V.

Cerchiamo altrove i principii delle forme nuove, della lirica nuova. E perchè il tempo stringe, mettiamo subito da parte ciò che il Cinquecento, fuor della lirica petrarchesca, ebbe di eccellente in sè, ma senza accenni all'avvenire: l'elegia in terza rima dell'Ariosto, il poemetto [291] in ottava rima del Molza. Destinato a farvi da guida per una Galleria men buona ma più lunga di quella degli Uffizi, con l'obbligo di farvela correre tutta in un termine prestabilito, voi non potreste senza ingiustizia rimproverarmi, o signori, ch'io non vi lasci il tempo d'ammirare, il tempo di respirare: ne soffro più di voi pensando che sono costretto, in qualsiasi modo, a spiacervi. Si passi dunque da una sala all'altra, dalla Scuola petrarchesca, alla scuola classicheggiante. Non vi aspettate miracoli: in quella trovammo le prove estreme d'una maniera invecchiata, abbiamo in questa le prime prove d'una maniera troppo giovane ancora.

O come virtute ben posasi in alta Colonna!

O come chiaro nome, salda Colonna, m'hai!

Or qual sostegno come questo poteva trovare

Virtù? qual'ombra, qual riposato nido?

Or qual caro dono più che virtude potea

A te dintorno porsi, Colonna sacra?

Degna è la virtù di te, alta onorata Colonna;

Tu de la virtude degna Colonna sei....

Non vi spaventate: mi fermo qui. Nel 1441 l'Amicizia, per opera di Leonardo Dati, era scesa dal cielo nella nostra Santa Maria del Fiore, a mostrare, nel così detto Certame coronario, l'eccellenza del volgare nostro, capace di emulare il latino con le armi sue stesse, cioè con gli esametri, i pentametri, i saffici, e via dicendo. Ma per allora i nuovi metri, sebbene li sperimentasse anche Leon Battista Alberti, non ebbero nè molti nè ostinati cultori; e soltanto nel 1539, col libro Versi et regole de la nuova poesia toscana, Claudio Tolomei e i suoi amici e seguaci li presentarono al pubblico di tutta Italia arditamente. Già vi dissi: il liuto del Petrarca, a forza di sonarvi su, era tutto scordato; mentre alcuni cercavano riaccordarlo, questi altri tentavano rimettere [292] invece in onore l'antica lira. L'intendimento, a parer mio, era buono; l'esecuzione fu pessima: il libro del 1539 è tutto pieno di versi sul genere di quelli che avete ora saggiati in lode di monsignor Francesco Colonna, che in sua casa ospitava l'Accademia della Virtù fondata dal Tolomei. Perchè imitavano i latini, credevano costoro di poter dai latini dedurre non soltanto il ritmo apparente dei versi antichi, quale resulta a noi barbari dagli accenti delle parole, ma quello altresì sostanziale della quantità relativa delle sillabe. Non basta; stimavano lecito nei versi all'antica sforzare all'antica la sintassi nostra, troppo più che non avrebbero fatto nei versi di tradizione italiana. Onde un viluppo spinoso di suoni dal quale soltanto una poesia alta e altamente espressa avrebbe potuto balzare a ogni costo incolume, se pure non senza sgraffiature. Ma poesia alta non avevano essi in sè, più de' confratelli petrarchisti, nè altamente esprimevano, più di loro, quel che avevano dentro l'animo. Uno de' più politi cinquecentisti, Dionigi Atanigi, ebbe il coraggio di volgersi al Tolomei in questo bel modo:

Pastor famoso e degno di gloria

Che d'alti sensi e d'unico stil raro

Vinci o pareggi quanti Atene

Viddene con Roma più lodati:

Per te si pregia l'inclita patria,

Per te s'adorna d'ogni valor vero:

Tu primo scorgi in quella l'alme

Muse da' colli latini tolte;

Onde gli etruschi carmi divengono

Più gravi ed alti, e fuor di viottoli

Imparano anch'essi vagando

Girsene per la diritta strada.

Credeva di fare, a questo bel modo, un'alcaica! quel metro, cioè, che, ripreso dall'arte di Giosuè Carducci, suona a' giorni nostri così:

[293]

Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi

Del Foro, io segno con dolci lacrime

E adoro i tuoi sparsi vestigi,

Patria diva, santa genitrice.

Son cittadino per te d'Italia,

Per te poeta, madre di popoli,

Che desti il tuo spirito al mondo,

Che Italia improntasti di tua gloria.

Dopo i quali versi io non oserei davvero recarne altri a documento della scuola del Tolomei. Meglio dell'alcaica trattarono, di rado, la saffica, quasi sempre il distico elegiaco; ma tutta la raccolta dei versi barbari (chiamiamoli pur così, chè se lo meritano!) non offerse alla lirica nostra un'ode sola di che possa vantarsi. Gli esempii buoni cominciarono soltanto con Gabriello Chiabrera, che non fu grande anima di poeta, bensì fu artista di arditi intendimenti e di eleganze squisite. Se non che il Chiabrera, sebbene nato nel 1554, appartiene nei modi e nell'efficacia dell'opera sua piuttosto al decimosettimo che al secolo decimosesto; come Ottavio Rinuccini che, insieme con lui, mirando da un lato ai Greci, dall'altro ai Francesi, iniziò il melodramma a imitazione di quelli, e la canzonetta leggiera, melodica, variata di rime in parole tronche, a imitazione di questi. Dei metri barbari uno solo riuscì nel Cinquecento a tale bontà da vincere la forza della tradizione e ottenere la cittadinanza italiana: il metro dell'Eneide del Caro, del Giorno del Parini, dei Sepolcri del Foscolo, delle Ricordanze del Leopardi: l'endecasillabo sciolto.

