VI.

L'Ariosto, per attendere con più riposato animo agli studi, fatta nel 1527 divisione dai fratelli, che egli aveva allevati e messi in istato, si tirò su una casetta in contrada Mirasole, e vi condusse attorno un orto o giardino, la cui costruzione e coltivazione e la revisione del poema gli furono ultime occupazioni della vita. “Nelle cose dei giardini - scrive suo figlio Virginio - teneva il modo medesimo che nel far de' versi; perchè mai non lasciava cosa alcuna che piantasse più di tre mesi in un loco, e, se piantava anime di persiche o semente di alcuna sorte, andava tante volte a vedere se germogliavano, che finalmente rompeva il germoglio. E perchè aveva poca cognizione d'erbe, il più delle volte presumea che qualunque erba che nascesse vicina alla cosa seminata da esso fosse quella; la custodiva con diligenza grande fin tanto che la cosa fosse ridotta a' termini che non accascava averne dubbio. Io mi ricordo, ch'avendo seminato de' capperi ogni giorno andava a vederli, e stava con una allegrezza grande di così bella nascione; finalmente trovò ch'erano sambuchi, e che de' capperi non n'eran nati alcuni.„ Quanto alla casa: “perchè - séguita Virginio - male corrispondevan le cose fatte all'animo suo, solea dolersi spesso che non gli fosse così facile il mutar le fabbriche come li suoi versi, e agli uomini che gli dicevano che si maravigliavano ch'esso non facesse una bella casa essendo persona che così ben dipingeva i palazzi, [234] rispondeva, che faceva quelli belli senza denari.„ Della correzione dei versi: “avvedutosi - riferisce il Pigna - che alle volte il cercar troppo di cambiare ogni minima cosa più tosto di danno gli era che di giovamento, usò di dire che de' versi quello avveniva che degli alberi: per ciò che una pianta che piantata da sè vaga risurga, se vi s'aggiunge la mano del coltivatore che alquanto la rimondi, più felicemente ancora può crescere; ma se, dopo troppo vi sta attorno, ella perde la sua natia vaghezza. Parimente una stanza che quasi ne sia dalla mente in un sùbito uscita e che sia bella, se quel poco di rozzo vi si lieva che vi si scorge essere avvenuto nel primo parto, potrà agevolmente parer migliore; ma, se pur tuttavia il poeta vuole affinarla, rimarrane senza quella prima beltà che portò seco nel nascere.„

Certo che un sommo buon gusto guidò l'Ariosto alla perfezione nel correggere, che non avvenne al Tasso. Ma anch'egli, come il Tasso, sarebbesi abbandonato a troppi critici e consiglieri, se fosse vero che avesse dato a esaminare ed emendare il poema al Bembo, al Molza, al Navagero, al Sadoleto, a Marc'Antognio Magno e a non so quanti altri; se fosse vero, ciò che racconta il Giraldi, che, aumentatolo, due anni innanzi di darlo alla stampa, lo ponesse nella sala della sua casa, lasciandolo in balia del giudizio di ciascuno. Benissimo pensava il La Bruyère, non essere opera per quanto perfetta che non s'andasse dissolvendo per la critica, se l'autore consentisse a tutti i censori che volessero tolto via il luogo che a loro piaccia meno. Ma l'Ariosto pare a me chiedesse e accettasse consigli ed emendamenti soltanto su l'elocuzione, nè c'è prova che ad altri per ciò si rivolgesse che al Bembo; al quale a' 23 febbraio del 1531 scriveva: “Io son per finir di rivedere il mio Furioso; poi verrò a Padova per conferire con V. S. e imparare da Lei quello che per me non sono atto a conoscere.„ E a [235] Padova fu di fatto nell'ottobre, ma v'andò dai bagni d'Abano con la febbre e vi restò pochi giorni pure ammalato, per poi seguitare il duca a Venezia. Con la terzana a dosso e in pochi giorni le conferenze non poterono essere sì lunghe che l'Ariosto imparasse dal Bembo a correggere un poema di quarantasei canti. Ci sarebbero anche stati, secondo la tradizione, correttori più umili: un monaco Severo camaldolese di Volterra o di Firenzuola; un Annibale Bichi, uomo d'armi da Siena, che scrisse certe stanze e una lettera all'Aretino; l'Alessandra Benucci di Firenze. Che il frate volterrano e il soldato senese potessero suggerire o migliorare al poeta qualche frase o qualche forma, non si vuol negare; ma che potessero insegnargli e correggergli tutta la lingua con la quale è scritto il Furioso par difficile. Che l'amore su la fiorentina bocca dell'Alessandra potesse dirozzare certe grossolanità del ferrarese, amerei crederlo; ma l'Alessandra nelle lettere che di lei ci rimangono lombardeggia ella a tutto spiano. E pure è fama che l'Ariosto negli ultimi anni fosse venuto a tali scrupoli di fiorentinismo da dar dei punti al Manzoni; non voleva, per esempio, scrivere palazzo, perchè i Fiorentini allora dicevano palagio. Tutto si accomoderebbe se fosse vero ciò che asseriva il Salviati, facendosi della toscanità di messer Ludovico arma e scudo contro il Tasso, cioè che egli dimorò in Firenze, per imparare i vocaboli e le proprietà del linguaggio, parecchi anni. Ma l'Ariosto fu, è vero, in Firenze, ben sei volte, ma sempre o di passaggio o per breve soggiorno: al più si può concedere al Fornari che un qualche anno (forse il 1520) ei ci restasse per ispazio di sei mesi in casa d'un Vespucci parente dell'Alessandra. Ma sei mesi sono eglino sufficienti a tesoreggiare tanta ricchezza di gentil parlare quanta è nei quarantasei canti? E pure il Foscolo notava giustamente: “Se si confrontino le due edizioni (del 16 e del 32), e il confronto sarebbe [236] lezione a' giovani poeti utilissima, apparirà incomprensibile come uno scrittore che incominciò dal peccare sì grossamente contro le regole del buon gusto e della dizione poetica potesse in séguito espungere tali colpe e mettere in loro luogo così gran numero di trascendenti bellezze.„ In somma, se fosse poi vero che all'Ariosto anche di proprietà e d'eleganza fosse trovatore e affinatore l'ingegno aiutato da una facoltà di percezione prontissima e squisitissima?

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