V.

E ora che dire del Furioso? Anzi tutto, non cose nuove.

Che Angelica e Bradamante non raggiunte mai da' cavalieri i quali si ostinano a seguitarle rendano imagine del genio d'Italia; che anche Orlando dia come una somiglianza del popolo italiano inebriato dal filtro del medio evo; che l'Ariosto abbandoni, abbattuto dal trono, alle risate del volgo il vecchio Cesare, il quale aveva di tante illusioni pasciuto lo spirito di Dante, che colpisca l'impero di Carlo V e il regno di Francesco I, rimandando essi oltr'alpe con in dosso a pena gli stracci degli orpelli onde la tradizion cavalleresca aveva ammantato le loro povere persone; sono volate di fantasia storica che nella poetica prosa del Quinet posson piacere, anche perchè movono da un principio di vero; ed è, che il Furioso [227] è tutto informato al sentimento e alla vita del tempo in che fu composto. Non so se la fantasia storica del Quinet fosse almen di lontano ispirata da un'idea estetica del Gioberti, il quale, cercando invano con dottrinali preoccupazioni nel Furioso una finalità epica, scoprì in vece in quella continuata ironia la satira della cavalleria e del medio evo.

Ma la finalità del poema romanzesco è in sè stesso, è, come scriveva l'Ariosto al doge di Venezia, nel raccontar piacevole a ricreazione delle persone d'animo gentile. L'Ariosto in questi propositi continuava il Boiardo; il quale scherzò anch'egli su gli eroi e su le donne, e mescolò l'umore all'entusiasmo e la novella all'epos, e pure è giustamente annoverato tra i più seri e sentimentali poeti della cavalleria. L'epopea romanzesca, nel lavorio di rifacimento col quale gl'italiani la vennero di continuo trasmutando, non pur non rimase nè potea rimanere in fedel soggezione d'uno spirito tradizionale o quasi originale che la movesse e atteggiasse sempre ad un modo, ma nè fu nè si tenne obbligata mai a riprodurre caratteri stabilmente fermati in un tipo consuetudinario, anzi nello svolgersi a fasi nuove rinnovava tuttavia spiriti e colori secondo gli ambienti diversi. E come gli autori de' poemi franco-italiani e dei cantàri veneti del secolo decimoterzo e decimoquarto avevano con un primo natural processo italianizzati i paladini francesi delle canzoni di gesta, e come i cantastorie di Firenze gli avevano poi ridotti alle proporzioni e alle fattezze intellettuali de' Ciompi; così l'Ariosto vide e ritrasse gli eroi del Boiardo e degli altri suoi prossimi antecessori tra il prisma del molteplice Rinascimento. E male fu scambiato per intenzionale ironia quel fine spirito del tempo nuovo che scherza luminoso e tranquillo fra i pennoni dei paladini e i veli delle dame del buon tempo antico. E male si giudica prosaicamente ironico [228] e volgarmente scettico quel tempo, nel quale anzi lo spirito italiano (e fu questa la sua gloria e la sua grazia immortale) giunto al sommo dell'ascensione parve abbracciare, se mi si conceda l'imagine, l'antichità e il medio evo, l'occidente e l'oriente, con tale una potente gioia di amore espansivo che anche parve per un momento volerli e poterli in quel suo divino abbracciamento fondere e confondere a sè. La generazione poi della quale era l'Ariosto serbava ancora, malgrado gli Sforza ed i Borgia, qualche sentimento di cavalleria: lo attestano i soldati francesi in quella memorabile liberazione e resistenza di Pisa giuratisi campioni e difensori alle dame, lo attesta la disfida di Barletta e la figura di Baiardo cavalcante severo e gentile tra i lanzichenecchi. La luce del Furioso spuntò tra la battaglia di Ravenna e la battaglia di Marignano, vinta quella da un giovin capitano che per amore della dama vi combattè con un braccio tutto ignudo, vinta questa da un giovine re che prima di dar dentro volle esser armato cavaliere da Baiardo. Che se la vittoria di Ravenna fu guadagnata dalla fanteria villana di Dumolard e dalla artiglieria sapiente del duca Alfonso (le due arme della rivoluzione e della monarchia moderna), la cavalleria italiana fece nella resistenza dalla parte dei confederati prove gloriose; e Fabrizio Colonna, dopo romanamente respinti dalle mura delle città sette assalti, si precipitò nella battaglia caricando a capo dei suoi cavalieri i cannonieri e i cannoni d'Alfonso e di Francia sin che fu fatto prigione in mezzo ai pezzi. E la battaglia di Marignano che durò tre giorni, e nella quale eserciti di tre lingue si mescolarono al lume di luna per iscannarsi, e il re di Francia credendo aver raggiunto un corpo di suoi si trovò in mezzo a ottomila Svizzeri, che per farsi riconoscere gli puntarono (come egli scrisse) seicento picche al naso, “bevve dell'acqua d'un ruscello tutta sanguinosa, mentre [229] un trombetta italiano al suo fianco soffiava tutta notte nel corno, come Orlando a Roncisvalle, contro i corni di Unterwald ed Uri; la battaglia di Marignano non è veramente ariostesca? Tanto poi l'Ariosto fu di per sè lontano dall'intenzione d'una finale ironia contro l'ideale cavalleresco, che a gloria della spada e della lancia fe' maledire a Orlando l'arma da fuoco e l'artiglieria, forza e vanto del suo duca. Ma come si può parlare d'ironia intenzionale dell'Ariosto? dell'Ariosto, che al personaggio di Carlomagno, mortificato dalla famigliarità birichina dei piazzaiuoli di Firenze, restituì la maestà d'imperatore e il contegno d'eroe? dell'Ariosto che l'Astolfo fatto buffone dal Boiardo rifece cavaliere d'avventure e miracoli, pronto a tutto affrontare, le porte così dell'inferno come del paradiso, con quella sua seria audacia inglese che lo costituisce degno istromento della provvidenza alla salute d'Orlando? dell'Ariosto che in Orlando il peccato dell'amore, peccato per l'eroe e pe'l cristiano, punisce con la terribil pazzia? E come si può parlare d'ironia continua e finale dinanzi alla terribilità tragica di quella pazzia in quella più che descrizione e narrazione epica, la quale dalla minuta e fedele osservazione dei succedentisi momenti psicologici va a passo a passo crescendo vorticosa e vertiginosa e finisce in uno scoppio titanico? dinanzi all'eroica grandezza dell'ultimo abbattimento fra i tre re saracini e i tre paladini, e alla mossa, tutta di cuore, del poeta, su'l cadere di Brandimarte,

