IV.

Di tutti i ministri cesarei i più savi furono il cardinal Granvela e lo Sfrondato, ed i peggiori Don Giovanni De Luna e Don Diego di Mendoza, i quali, credendo venuto il momento di fare coi Senesi a fidanza, li trattarono coi modi più imprudenti e burbanzosi, e, l'ultimo sopratutto, come se comandasse non ad una cittadinanza che aveva saputo innalzarsi un così bel Duomo e un sì fiero ed elegante Palagio; ma ad una turba di servi della gleba o di lanzichenecchi. Feriti nel più vivo dell'animo, nell'amore e nel decoro della città natale, dinanzi alla giustizia villana, immeritata, brutale, quei discordi offrono lo spettacolo commovente di una concordia [159] sublime; hanno un palpito ed un fremito solo, e dopo la prima cacciata o meglio licenziamento di Don Giovanni co' suoi e coi Nove, quasi energico avviso a non ridurli agli estremi, proruppero nell'altra di Don Diego:

Arcimarrano

Nemico a tutta Italia, al cielo e al mondo;

Pensando farsi in Siena a Dio secondo,

Fu privo de' favor che aveva in mano.

Che Don Diego Urtado di Mendoza avesse proprio il “viso arcegno di un moro bianco coll'occhio porcino; cera proprio di furbo e di assassino„ (come scrisse il Mangia al Riccio pittore), io non so; ma che fosse un furbo di quelli che talora si mostrano goffamente malaccorti, e dei quali il Manzoni ci porge il ritratto nel notaio che vuol portare in carcere il povero Renzo, vel dice la storia. In Siena aveva incominciati, ma non compiuti gli studi legali; aveva fatto il frate; pizzicava di poesia; aveva scritto storie e romanzi, ottenute protezioni e favori, e la carica di oratore di Sua Maestà Cesarea in Roma. Accolto a gloria dai Senesi, comincia dal raffazzonare il governo a modo suo, imponendosi a tutto ed a tutti. Vuoi perfino che si mandi un oratore a Cesare con carta bianca, e i Senesi lascian fare ed obbediscono. Chiama in Siena bisogni, i quali portano via i ferraioli dalle spalle ai viandanti, scassano le botteghe, rubano per le case, impongono taglie, percuotendo coloro che si fossero provati a resistere; ed affinchè quei marrani meglio attendessero al comodo proprio, il degno governatore ordinava il disarmo dei cittadini, che pazientavano ancora, e obbedivano a ritroso. Appena osava lamentarsi la musa popolare dei Rozzi:

[160]

La ricolta del vino è trista stata,

E l'uva sì non m'ha mezze le tina:

Che gli Spagnuoli me l'han tutta scarpata.

Essi: “avean fatto tanto„

Che Siena era ridotta all'olio santo.

Molti si ritraevano per le ville; alcuni pel dolore si ammalavano; Tommaso Politi era decapitato; quand'ecco, come fulmine, la nuova che l'imperatore ha deciso di edificare sul colle di Siena, nel cuore del giardino delicato, una fortezza. Doveva sorgere sul poggio di San Prospero, dove ora è il passeggio della Lizza; ma si vociferava perfino che sarebbesi costruita sulle ruine della cattedrale. La città abitualmente sì gaia, par colpita da un pubblico flagello; si chiudono i traffici e le botteghe; ma i Senesi pazientano ancora, fidando nelle suppliche, nelle ambascerie e nella Madonna loro protettrice. Si eleggono commissioni, s'inviano oratori; ma Cesare rispondeva: “Così voglio, così comando, contro ogni ragione sta il voler mio; e se non bastano le torri (già Don Diego ne faceva abbattere alcune) si rovinino i palazzi, purchè il castello si faccia.„ Gli premeva assicurarsi di Siena, posizione importantissima nelle guerre colla Francia; farne un valido presidio spagnuolo; quel che fu più tardi lo Stato dei Presidi; ed era irremovibile. Orlando Malavolti, lo storico, gli presentava un memoriale firmato da 1032 cittadini di tutti gli ordini. Speravano, vi si legge, che Cesare vorrà considerare che nei “fondamenti del castello ha da star sepolta in eterno la reputazione, l'onore e la gloria del nostro nome, e colla libertà ogni altro nostro bene„; lo scongiuravano, chiamandolo “idolo nostro„, e l'idolo replicava che il castello aveva appunto per fine la libertà e la giustizia. Dipoi agli ultimi oratori che gli s'inginocchiarono dinanzi con abito lugubre e con lacrime, egli in collera rispose: non volere [161] che i tristi, turbando quella città, gli mettessero gli stati suoi d'Italia in pericolo, e additò senz'altro la porta. Anche il papa avea detto che se non bastava un castello, se ne fabbricassero due, e Don Diego spergiurava ch'era per farlo a dispetto degli uomini e di Dio.

