell'alta filosofia. Per Michelangelo, come già per Platone, la Bellezza è la manifestazione della divina idea ai nostri sensi mortali, incarnata nella più alta opera di Dio: la forma umana. L'amore della bellezza in una persona adorata, non è amore sensuale, non è appetito, non è neanche semplice desiderio: è la ricognizione di uno dei divini attributi nella sua espressione fisica più perfetta. Un tale amore inalza l'anima; a traverso la sua commozione per l'amata, conduce l'amante più presso a Dio e lo fa ardentemente aspirare a quell'eterno reame al disopra del [350] nostro mondo, nel quale la Bellezza stessa sarà rivelata senza l'interposto velame della carne.

Troppo rara e intellettuale per la moltitudine, è la sfera di pensieri nella quale ci introducono le poesie di Michelangelo. Queste, come le sue concezioni della forma plastica, hanno qualche cosa di repulsivo nella loro austerità. Gli stessi pensieri si afferrano difficilmente, e lo stile è tutt'altro che perfetto. Michelangelo stesso si professava “dilettante di poesia„. L'espressione è difettosa a causa della grammatica storpiata: le metafore sono studiate, i ritmi aspri. Tuttavia il Varchi mostrò una giusta percezione critica, quando lodò quegli ammirabili sonetti per la loro forza ed elevazione dantesca. Nel Cinquecento, l'età dello scritto fluente e del pensiero poco profondo, egli si presenta come uno degli antichi, dei primitivi, tornato alla vita. E nella sua purezza ed astrattezza, la commozione di Michelangelo offre un singolare contrasto colle inzuccherate affettazioni e sensualità allora in voga. Uno studioso di psicologia trova nelle rime del Buonarroti, la miglior chiave del suo ingegno, come scultore, come affreschista, e come architetto.

L'uomo, infatti, era tutto d'un pezzo. Sia che si consideri come artista plastico, o come architetto, o come poeta; ne emerge la stessa singolare ed unica personalità. L'anima sua non ha nè contradizioni, nè stonature.

“Natura il fece, e poi ruppe la stampa.„

Se questa è l'espressione vera per l'arte sua, non è meno vera per la sua vita. I novant'anni ch'egli passò sulla nostra terra, comprendono il più glorioso e insieme il più tragico periodo della storia italiana. Michelangelo fu testimone dello splendore d'Italia sotto la pacifica presidenza di Lorenzo il Magnifico. Vide l'Italia dismembrata [351] dalle guerre di Francia e di Spagna nelle sue più belle provincie; vide la rovina delle sue città più superbe, e l'estinzione delle libertà antiche. Osservò accumularsi nel Nord la tempesta della riforma germanica. Visse durante la reazione cattolica, e morì quando il Concilio di Trento aveva fondato una nuova Chiesa per la cristianità occidentale. A traverso questi cambiamenti, Michelangelo seguì una sola linea di condotta. Egli non deviò mai dalla traccia che si era prescritta. I contemporanei s'accordano nel dire che la sua vita privata, fra le tante opportunità di errare per passione o per debolezza, fu irreprensibile. Noncurante del suo proprio benessere, si dedicò a formare la fortuna della sua famiglia. Fu figliuolo ubbidiente e fratello affettuosissimo. La sola debolezza che si rivela dalla sua corrispondenza privata, è una certa irritabilità di carattere e una certa diffidenza, dovute in parte alla eccessiva tensione nervosa dell'artista, e in parte all'ingratitudine che incontrò tanto spesso. L'unità del suo carattere, che fa di lui una monumentale personalità, proviene dall'esser conseguentemente e persistentemente vissuto per alti pensieri, per nobili emozioni, per l'arte sublime. Possiamo riassumere tutto in una frase e proclamare Michelangelo Buonarroti essere stato l'Eroe come Artista. A traverso i secoli a venire, le sue opere, le sue lettere, e la sua vita, faranno più e più manifesto che almeno per una volta, l'età moderna ha prodotto con quella di Michelangelo un'anima eroica, che consacrò sè stessa con tutte le sue forze a servizio del buono, del bello, dell'eterno nell'Arte. Gli uomini differiranno nelle facoltà di apprezzare o di assimilarsi la sua arte. Molti troveranno la regione del suo genio troppo remota, troppo astratta, troppo terribile. Sospireranno alla grazia di Raffaello, al sorriso del Correggio, alla luce dorata del Tiziano, alla mistica grazia di Leonardo.

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Michelangelo appartiene alla specie delle nature profonde, violente, gigantesche, appassionatamente lottanti; non a quella dolce, serena, aperta, squisitamente armoniosa e perfettamente composta. La inflessibilità con cui si attenne sempre fedele al proprio ideale - la salda unità del suo genio in tutte le sue forme - quasi gemma trasparente, agisce come pietra di paragone sulle nostre personali inclinazioni e sensibilità. Tuttavia, nessuno può contestare la sua sovraeccellenza di grandezza. Sia lode a Dio, che concede all'umanità artisti differenti per tipo e per qualità personali, ognuno dei quali incarna qualche speciale porzione dello spirito universale (world spirit), legando alle età successive rivelazioni segnalate e inimitabili di quel mondo ideale che è al di là della nostra terrena visione.

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