Padre del ciel dà fra gli eletti tuoi

Al martir tuo fedele omai ricetto?

La cavalleria feudale era morta da un pezzo, ma l'idealità della cavalleria civile colorava ancora d'un'ultima luce crepuscolare l'Europa trasformantesi nelle monarchie accentratrici e amministrative. Francesco I invecchierà, [230] e diverrà traditore, spergiuro, brutale. Verrà la triste figura di Carlo V. Egli, nella incoronazione, a Bologna, toccava colla spada la testa di chi voleva essere cavaliere dicendogli Esto miles; e tanti si affollarono chieditori intorno a lui, gridando - Sire, sire, ad me, ad me, - che egli stanco e sudato e dicendo ai cortigiani - No puedo mas - inchinò sopra tutti la spada, soggiungendo - Estote milites, todos, todos; - e così replicando, gli astanti partirono cavalieri tutti e contenti. Allora Teofilo Folengo frate e Pietro Aretino vivente su le tristi lusingherie della rea penna poteron bene con grossolana caricatura fare strazio d'Orlando, di Rinaldo e d'ogni cavalleria. L'Ariosto no: egli era troppo gentiluomo e poeta.

Che l'Ariosto, passando ad altro, attingesse a molte fonti, pigliando, come dicea La Fontaine, il suo bene dove lo trovava, lo disse fin dal tempo del poeta il Pigna, e raccontò com'egli avesse fin tradotto per suo uso romanzi francesi e spagnuoli; lo provarono fin dal cinquecento il Dolce, il Lavezzuola, il Ruscelli, mettendo in vista favole, descrizioni, comparazioni ch'egli ebbe derivate da greci, da latini, da italiani. Ultimamente compiè le ricerche con un libro, ove nulla, credo, si desidera, Pio Rajna, il critico che più originalmente ha studiato le fonti e i procedimenti della epopea cavalleresca tra noi. Ma dopo tante ricognizioni e rivendicazioni la parte che rimane all'invenzione dell'Ariosto è pur sempre grande, e ciò che egli prese da altre o conservò della leggenda comune od opere d'arte individuali egli lo ha così trasformato sotto il fuoco del suo ingegno e nel crogiuolo dell'arte sua, che a distinguerlo ci vuole il più delle volte un vero lavoro di critica chimica. Questione del resto che importa assai più alla storia della letteratura che a quella dell'arte. Era negl'istituti, per così dire, dell'epopea romanzesca, che ogni nuovo autore prendesse [231] liberamente da' suoi antecessori e vicini tutto che gli giovasse e piacesse; era nel costume del Rinascimento rivestirsi delle spoglie greche e latine. Il Foscolo paragonò benissimo il Furioso alla chiesa di San Marco, che i Veneziani fabbricarono a colonne di tutti gli ordini, con marmi di tutti i colori, con frammenti dei tempii greci e di palazzi bizantini. Gli antiquari fan bene a riconoscere e distinguere il frammento del tale arco romano, i marmi di quel tempio greco, le colonne della tale altra chiesa bizantina, e anche la rozza pietra d'un torrazzo feudale. Noi chiediamo alla solenne opera dell'architettura: c'è dentro il Dio? Sì? Adoriamolo.

