I.

Le forme dell'una e dell'altra maniera, della lirica amorosa e della lirica d'argomento civile e filosofico, che la caricatura ci ha mostrate con l'ingrossamento satirico dei difetti eran venute al secolo decimosesto per antica eredità di famiglia: belle masserizie, onde si erano adornati riccamente un tempo i palazzi degli avi, ma stinte ormai nelle stoffe, annerite negli ori, scrostate nelle impiallacciature, e anche qua e là tarlate nel legno; non più adatte, per giunta, senza un po' di disagio, ai mutati usi del vivere. Nè per la storia dell'arte accadde in diverso modo che per quella della natura: il frutto che giunse a perfetta maturità deve necessariamente guastarsi; può aver grazia un po' acerbo, fa nausea putrefatto. La lirica amorosa, civile, religiosa, della scuola che mosse da Guittone d'Arezzo, e fu de' Bolognesi e de' Toscani, e fu di Dante, aveva toccato l'estremo della sua virtù nel Canzoniere del Petrarca; nel Canzoniere che potrebbe per ciò dirsi a ragione il capolavoro del dolce stil nuovo. Ma il capolavoro d'un genere d'arte non si ha senza scelta, rimondamento, politura; e ciò che in esso è perfezione diviene negli imitatori estenuazione e progressivo esaurimento. Onde a mano a mano, nella lirica nostra della fine del secolo decimoquarto e di tutto il decimoquinto, fu un batter monete d'argento e di rame su quella forma stessa dove il Petrarca avea battuto le sue d'oro con l'effigie di Laura; e l'effige riusciva sempre più sbavata ne' contorni, da non potersi in fine riconoscere più. Tanto che il pubblico cominciò a brontolare contro la zecca; e Pietro Bembo dovè, sempre con l'effigie di Laura, rifare i punzoni, e ingannar l'occhio con argento dorato.

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Non vorrei stancarvi con le metafore, e dico alla buona la cosa. Il Petrarca, cantando Laura viva, cantando Laura morta, aveva accomodato al gusto comune quell'idealismo filosofico, onde era assurta alla vita sempiterna dell'arte la Beatrice dantesca: il Canzoniere, non è infatti, a ben considerarlo, che un volgarizzamento della Divina Commedia. Beatrice, troppo sublime negli splendori de' cieli teologici, fu subito vinta nell'ammirazione popolare da Laura: la quale pur essa scorge il suo poeta a Dio, e nel cospetto di Lui lo precede, quasi a insegnargli la via; ma resta anche lassù donna vera, sì che il primo pensiero ch'ella ha, giunta in Paradiso, è di dare un'occhiata agli angeli più belli, per vedere se siano più belli di lei. Non altrimenti per la lirica civile e filosofica il Petrarca faceva gradite a tutti le intonazioni più elette dei suoi predecessori, schivando sempre la pedanteria de' sillogismi e l'astruseria delle dottrine scolastiche. Stile e lingua egli, nato in Toscana, ma educato e cresciuto e vissuto fuori, si compose con quanto il toscano avesse di più colto e letterario, senza crudi latinismi sintattici, da un lato, senza bassi idiotismi fiorentini, dall'altro: il che vuol dire che pur qui mise in pratica, e fe' accettare ai rimatori d'ogni parte d'Italia, l'intendimento di Dante, il volgare illustre che fosse a tutti i nostri comune. Determinò pertanto alla lirica gli argomenti, i metri, lo stile, la lingua; e fece testo.

Fu un bene o un male? È la solita domanda; e, mentre io la muovo, le date voi stessi una risposta assennata. Fu un bene in sè, nell'opera del Petrarca; fu un male per gli effetti, nell'opera dei tanti che trovarono aperta e spianata la via ai loro esercizii in rima: ma del bene la lode è di messer Francesco; del male non va a lui il biasimo. Que' tanti che imitarono lui non si sarebbero mica astenuti dal far versi, perchè fosse loro mancato il modello del Canzoniere! Sia pure che non avremmo [274] avuti i petrarchisti; ma senza quel modello puro, avremmo avuto chi sa quale altra ciurmaglia di rimatori; nè migliori nè peggiori, forse, pe' concetti poetici; certo, più rozzi nell'esecuzione. Tanto è vero che quando il petrarchismo, per una parte del secolo decimoquinto, venne quasi a mancare, o per lo meno degenerò, poi che non sorgeva un intelletto possente a rinnovare, minor male fu che il Bembo richiamasse all'origine sua il petrarchismo medesimo e lo ritemprasse. Insieme coi goffi verseggiatori che faticavano a guadagnarsi il tozzo di pane per gli accampamenti de' capitani di ventura, dando loro a tutto spiano dell'Alessandro, del Cesare, dell'Augusto; insieme con gl'ingegnosi rimatori di concettuzzi amorosi per le corti de' principi; il Bembo tolse via, quasi di contraccolpo, anche i facili cantori che sugli esempii del Giustinian e del Poliziano traevano dal popolo e al popolo restituivano le rime delle ballate e degli strambotti. Ma, siamo giusti, il danno non fu grave: dopo i veneti e i toscani, anche i napoletani si erano ormai provati e riprovati su que' pochi motivi popolari delle benedizioni, delle maledizioni, delle disperazioni amorose; e non perdemmo proprio nulla nel cambio, se uno strambotto si mutò in un sonetto, una ballata si mutò in una canzone. Poesia schietta, di vena, non zampillava più, nè per questi nè per quelli: tra le rozze rime de' petrarchisti antiquati, le raffinatezze di concetto de' petrarchisti più recenti, le sguaiataggini de' poeti popolareggianti, pareva che all'anima italiana non dicessero più nulla le mille voci della natura e dell'affetto.

Eppure le primavere nostre fiorivano, come già agli occhi del Petrarca quelle di Provenza; stormivano le selve nostre, come la pineta che Dante fe' degna di raffigurare il Paradiso Terrestre; tremolavano le marine lungo le coste d'Italia; le Alpi si ergevano candide nell'azzurro del cielo o si coprivano di tempeste. Nè gli odii [275] e gli amori erano men caldi d'un tempo; chè il desiderio, la gelosia, l'invidia, il furore, la carità, movevano ancora nel bene e nel male gli uomini tutti, e grandi imprese si compievano intanto di guerre e di paci; e grande, più grande che mai, era il dissidio delle coscienze. Perchè dunque non avemmo un'alta poesia lirica? Guardiamoci dall'errore in cui caddero quelli che troppo filosofeggiando confusero le ragioni dell'arte con quelle della vita: non mancò mai nella vita, nè mai potrà mancare, la materia poetica, ma soltanto a distanza di secoli sorgono i grandi che a una qualche parte della vita san dare l'espressione del bello. E quando un dato modo di esprimere la vita, che è come dire una data forma letteraria, fu adoperato da l'un di loro, è vano l'industriarvisi su, e conviene aspettare; verrà poi un altro eroe dell'arte, e con altri modi rappresentando un altro aspetto della vita, che si trasmuta senza posa nelle sue sembianze, lo donerà eterno alla gioia del genere umano.

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