II.

La lirica medievale, addestrata dai trovadori di Provenza, aveva rappresentato mirabilmente nella Vita nuova e nel Canzoniere, l'ideale neolatino dell'amore e della fede; e l'officio suo era compiuto. Altri aspetti della vita del Medio Evo e del Rinascimento dovevano esser colti ora e perpetuati dall'arte; e nel romanzo preparato dai troveri di Francia, ecco il Boiardo, l'Ariosto, Torquato Tasso, esprimere l'ideale cavalleresco. Ma già la sottile analisi delle passioni incominciava anch'essa a chiedere chi l'addestrasse ai capilavori di Shakespeare e di Molière; e i comici e i tragici nostri, e più i novellieri, [276] vi si affaccendavano intorno: cominciava già a chiedere un'espressione piena e viva nella lirica il sentimento della natura e quello della storia; e, non sapendo far di meglio, alcuni studiavano come si potessero almeno rimutare per ciò le corde del liuto, ed altri, più arditi, mutare a dirittura l'istrumento. Vedremo, tra breve, a che riuscissero. Mi giova intanto sperare di aver mostrato che, se pur il vecchio liuto medievale del Petrarca non era tutto scordato, ben poco vi potevano ormai cantar su con novità ed efficacia i lirici del secolo decimosesto.

Camuffatisi più o men bene da messer Francesco, costoro atteggiavano la donna amata a somiglianza di madonna Laura; e sè e le belle ricantavano con quei modi che duecento anni prima erano piaciuti principalmente per virtù del sentimento, e piacevano ora principalmente negli effetti dell'elocuzione. È stato detto che quando l'uomo si contenta di chiedere a Dio un po' di periodi, Dio non glieli nega mai: credo che nella sua infinita larghezza non gli si mostri meno prodigo pe' versi; e i versi è anche più facile comporli, se lo scioperato non si studia di esprimervi schietto e aperto l'animo suo, ed ha in mente soltanto un modello da imitare, e innanzi sul tavolino ha i vocabolarii e i rimarii che gli agevolino i riscontri. Il Canzoniere era in tutte le menti; i vocabolarii e i rimarii dedotti dal Canzoniere, su tutti i tavolini dei poeti. Da quel cerchio magico i più non sapevano uscire: lascivi, scettici, partigiani, nei palazzi, nelle corti, ne' campi; platonici, cristiani ferventi o contriti, invocatori di pace, nei sonetti e nelle canzoni; mentivano agli altri e a sè stessi. In ciò la colpa di quella lirica, ed il castigo. Perchè, se pure una troppo breve esperienza sembri qua e là accennare il contrario, non è dubbio che, alla fine, tanto nella vita politica quanto nella intellettuale, la vittoria spetta agli uomini e alle imprese di buona fede. [277] Quella lirica non fu in buona fede, e per ciò morì quasi intiera nella coscienza della nazione.

Dell'imitazione scrupolosa e meticolosa del Petrarca fu, come già ebbi ad accennare, iniziatore Pietro Bembo. Nè qui vorrei ritogliergli la lode, se lode fu, che dianzi gli ho data, di aver rifatti a nuovo i punzoni per l'effigie di Laura, e di aver battuto le monete di argento dorato: un minor male è pur esso un bene. Ma confermando con l'autorità sua di filosofo platonico, di legislatore grammaticale, di verseggiatore elegante, l'imitazione del Canzoniere, non è dubbio che egli ritardò lo svolgimento verso forme nuove e più rispondenti ai tempi mutati; non è dubbio che egli diè, con un insigne esempio di correttezza nello stile e nella lingua, un esempio non meno insigne di ciò che ho potuto dire mala fede, perchè parlavo del fenomeno letterario in generale, e dirò ora invece scetticismo estetico, perchè parlo di un uomo che nella storia delle lettere nostre non merita oltraggio. Fatto sta che, a quarantatrè anni, egli s'innamora di una fanciulla di sedici, la fa sua (non con la mano destra), vive con lei, ne ha tre figli. Al futuro cardinale di Santa Chiesa, preconizzato pontefice, non faremo rimprovero acerbo di ciò che pareva a' suoi tempi scusabile; ma al poeta possiamo ben chiedere perchè i sorrisi della sua Morosina, perchè i sorrisi de' figli suoi, non trovarono in tante rime un accento solo che li legittimasse, se non nella vita, nell'arte. Perchè? perchè Laura De Sade aveva sempre respinti gli omaggi di messer Francesco Petrarca, ed aveva dati i figli, non a lui, al marito. Ma il Bembo avrebbe dovuto considerare che messer Francesco cantò soltanto quelle repulse vere, e i pentimenti suoi veri; nè mai invece recò nei versi platonici, mentendo, la donna che l'amò e che lo fe' padre.