Il dio per noi è l'artista. E artista l'Ariosto è senza paragoni grande. Non quale se lo favoleggia certo volgo di lettori e critici dozzinali, fantasia sbrigliata e smemorata che si prodiga negli episodi sorridendo ella stessa del suo smarrirsi in via dietro le mille sue favole: egli invece ha, come tutti i poeti della famiglia greco-latina, un senso dell'ordine e della proporzione, un senso della finalità artistica, mirabilmente serio e ragionativo. Si propose di continuare l'Innamorato del Boiardo, “per non introdurre, osservava benissimo il Pigna, nuovi nomi di persone e nuovi cominciamenti di materie nell'orecchie degli italiani, essendo che i soggetti del conte erano già nella loro mente impressi ed instabiliti in tal guisa, che egli, non continovandogli ma diversa istoria cominciando, cosa poco dilettevole composto avrebbe„: intitolò da Orlando il poema, perchè Orlando era l'eroe più popolarmente conosciuto ed accetto della gesta carolingia; la guerra poi tra cristiani e infedeli, oltre che l'aveva ereditata dal Boiardo, era d'obbligo, come quella che forniva, per così dire, il centro d'unità e lo spazio e il termine idealmente storico a ogni epopea romanzesca. Ma la parte di continuatore abbandonò egli subito e uscì francamente dalla serie o dalla classe de' suoi predecessori [232] avendo in prima luce i caratteri già secondari di Ruggero e di Bradamante e facendo del loro matrimonio il soggetto principale del poema, soggetto che ha in sè il concetto politico, la illustrazione della casa d'Este, come l'Eneide ebbe l'apoteosi della casa Giulia. Così l'Ariosto, lungi dagli intendimenti e dagli spiriti o democratici o feudali de' suoi predecessori, rientra e rimane tutto nel tempo suo, nel primo ventennio del secolo decimosesto, quando, non rialzatosi ancora con Carlo V l'impero nella nuova forma e forza di gran potenza militare straniera a soggettare l'Italia, era possibile, era opportuno, era utile sollevare e glorificare una antica dinastia italiana contro le insidie e le minacce della mostruosa signoria papale che al fine ingoiò Ferrara. E rientra nel tempo suo anche come artista. Egli è un classico, ma classico composito del Rinascimento; e il Furioso è, ben disse il Voltaire, l'Iliade e l'Odissea insieme, il poema politico e religioso, l'epopea eroica, con Carlo-Magno ed Orlando, il poema privato e famigliare, il romanzo moderno, con Ruggero e Bradamante. Favola generale o meglio fondamento del complesso poema è la guerra fra tutta la cristianità e tutto l'islam: centro Parigi, con i due re, i due eserciti l'uno a fronte dell'altro, dai quali e ai quali vengono, vanno, ritornano, intrecciandosi nelle direzioni di tutti i venti le donne, i cavalier, l'armi, gli amori. Sommo tra i cavalieri Orlando pe'l cui amore e per la pazzia la catastrofe rimane sospesa come per l'ira d'Achille la presa di Troia: principalissimi tra i personaggi Ruggero e Bradamante, di nazione e fede diversi, nella disgiunzione de' cui amori si ricongiunge il vario movimento de' due campi, nella congiunzione la favola si chiude. Orlando rinsavito trasporta la guerra cristiana in Africa espugnando Biserta capitale del nemico di Carlo, e la finisce col gran duello nell'isola di Lampedusa. Ruggero, nello stesso giorno delle nozze [233] con Bradamante, uccide l'ultimo e più terribil nemico avanzato al nome cristiano, Rodomonte. Così la cristianità è non pur salva ma secura, e la famiglia d'Este ha principio.

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