VI.

Del resto (e mi approssimo a finire) io vorrei, o signore, che, nello studiare Raffaello, teneste conto di una sentenza di Wolfango Goethe, il quale in materia d'arte aveva una profonda competenza, non solo perchè era un ingegno sovrano ma perchè era uno spirito eminentemente sereno. Volfango Goethe aveva l'abitudine di tenere sempre sotto gli occhi delle stampe di composizioni di Raffaello, e le esaminava quotidiamente. Un giorno si compiaceva dell'una, un giorno dell'altra; poi tornava da capo a guardare, a studiare, ad ammirare. Interrogato dall'Eckermann perchè questo facesse, egli diceva: “Per mantenere familiare col mio spirito l'idea della perfezione della forma.„ E questo è tanto vero che trova anche un riscontro nel nostro sentire e parlare quotidiano. Allorchè ci troviamo di fronte a una vera e completa bellezza, quando quel senso di dolce turbamento che essa ha suscitato in noi vogliamo esprimere con un solo vocabolo, diciamo: bellezza raffaellesca.

Dopo questa grande caratteristica notata giustamente dal Goethe nelle opere di Raffaello, cioè di avere egli saputo cogliere con semplicità e chiarezza la formosità armonica e piena delle cose, lasciate che ne ricordi un'altra, e che fa nobilissima testimonianza del merito [326] di Raffaello nella storia dell'arte, giustificando l'altissima ammirazione di cui fu oggetto vivo e l'immenso compianto da cui fu accompagnata la sua morte. Ma qui io non posso far altro che rendermi debole interprete di una pagina eloquente del mio illustre e compianto cittadino Marco Minghetti, il quale nella fine del suo bel libro sul pittore sovrano, consacra parole eloquenti ad encomiare la “elevatezza morale„ che rappresentano insieme la vita e le opere del pittore d'Urbino. Il quale, dice il Minghetti, non segnò una linea nè diede un colpo di pennello che non tenda ad ingentilire il nostro spirito, mentre nulla troviamo nelle opere sue che al nostro spirito porti degradazione o turbamento. A questa altezza morale delle opere di Raffaello s'unisce la buona testimonianza nella vita. Egli fu sempre giusto e cortese con tutti. Per non citare che un fatto, mentre Michelangelo qualche volta si lasciava andare a dei moti immeritati d'ira verso di lui, egli non ebbe mai che parole di rispetto verso il grande fiorentino; anzi (ce lo narra il Condivi) fu spesso udito esclamare: Ringrazio Dio che mi ha fatto nascere a questo mondo insieme a Michelangelo!... Lo so bene; questa bontà morale e ideale delle opere di Raffaello, che trova così degno riscontro nella sua vita, farà sorridere coloro, che ormai si sono abituati a non disgiungere l'immagine del genio da quello della delinquenza. Ma che cosa volete! io non mi sono ancora acconciato a certe novissime teorie. Per quanto si voglia agitare e tormentare in tutti i sensi questo benedetto argomento della moralità dell'arte, per il quale si sono versati tanti fiumi di inchiostro, un fatto rimane sempre vero; ed è che è brutto e vile l'artista quando si colloca mediatore e sollecitatore compiacente fra la nostra coscienza e gli istinti meno nobili della nostra natura. Tutto il resto è sofisma e paralogismo.

Rallegriamoci dunque senza alcun riguardo, rallegriamoci [327] di tutto cuore che il nostro grande pittore abbia alla eccellenza dell'arte sempre accompagnato un nobile rispetto alla dignità di essa. Compiacciamoci di trovare questo punto luminoso nel nostro Cinquecento tanto bistrattato e calunniato; anzi proclamiamo alto che questo punto luminoso è tutt'altro che isolato. Ne abbiamo bisogno, o signore! La storia di questa nostra grande epoca, noi, pur troppo, l'abbiamo troppo facilmente abbandonata alla discrezione di giudici forestieri, che dicono di amarci, e sarà anche vero; ma il loro amore somiglia spesso all'amore dei medici per i cadaveri, che stanno squarciando sulle tavole anatomiche.

E ricordiamolo; noi a forza d'aver paura di passare per dei chauvins, finiamo per mettere alla mercè di tutti i grandi documenti del nostro passato. Intanto che noi lasciamo dire e fare, a poco a poco, tutto si oscura, tutto si impiccolisce e va in controversia nei periodi più belli della nostra civiltà. Credetemi, o signore; un po' di chauvinismo, anche per noi, ogni tanto, farebbe così bene!... Esso ha fatto la forza dei francesi, degli spagnuoli, degli inglesi, e di tutti i popoli; mentre questo compiangerci continuo, questo renderci sempre umili e arrendevoli dinanzi alle negazioni di tutti, ci ha condotto a termini molto infelici. Ma come, poche settimane fa, aveste la fortuna di sentire dalla bocca di Giosuè Carducci che l'ideale cavalleresco del tempo dell'Ariosto non era niente affatto spento fra di noi nel Cinquecento, come certi critici nostri, sempre facendosi eco compiacente degli altri, avevano sentenziato; e come sentirete dirvi fra poco da Ernesto Masi che nella Italia di quel tempo, in mezzo alla corruttela, all'indifferenza e al cinismo di molti, vigoreggiarono anche delle pure e nobili coscienze con aspirazioni eroiche verso il rinnovamento dell'ideale religioso, così consentite che io pure vi dica che mi compiaccio altamente ogni volta che, [328] come italiano e come uomo, io mi rivolgo a quella nostra grande epoca; e sono lieto di ricordarvi anche una volta che il Cinquecento italico non è tutto nell'Aretino, nel Franco, nel Sodoma, nel Sebastiano del Piombo; esso vanta dei nomi che splendono nella storia umana come dei fari di luce sfolgorante insieme e purissima. Uno di questi è senza dubbio Raffaello da Urbino.

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