La canzonetta alla francese non durò fatica a vincere, con le altre forme, il pindarismo arcaico, preparato da quel critico egregio e poeta miserrimo che fu il Trissino, e proseguito da Luigi Alamanni; anche perchè fe' sua l'imitazione d'Anacreonte. Le odicine che vanno a torto sotto il nome del vecchio di Teo, furono edite per la [294] prima volta nel 1554; e subito imitate in Francia dalla scuola di Pietro Ronsard. Che piacere dovè essere per quegli avi nostri, tediati a morte dalla gravità concettosa della lirica medievale ne' suoi ultimi sforzi, leggere le invenzioncelle minuscole, in versi brevi, tutti rose, pampani, colombe ed Amori! Le credevano opera di pura classicità; e ciò faceva legittima e rinfocolava l'ammirazione. Anche gli antichi dunque non si erano sempre dilettati della poesia noiosa, e si poteva dunque imitarli in un genere che fosse di sollievo alla mente e all'orecchio! Ma i nostri, nel secolo decimosesto, non osarono andare oltre, la parafrasi nelle forme medievali del sonetto e della canzone, o al più nella forma nuova dell'ode oraziana.

Quello che accadeva ad Anacreonte, era accaduto ad Orazio, tradotto in sonetti e canzoni. Innanzi di vestirlo di panni a lui convenienti, gli avevano cacciato addosso, per forza, la tonaca e il cappuccio del canonico messer Francesco Petrarca: strane vesti, di cui da buon pagano si vergognava, senza aver troppa consolazione del vedersi accanto camuffati a quel modo Tibullo e Properzio. Qualche anima buona pensò poi a trarlo di lì, e gli procacciò un abito tagliato alla peggio, come si potè allora, sull'uso antico: non che Orazio ci si sentisse a suo agio e si lodasse del sarto, ma insomma e' non faceva più ridere le brigate. Codeste anime buone furono, nell'intenzione, il Trissino; nell'esecuzione, Bernardo Tasso, padre di Torquato, e Benedetto Del Bene, con più altri, traduttori e imitatori. Onde le strofe brevi di endecasillabi e settenarii rimati, disgiunte l'una dall'altra, le strofe che saranno poi care a Giuseppe Parini, e perfette per virtù di lui; e con le strofe nuove, rinnovati di sull'antico i motivi della lirica encomiastica, convivale, amorosa, mordace. Anche in ciò non vi debbo nascondere che non poco giovò l'esempio del Ronsard; dal quale il Del Bene [295] si lagnava non essere ricambiato delle lodi che gli aveva profuse.

Ecco un esempio, singolare, di questa lirica neo-oraziana; e ce l'offre il Del Bene medesimo in un'ode Ad un signore vecchio innamorato, che non riusciva a fare innamorare la bella: l'ode, dopo altri ammonimenti, chiude così, invitando costui a dimenticare tutto nel vino:

Invan con lieti panni

Et oscurato pelo

Ti sforzi ogn'or de gli anni

Velar le nevi e quell'arido gelo

Che non si scioglie al varïar del cielo.

Lascia di mirto omai

Ad altri la corona,

E de' tuoi giorni gai

Sendo omai giunto a vespro, non che a nona,

D'edera le tue chiome orna e corona,

E di grato liquore

Cingi la mensa e ingombra,

Ivi obliando Amore.

Ma queste voci vivaci son troppo rare nella lirica sì di Benedetto Del Bene, sì degli altri oraziani. Anch'essi nè sentivano dentro di sè le sacre fiamme della poesia, nè seppero destare e alimentare con arte sottile quel po' di brace accesa che avevano. Iniziarono: nulla più.

Ci è lecito ormai voltarci addietro e chiudere in uno sguardo solo la via faticosa per la quale salimmo. Nel secolo decimosesto l'Italia non ebbe una lirica tale di che possa vantarsi nel cospetto delle sorelle europee. Due scuole vi si provarono: ma l'una, di derivazione medievale, che venerava nume protettore il Petrarca, e onorava sommo sacerdote di lui in terra Pietro Bembo, non diè frutto perchè senilmente fiacca; l'altra, nata dal Rinascimento, si divise in due, e non diè frutto perchè, nella prima gioventù, troppo gracile ancora. La [296] vecchia pianta, sorretta con artificii dal Della Casa, potè nondimeno sbocciar fiori un'ultima volta nelle liriche di Torquato Tasso: la pianta giovine mise sotterra le radici, per merito del Tolomei, di Bernardo Tasso, del Chiabrera, del Rinuccini; e ne sorsero poi con rigoglio stupendo la canzonetta melica del secolo scorso, le odi del Parini, le odi barbare del Carducci.

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