La Morosina morì, giovane ancora, a trentotto anni; e l'amico suo, che ne aveva ormai sessantacinque, pianse [278] in rima, con più sonetti, tanta sciagura. Que' sonetti posson muovere a riso chi li scorra cercandovi una qualche testimonianza di affetto sentito, e vi s'imbatta invece in sospiri di questa fatta:

O per me chiaro e lieto e dolce solo

Quel dì (nè può tardar s'ella m'ascolta)

Che squarcerà questa povera gonna!

O trovi lodi di quest'altro genere:

Spenta colei ch'un sol fu tra le belle

E tra le sagge, or è mio nembo interno,

Forme d'orror mi sembra quant'io scerno;

Esser cieco vorrei per non vedelle.

Ch'i' non so volger gli occhi a parte, ov'io

Non scorga lei fra molte meste, o lasso!,

Chiuder morendo le sue luci sante.

O legga riflessioni come queste:

Come a sì mesto e lacrimoso punto

Non ti divelli e schianti, afflitto cuore,

Se ti rimembra che alle tredici ore

Del sesto dì d'agosto il sole è giunto?

In questa uscìo de la sua bella spoglia

Nel mille cinquecento trenta cinque

L'anima saggia; ed io, cangiando il pelo,

Non so però cangiar pensieri e voglia

Ch'omai si affretti l'altra e s'appropinque,

Ch'io parta quinci e la rivegga in cielo.

Ma stringono invece il cuore, se torna la mente ai sospiri, alle lodi, alle riflessioni consimili che al Petrarca aveva ispirato l'amore non corrisposto per la moglie di Ugo De Sade; se torna la mente al realismo (proprio così, perchè il Petrarca fu anch'egli un grande realista) di que' versi famosi:

[279]

Tornami a mente, anzi v'è dentro, quella

Ch'indi per Lete esser non può sbandita,

Qual io la vidi in su l'età fiorita

Tutta accesa de' raggi di sua stella.

Sì nel mio primo occorso onesta e bella

Veggiola, in sè raccolta, e sì romita,

Ch'io grido: Ell'è ben dessa! ancor è in vita!

E in don le chieggio sua dolce favella.

Talor risponde, e talor non fa motto.

Io, com'uom ch'erra e poi più dritto estima,

Dico a la mente mia: Tu se' ingannata:

Sai che 'n mille trecento quarant'otto,

Il dì sesto d'april, ne l'ora prima,

Del corpo uscìo quell'anima beata.

Son versi che voi sapete a mente, e potevo risparmiarmi di ripeterli; ma a far palese che la copia d'un quadro è cattiva, non c'è miglior modo del porla lì accanto al quadro stesso. E delle cose belle è sempre vero quel che il Petrarca diceva di Laura, non averla veduta ancora tante volte che non le trovasse bellezza nuova; e non volevo io, petrarchista fervente, lasciarmi sfuggire l'occasione di rammentare, innanzi a voi, uditorio intelligentissimo, il torto, il gran torto, che fa alla memoria d'un alto poeta chi lo confonde, nel biasimo e nel disprezzo insiem con la turba de' suoi ricantatori.

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