V.

In mezzo a tanto lavoro era possibile che tutto ciò che usciva dalle mani di Raffaello fosse una espressione meditata e serena delle sue forze, una fioritura eletta della sua coscienza d'artista? No. E fu allora che da Raffaello uscì fuori il Raffaellismo; fu allora che cominciò l'opera davvero soverchiante dei suoi allievi. Allievi ne ebbe molti, come sapete, ed alunni artisti di primo ordine; basti ricordarvi il Penni, il Pippi, Giovanni da Udine, Polidoro da Carreggio, Perino del Vago.... Disgraziatamente in tutte queste produzioni farraginose e frettolose che dovevano uscire di giorno in giorno da quella specie di associazione pittorica, tutto non poteva essere eccellente. Talvolta di Raffaello non abbiamo che il nome: talvolta vediamo la mano, ma si capisce (come fu detto con frase felice) che il suo pensiero era assente. Ecco perchè quando pensiamo a Raffaello ci sentiamo compresi di ammirazione, quando pensiamo al “raffaellismo„ l'animo nostro si sente come allontanato da lui.

Però ogni tanto, anche in questo periodo, Raffaello si ricorda chi egli è e sente il bisogno di riaffermare con qualche opera la sua meravigliosa potenza. E allora egli nella villa di Agostino Chigi dipinge la Galatea, con cui pare fissato in perpetuo il tipo elegantissimo della pittura mitologica; allora egli dipinge Santa Cecilia, la bella santa che si lascia cadere di mano le canne dell'organo terreno, avendo l'anima tutta assorta nelle melodie degli angeli. Allora egli dipinge la Madonna di San Sisto, la più bella, la più trionfale di tutte le madonne del mondo.

E a proposito di tutte quelle sue madonne lasciate [323] che io vi accenni anche qualche cosa della religiosità della sua pittura. Una delle critiche, che si fanno a questo grande pittore, uno dei moventi anzi che hanno determinato quel moto di reazione che fu detto preraffaellista e che più schiettamente dovrebbe dirsi antiraffaellista, nacque appunto dall'aver negato il senso schietto e puro della religiosità ai suoi dipinti. In altri termini si è detto che la religiosità dell'arte, per colpa di Raffaello, subì in qualche modo una degenerazione. È vero questo? Prima di tutto quando si parla di questa benedetta religiosità dell'arte vorrei che si spiegassero un poco i termini di un soggetto così sottile, così delicato e controverso. Dove comincia la religiosità dell'arte? Dove finisce? E poi quelli che seggono in cattedra a dissertare e sentenziare su questo argomento sono sempre giudici competenti?... Per esempio, Giovanni Ruskin nella sua fredda anima di presbiteriano anglosassone, nel suo aborrimento per il Papa e per il cattolicismo, è egli proprio un buon giudice intorno alla religiosità delle madonne in genere e specialmente delle madonne di Raffaello? E il signor Ippolito Thaine, questo rigidissimo positivista, è proprio in grado di giudicare la religiosità, non solo di Raffaello, ma di tutte le pitture sacre del Cinquecento?... Eppure noi italiani accogliamo in ginocchio le sentenze di questi signori come se fossero dei responsi infallibili! Io invece vi confesso che, trattandosi di pittura religiosa, preferirei molto volontieri alle sentenze dei Ruskin, dei Thaine e di tanti altri, un semplice plebiscito di spiriti sinceramente religiosi; perchè mi pare che sia qui più che mai il caso in cui ciascuno dovrebbe giudicare nella propria materia. Quanto alle madonne di Raffaello, se guardo quella di San Sisto, io rimango commosso come davanti alla glorificazione della casta bellezza femminile; quanto alle altre, non avranno tutte (concedo volontieri) lo ascetismo semi-bizantino [324] delle madonne di Cimabue e di Duccio da Siena, non il raccoglimento monacale di quelle del Francia e del Perugino. Sono, se volete, delle gentildonne del Cinquecento belle, soavi, eleganti; ma volentieri l'animo mio si porta verso di loro con senso di adorazione, perchè veggo la loro umana bellezza spiritualizzarsi e idealizzarsi nella santa effusione della maternità!... E questo mi basta, o signore, per non sottoscrivere a sentenze date in senso contrario, con autorità e competenza molto dubbie.

Quanto poi a certi altri aspetti di quest'arte del Cinquecento, che realmente non legano più col nostro gusto, io vi esprimerò solo un'osservazione. Noi abbiamo spezzato nella nostra coscienza quella grande unità morale e storica, che creò l'arte del nostro secondo Rinascimento. Noi, o signori, diciamolo, se ci piace, a nostra gloria, siamo anzitutto dei critici, che più delle cose fatte amiamo le cose in formazione, quindi siamo attratti da uno spirito invincibile di predilezione e di curiosità per tutto quello che si fa, per tutto quello che si volve, per tutto quello che non è ancora arrivato. Quando un ciclo è chiuso, un fatto è compiuto, ridiventa qualche cosa di freddamente oggettivo per noi, qualche cosa che non è più in pieno accordo con la nostra coscienza, inquieta e cercatrice; e principiamo ad amarlo meno.

Per questo alla nostra coscienza di critici e cercatori fanno un effetto di grande genialità, per esempio, i Primitivi, che noi volentieri ammiriamo anche quando tradiscono la loro inesperienza, perchè ci sembra di assistere, come in un dramma spirituale, all'evolversi della loro facoltà estetica e al graduale maturarsi della loro potenza tecnica e operativa. E ogni volta che uno di quei pittori dell'epoca relativamente incompleta mette ne' suoi quadri una intenzione e vince una difficoltà (intenzione e difficoltà che vedute in un quadro del [325] Cinquecento ci lascierebbero freddissimi), esso assume ai nostri occhi l'aspetto e il valore di una gioconda meraviglia, precisamente come riesce a noi letterati di meravigliarci quando nei Fioretti o nelle Vite del Cavalca ci imbattiamo in un traslato vivo, che ci dà un senso improvviso di arditezza e un profumo quasi di modernità.

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