Pareva non restasse altra speranza che il cielo, ed infatti si offrirono solennemente le chiavi della città sull'altare della Vergine, e i battuti andavano attorno, dandosi la disciplina; ma anche il cielo era sordo, e “bisogna ingoiare (è un senese che parla) questo treppiede rovente„. Qui rimanendo il pubblico Consiglio “come insensati e fuor di sè„ sorge una voce inspirata, eloquente, l'abate Lelio Tolomei, ad esortare, confortare, ammonire: il suo discorso è una gran fiamma che vien dal cuore e riscalda ed accende gli altri cuori: “le rovine (egli grida) son nate dall'intender la città a monti ed a fazioni; abbiamo empiuto de' nostri cittadini tutte le città d'Italia; abbiamo imbrattate di sangue tutte le strade della città; non più tanti monti e monticelli; uno è il monte dei cittadini; non più Siene; è una Siena; una è la città della Vergine.... La cittadella ci porrà a discrezione della roba, della vita, dell'onore di ogni minimo soldato.... vada tutta la città intiera ai piedi dell'imperatore per tor questa ruina, o morire in qualunque altro modo onoratamente ad arbitrio suo; ma non consenta mai a queste forche così vituperose; si vestano a bruno la signoria, i maestrati, non suonino più le trombe e le campane del palazzo; non si facciano più banchetti, feste, nozze finchè non si tolga tanta ruina.„

Così messer Lelio, ingegno alto e coltissimo di cospicua famiglia, mentre un povero e rozzo contadino, il pazzo di Cristo, Brandano da Petroio, che il popolino toscano non ha ancora dimenticato, a modo suo esprimeva identici sensi. Egli fu l'ultimo lamento del popolano del medio evo, co' suoi terrori e le sue celesti speranze; [162] e la prima protesta del povero moderno, che sdegna mendicare, tratta i ricchi ed i potenti, come eguali, e spesso minaccia. Avea grandeggiato popolarmente poetico e terribile come una profezia del Savonarola, nella Roma del Risorgimento, offrendo al papa ed ai cardinali stinchi di morto; eppoi, gittato nel Tevere, n'era riapparso come vindice spettro della coscienza, tutto fango e presagi. Era stato peccatore e bestemmiatore, come il Santo Davide di Montelabro, ma quanto diverso per sincerità e fervore di sentimenti dal barrocciaio maligno e corrotto che a' nostri giorni sfruttò i poveri contadini con mascherate ridicole terminate in modo sì tragico! Era andato di luogo in luogo, intimando: “fate penitenza che la morte viene„, e, pieno di amore sviscerato per la sua cara città, fu visto un giorno sui baluardi della nascente fortezza gridare a un capitano che sollecitava col bastone i lavoranti: “fate quanto volete, che non vedrete questa cittadella finita„. Il capitano vuol farlo tacere a furia di bastonate, ed egli sempre più forte: “levati di qui, scellerato, e non tribolare questi poveri uomini.... non vedrai finita questa cittadella per cui tanto ti affatichi„. Straziato con ogni sorta di torture, insisteva nel rispondere: “di aver parlato per ordine di Dio„. Chiuso nella fortezza di Piombino, fugge e torna a Siena, riappare sui lavori della fortezza, e intuona a Don Diego: “Don Diego, se tu ci tradisci, ti rinnego; Don Diego, questa tua tela l'hai ordita male; ti mancherà il ripieno, e non la finirai„. Una volta il romito si pose in seno due buone pietre vive, deliberato di darle in testa allo Spagnuolo, lassù in mezzo alla sua fortezza, ed ai suoi guerrieri. Fallì il colpo, scambiando pel duce supremo un ufficiale col saio rosso; catturato ed interrogato rispose: che voleva dare a Don Diego, “perchè non voglio facci la fortezza ai miei cittadini, che non la meritano„. Il Mendoza, colpito da superstizioso [163] terrore, osservava ch'egli era un pazzo o un profeta; se pazzo, alle sue parole non si può prestar fede, e se profeta, di necessità seguirebbe tutto quello che avesse detto, ancora che si ammazzasse. Si contentava pertanto di farlo bandire dalla città. Il pazzo di Cristo è una protesta gagliarda e spontanea del popolo calpestato e tradito dalle fazioni, dai principi e dagli stranieri; è una figura che ricorda i pazzi che grandeggiano talora più sapienti dei savi fra il cozzo delle passioni di un dramma dello Shakespeare, di uno di quei drammi simili ad aurore boreali vaste, terribili, che illuminano ad un tratto i più foschi e misteriosi orizzonti del passato, e gli abissi più imperscrutabili e le tenebre anche più nere del nostro povero e fragile cuore.

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