Nella decadenza del vecchio, nella preparazione del nuovo, s'intende come ben poco avemmo che abbia importanza oltre la storia. Ma la poesia non era morta nella vita: quante volte l'arte ebbe il coraggio di rappresentarla schiettamente, tante riapparve, così nelle forme vecchie come nelle nuove, e ci commuove pur oggi. Cose non parole diceva Michelangelo; e ne' suoi versi duri palpita ancora il suo gran cuore per gli alti ideali dell'amore, della patria, dell'arte: egli a Dante risaliva, su dal petrarchismo, e Dante riabbracciava con ardore di concittadino e di confratello:
Di Dante mal fur l'opre conosciute
E 'l bel desio, da quel popolo ingrato
Che solo ai giusti manca di salute.
Pur foss'io tal! Ch'a simil sorte nato,
Per l'aspro esilio suo con la virtute,
Darei del mondo il più felice stato.
Un sentimento vero moveva l'Alamanni esule a riaffacciarsi dalle Alpi sulle terre d'Italia; e per ciò diceva anch'egli cose e non parole:
Io pur, la Dio mercè, rivolgo il passo
Dopo il sest'anno a rivederti almeno,
Superba Italia, poi che starti in seno
Dal barbarico stuol m'è tolto, ahi lasso!
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E con gli occhi dolenti e 'l viso basso
Sospiro e inchino il mio natio terreno,
Di dolor, di timor, di rabbia pieno,
Di speranza, di gioia, ignudo e casso.
Poi ritorno a calcar l'Alpi nevose.
Non mentiva il Guidiccioni, quando al tempo del sacco di Roma, rammentava le glorie del passato dinanzi alla enorme miseria del presente; e per ciò il rimpianto gli usciva facondo dal labbro:
Tal, così ancella, maestà riserbi,
E sì dentro al mio cor suona il tuo nome,
Ch'i' tuoi sparsi vestigi inchino e adoro.
Che fu a vederti in tanti onor superbi
Seder reina, e 'ncoronata d'oro
Le glorïose e venerabil chiome?
Non mentiva Vittoria Colonna, quando nel piangere il marito lo ricordava ne' suoi trionfi e ne' ritorni felici; ricordava di averlo pregato a narrarle le venture sofferte e i rischi e le ferite:
Vinto da' prieghi miei, poi mi mostrava
Le belle cicatrici, e 'l tempo e 'l modo
De le vittorie sue tante e sì chiare.
Quanta pena or mi dà, gioia mi dava;
E in questo e in quel pensier piangendo godo
Tra poche dolci e assai lagrime amare.
Nè Gaspara Stampa mentiva quando osava confessare nel verso di aver ceduto all'amore che, vilipeso, la uccise; e si volgeva al suo Collatino, e lo confortava a lasciare le guerre. A che guerreggiare, se si può vivere amando?
Perchè tante fatiche e tanti stenti
Fan la vita più dura, e tanti onori
Restan per morte subito spenti.
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Qui coglieremo a tempo e rose e fiori
Ed erbe e frutti, e con dolci concenti
Canterem con gli uccelli i nostri amori.
Ma anche più schietta di loro, nella percossa immediata e recente, riuscì Barbara Torelli; e il suo sonetto è per ciò la miglior poesia ch'io mi sappia di donna italiana. Era vedova; amava un gentil cavaliere e poeta, Ercole Strozzi; ma lei desiderava e voleva Alfonso duca di Ferrara, il marito di Lucrezia Borgia. Per sottrarla alla insistenza del duca, lo Strozzi la sposò; e tredici giorni dopo, una mattina, fu trovato per terra, con aperte le canne della gola, e ventidue ferite su la persona. Non fu fatto processo di sorta. La Torelli, mentre tutti tacevano si alzò vendicatrice del suo diletto, e additò, chè non poteva nominarlo, l'assassino:
Spenta è d'Amor la face, il dardo è rotto
E l'arco e la faretra e ogni sua possa,
Poi c'ha morte crudel la pianta scossa
A la cui ombra cheta io dormia sotto.
Deh, perchè non poss'io la breve fossa
Seco entrar dove hallo il destin condotto,
Colui che a pena cinque giorni et otto
Amor legò pria de la gran percossa?
Vorrei col foco mio quel freddo ghiaccio
Intepidire, e rimpastar col pianto
La polve, e ravvivarla a nuova vita.
E vorrei poscia baldanzosa e ardita
Mostrarlo a lui che ruppe il caro laccio,
E dirgli: Amor, mostro crudel, può tanto!
