III.

Tornando dal cielo in terra, l'amministrazione della repubblica era allora confusa ed imbrogliata tanto quanto erano armoniose e pure le creazioni dell'arte. Ristretta ai Reggenti, alla fazione vincitrice, veniva esercitata da un Senato o Consiglio della General Campana, da un Consiglio del Popolo e da un Concistoro, formato da nove Priori e dal Capitano del Popolo. Le urgenti necessità ed i pericoli avevane poi dato origine ad una Balia, dapprima temporanea ed in seguito ordinaria e permanente; varia per numero e per durata, e nella quale si riflettono via via [155] le vicende dell'instabile governo, come le nuvole di un cielo burrascoso in un limpido specchio d'acqua.

Indi mutamenti continui nella direzione degli affari, insieme col danno di gente che amministrava senza esperienza sufficiente della cosa pubblica. Indi Siena veniva governata (è il Commines che parla) “plus follement que ville d'Italie„; mentre il Malavolti, un senese, bruscamente dichiara che “le novità vi si facevano, non ad altro fine che per robbare il pubblico ed il privato„ e su questo robbare il pubblico insistono altri storici e cronisti cittadini; tanto è vero che nulla è nuovo sotto il sole! Bandi di Siena per chi sì e per chi nò, ripetè fino ai dì nostri il proverbio; il contado era sfruttato o negletto; la reputazione della repubblica scossa, compromessa tanto all'estero quanto all'interno. Giovanni di Giorgio, pittore e architetto sulle fortificazioni (e si era alla vigilia della guerra) scriveva ai signori: “Ho servito a ingegnere, a solecitatore, a guastatore tale che so' invecchiato, e mi risolvo a dire che tanto vale dire ingegniere quanto furfante.... questo fumo senza arosto non fa per me, perchè quando mi sento dire signore ingegniere, e mi guardo in borsa e non v'è uno quatrino....„ e basti la citazione quanto al trattamento degl'ingegneri militari della repubblica.

La prima conseguenza di una simile condizione di cose fu di eccitare l'allarme, la vigilanza e la cupidigia de' potenti vicini e lontani, ed anche degli impotenti. La vaga Siena ebbe proci innumerevoli; il Valentino, il papa, l'impero, il re di Francia, e più assiduo ed accorto di tutti il duca Cosimo. Chi l'ambiva, come il duca, per estendere ed assicurare il principato; chi per afforzarsi nel centro della penisola, dominando la strada fra Roma e Firenze, e occupando la Maremma co' suoi lidi fortificati; chi per meglio tener quieta e soggetta l'Italia. A colorire tali ambizioni i fuorusciti erano il mezzo più naturale [156] e diretto, e Clemente VII lo tentava aiutando coi suoi fiorentini i Nove; ma qual disinganno! Come ai giorni di Montaperti, il popolo senese, quasi fiume ingrossato che rompe gli argini e dilaga, dalle porte e dalle mura precipita a innondare il campo nemico; ne inchioda i cannoni, ne rovescia le tende, lo rompe, lo fuga, lo insegue. Scrisse il Vettori che la battaglia di Camollia del 1526 gli parve un fatto straordinario, se non portentoso, tanto da ricordare gli esempi della Bibbia; ora ne resta un vivo ricordo in un dipinto nella chiesa di San Martino, coi particolari del costume cercati indarno nelle istorie e nei documenti ufficiali; la porta coi suoi fortilizi, gli accampamenti; gruppi, squadre di soldati, di popolani, cannoni dalle forme svariate, bizzarre, baracche, bandiere, e perfino le baldracche che accompagnavano l'esercito, seminude, impaurite. Del resto l'imprudenza dei Fiorentini e degli alleati non meritava loro di meglio, nè ebbero tutti i torti i Senesi cantando de' generali sconfitti:

Quel conton di Pitigliano,

Mangiafichi, bufalaio;

Si armò prima col tribbiano,

E poi fece un grand'abbaio.

Quel ventron dell'Anguillara

Si fuggì come un poltrone.

In una città ghibellina ed imperiale per antica tradizione, Carlo V acquistava naturalmente un predominio, ch'era in sostanza una poca larvata signoria. Dava consigli ed inviava oratori a riformare, a condividere co' magistrati il governo, a comandare presidii spagnuoli. Siena era altera del suo Cesare, come del suo più forte e leale paladino: si disse che i Senesi fin nel ventre della madre avevano il nome di Cesare in bocca. Quando l'impassibile Carlo la visitava, ed entrato in quei confini [157] ebbe detto, nel discingere le armi: “siamo in casa nostra (vedete che non faceva complimenti!) vada ognuno come più gli aggrada„, i Senesi lo accolsero con vero fanatismo. Si videro giovinetti della più cospicua nobiltà abbracciare e baciare le gambe del suo cavallo: ed egli intanto visitava premuroso le fortificazioni e le mura. Gli agenti imperiali tiravano a far gl'interessi propri e del padrone; e le fazioni pur troppo ne aiutavano l'opera distruggitrice; i Nove sopratutto, esasperati dai contrasti e dalle sventure. Quel Monte aveva dato a Siena un governo prospero e glorioso; ma degenerato poi in un'oligarchia stretta e gelosa, ed avendo fatto capo ad una famiglia di tiranni, eccitava oramai contro di sè tutti gli altri, Riformatori, Gentiluomini e popolo. Ebbero i Nove le qualità e i difetti degli antichi ceti privilegiati, che per le antiche proprie benemerenze, e coll'insistere nel potere orgogliosamente, non soffrono gli altrui meriti nuovi, nè si adattano a cedere, anche quando è prudenza, sapienza, dovere, carità. Volevano ad ogni costo il predominio, magari sacrificando la patria agli Spagnuoli. Nè i popolari andavano senza deplorevoli eccessi. Fra loro era sorta una turba licenziosa, i Bardotti, una specie di sanculotti (le rivoluzioni come gli uomini che le fanno si somigliano un po' tutte) che avevano formata congiura contro ai nobili ed ai cittadini. Levavano per insegna una scudo tramezzato di bianco e di verde, andavano a squadre la notte, e commettevano ogni sorta d'insolenze, pretendendo i maestrati. Erano macellai, sarti, falegnami, nè tutti d'infima condizione, ed in una città d'ingegni vivissimi, dove la cultura era diffusa nel popolo tanto che l'altra congrega popolare dei Rozzi si adunava a commentare Dante e il Petrarca, e a scriver commedie in prosa ed in versi, non è a stupire che i Bardotti si adunassero a leggere Livio, Vegezio e il Machiavelli, addestrandosi alle armi con finti abbattimenti. Faziosi, [158] irrequieti, protervi forse dai governanti vennero esagerati i loro torti. A buon conto si obbligavano alle pratiche religiose, a soccorrere i compagni poveri ed infermi, a pregare pei loro morti ed accompagnarli al sepolcro. Furono violentemente soppressi, non osando essi resistere, poichè Mario Bandini, il grande agitatore, li sconfessava, gridando loro in collera di tornare a bottega. Chiesero perdono ai Signori, consegnarono la bandiera e vi tornarono. È fra di loro uno dei più bisbetici cervelli nella schiera bizzarra degli artisti, Girolamo Del Pacchia o Pacchiarotti, soprannominato fra i Rozzi il Dondolone. Durante la persecuzione dei compagni egli corse a nascondersi nientemeno che in una sepoltura, dove rimase celato alcuni giorni, uscendone poi tutto pallido, contraffatto e coperto di vermi; uno spaurito insomma che faceva paura (tutto dire!) più di quella che non sentisse.

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