LA LIRICA DEL CINQUECENTO

DI

GUIDO MAZZONI.

Signore e Signori,

Se volessi richiamare con mezzi che direi illeciti la vostra attenzione a un argomento, come questo è, che non merita molta curiosità, nè può sperare di destarla, comincerei audacemente, con un paradosso, così: la miglior maniera per rappresentare fedelmente una persona è farle la caricatura. E forse con due o tre sofismi me la caverei abbastanza bene, quanto alla dimostrazione della sentenza affermata. Ma nè io mi compiaccio di tali gherminelle, nè voi siete un pubblico che vi resti preso, e per ciò restringo il paradosso in questa verità: nessun ritratto dà così vive le caratteristiche d'una persona, come la sua caricatura. Perfino la fotografia ha malizie di chiaroscuri e di ritocchi, e dissimula; la matita del caricaturista mette in luce senza pietà.

Non vi sembrerà strano, per ciò, ch'io vi presenti qui subito un caricaturista insigne, messer Mariano Buonincontro da Palermo. Costui, mentre era studente a Ferrara, ne' primi decennii del Cinquecento, se la godeva a verseggiare i più bei sonetti del mondo, chi li giudicasse dall'elocuzione e dal suono; ma elocuzione e suono non erano che una maschera vuota; sotto neppure un briciolo di senso! Dato a questi suoi versi un titolo ben [269] sonante, li spacciava fuori come opera di pellegrini ingegni: inescato l'amo, stava a vedere se i pesciolini abboccavano.

I più lievi che tigre pensier miei

Scorgendo il cor che tra duoi petti intiero

Tiene un pensier, poi che gl'ingombra il nero

E folle error, fuggono i casi rei.

E benchè da gli antichi semidei

Biasmato fosse ovunque ogni altro e fiero

Monte d'orgogli, ahi lasso, io già non spero

Gioir in quel disir che aver vorrei.

Son le quartine di un sonetto in morte dell'illustrissima signora duchessa d'Urbino. Le terzine andremo a pigliarle, tanto fa!, da un altro sonetto:

Ahi giustizia divina, come puoi

Non far quel che far dèi? qual fiero spirto

Fu quel che indusse questa peste al mondo?

Deh fuss'io stato allor posto nel fondo

Dell'Acheronte, che fui giunto al mirto

Ch'ombra mortal mi fa co' rami suoi!

Ma quel bizzarro palermitano non si contentava di vedere ammirate le rime sue dai tanti che le leggevano, come si fa, senza curarsi d'intenderle: fingendo aver dubbii sul senso, provocava il parere di cappati maestri; e vi fu un dotto senese che s'infiammò così da scrivere sul sonetto per la duchessa un commento diviso in quattro libri. Nè valse che l'autore dicesse poi la verità: il senese e gli altri non si dettero per vinti, e messer Buonincontro fu agli occhi loro uno sfacciato plagiario.

La caricatura ci dà a questo modo, con una linea comicamente sforzata, la immagine viva della lirica del Cinquecento in uno dei suoi aspetti più notevoli: la povertà della materia poetica, e la necessità che ne seguiva [270] di celare quella povertà col paludamento delle rime e coi fronzoli della rettorica. Rammentatevi il parlare ambiguo, il tacere significativo, il restare a mezzo, lo stringer d'occhio, il soffiare del conte zio ne' Promessi Sposi: “come quelle scatole, dice il Manzoni, che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c'è nulla.„ Tale gran parte di quella lirica. Ma, salvo messer Buonincontro, gli autori non si confessavano; anzi, come il conte zio, s'industriavano a far sì che la verità stessa prendesse una certa apparenza di mistero, con accrescimento della loro autorità; e per ciò, quando non si commentavano da sè, procuravano che altri li commentasse; e attorno a quattordici versi crescevano così quei commenti ponderosi di che ci ha dato or ora un esempio il dotto senese. Degli esempii eccone un altro, che scelgo a bella posta tra i più famosi; è di Torquato Tasso sopra un sonetto del Della Casa: “Sarà questa mia Lezione in due parti divisa; e nella prima si cercherà, in che sorte di stile sia questo sonetto composto; e trovatala, alcune cose communi a quella maniera di stile si considereranno, movendo, ove l'occasione il ricerchi, qualche dubitazione. Nella seconda parte poi, solo a quello che è proprio di questa particolar composizione s'avrà riguardo, e nella esposizione d'esso alquanto mi spazierò.„ Parole che, col debito rispetto alla memoria del Tasso, vorrei vi riuscissero d'un qualche conforto; perchè tali erano, Dio ne scampi, le pubbliche letture del secolo decimosesto!

Chiome d'argento fine, irte e attorte

Senz'arte intorno a un bel viso d'oro;

Fronte crespa, u' mirando io mi scoloro,

Dove spunta i suoi strali Amore e Morte;

Occhi di perle vaghi, luci torte

Da ogni obbietto diseguale a loro,

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e via dicendo, con le ciglia di neve, le mani grosse, le labbra di latte, i denti d'ebano rari e pellegrini, erano le bellezze della donna immaginata da Francesco Berni per deridere il formulario poetico col quale i divini servi d'Amore, cioè i poeti petrarcheggianti, usavano celebrare il fantasma femminile che, da Laura in poi, ondeggiava vaporoso a mezza costa del Parnaso italiano. Per i conti zii la gravità enigmatica; pei don Rodrighi e gli Attilii, epiteti già scelti, rime già suggerite, frasi bell'e fatte, ai ritratti, alle preghiere, ai lamenti, ai vanti d'amore. Come oggi per le signorine saper toccare il pianoforte, era allora, non solo pei gentiluomini e i valentuomini, ma anche per le gentildonne e, chiamiamole così, per le donne valenti, una parte necessaria della coltura il rimare. Ma del pianoforte non soffrono che i vicini; dei versi soffrivano tutti, perchè tosse, amore e versi non si celano. Onde il Berni medesimo usciva in questo sospiro di desiderio: “S'io son mai signore, dove gli altri sogliono per quiete e mantenimento del buon vivere mandar bandi e proibizioni che non si porti arme per la terra, io voglio mandarli, non si mostrino versi, e sopra ciò costituire un bargello particulare, che non attenda ad altro, dì e notte, che andar per la terra cercando le maniche e il seno a' poeti per li versi, come si fa dell'arme; e tutti quanti ne truova in fallo, tanti ne meni in prigione, dia la corda, e li impicchi ancora.„ Chè se intanto non si potesse, proponeva almeno che i convinti di poesia portassero in testa una berretta verde, per segno d'infamia, sì che la gente avesse modo di guardarsene a tempo.

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