Nulla di più alto di questo immaginato miracolo d'amore: in faccia all'odio che distrusse, amore restituisce la vita e gliela ostenta con un grido di felicità, ch'è vendetta e castigo. Così talvolta la poesia della vita faceva anch'ella un miracolo d'amore, risuscitando le voci dell'arte.
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E poesia, come l'amore, è l'indignazione; dalla quale il Berni traeva versi come quelli contro il Malatesta e quelli, migliori, contro i preti corrotti:
Godete, preti, poi che 'l vostro Cristo
V'ama cotanto che, se più v'offende,
Più da Turchi e Concilii vi difende
E più felice fa quel ch'è più tristo.
Ben verrà tempo ch'ogni vostro acquisto,
Che così bruttamente oggi si spende,
Vi leverà: chè Dio punirvi intende,
Col folgor che non sia sentito o visto.
Ma il Berni aveva anche lui il torto di nuocere ai costumi con l'equivoco osceno delle sue rime giocose o, quando a ciò non scendesse, di sperdere in risate l'ingegno e l'arte che aveva mirabili. Meglio ad ogni modo il comico de' suoi lazzi, che il vaniloquio degli strambotti popolareggianti, come quelli di Olimpo da Sassoferrato, che giunse fino agli Strambotti di nomi senza conclusione e agli Strambotti tutti di verbi:
Pianti, singulti, gemiti, dolori,
Suspiri, isdegni, pena, angoscia, stenti, ecc., ecc.
Quando un sentimento le inspirò, anche in queste forme popolareggianti la morta poesia risurse. Rozzi versi sono quelli dei Padovani contro gl'imperiali, fuggiti di sotto al bastione donde Citolo da Perugia li aveva sbeffeggiati, come allora si usava, agitando sur una picca la gatta:
Su su su, chi vuol la gata
Venghi innanti al bastïone,
Dove in cima d'un lanzone
La vedete star legata....
Su, Todeschi onti e bisonti,
[300]
Su su su, fòr de la paglia;
Voi mai più passati i monti
Se verete a dar battaglia:
Vostre arme poco taglia,
Se la faza v'è mostrata.
Rozzi versi; ma nella bilancia della Musa non pesano più di certi sonetti del Bembo? Venezia, sui primi del Cinquecento, incarnava, di contro alla Lega, l'indipendenza d'Italia; e i canti che nacquero da quella gloriosa difesa son voce fatidica dei canti nei quali i volontarii nostri pugneranno dal 1848 al 66 contro lo stesso nemico, e lassù fra le strette delle Alpi venete, nel 48-49, con la stessa bandiera. Lassù fra le strette, tre secoli prima dell'inno garibaldino, medesimi sensi avevano echeggiato con quasi il ritornello nostro: Va' fuori, o straniero.
Ritornati, o discortese,
Imbriaghi e vil canaglia;
Vostre arme sì non taglia
A voler con nui contese.
Ma delle canzoni del Bembo, io non so quante ne darei per la Canzone in laude dei Venzonesi. Nel luglio del 1509 Enrico di Brunswick entrò per la Pontebba in Italia con mille fanti e duecentocinquanta balestrieri tedeschi. I nobili veneziani che comandavano la piccola fortezza di Chiusa, stimando non poterla difendere, l'abbandonarono; ma il popolo li costrinse a tornare a' posti che la patria voleva difesi; e un dottore di Venzone, con quaranta de' suoi concittadini, sorresse per tre giorni, ne' ripetuti assalti del nemico, le scorate milizie marchesche: venendo meno le munizioni, una gentildonna fuse in proiettili le scodelle di stagno, e con rischio della vita le recava ella medesima a' combattenti.
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Su su su, Venzon, Venzone,
Su fideli e bon Furlani,
Su legittimi Italiani,
Fate che 'l mondo risuone
Di gridar Venzon Venzone!
Su su, Chiusa, Chiusa, Chiusa,
Ognun gridi ad alta voce.
Chè la gente cruda e atroce
Fuor d'Italia ha spinta e exclusa
Tanto piccol bastïone.
Su su su, Venzon, Venzone!...
Non si teman più Tedeschi
Poi ch'è fatta esperïenzia
Che la barbara violenzia
Con fideli e ver Marcheschi
Non può stare a paragone.
Su su su, Venzon, Venzone.
Eran gionti al stretto passo
Nove millia e più Germani:
Avean preso il monte i cani!;
Ma cacciati fôro al basso
Da quaranta di Venzone.
Su su su, Venzon Venzone....
Un popolo che opera così, e che canta le sue glorie così, meritava lirici d'arte migliori di quelli del secolo decimosesto; e perchè li meritava, mutati i criterii dell'arte, li ebbe.
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