IX.

Come Gavinana decise delle sorti di Firenze, i tristi poggi di Scanagallo furono la tomba della Repubblica Senese. Piero Strozzi, uscendo dalla città, si proponeva di unirsi coi rinforzi che attendeva, di porgere una mano al fratello Leone, che dovea giunger per mare, di allargare l'assedio, di far la raccolta in quelle campagne e di ribellare gli Stati al duca. Nessuno di quest'intenti gli riusciva efficacemente. Rimasto ucciso Leone presso Scarlino, dopo una grande aggirata pel Volterrano, il Pisano, il Lucchese, dopo aver passato e ripassato l'Arno, scendeva Piero in Val di Chiana, occupava Marciano e Foiano, provocava il nemico a battaglia. Infine i due eserciti si trovarono a fronte sulle alture fra le quali scorre il capo torrente di Scannagallo; già pativano di tutto, e i capitani esortavano lo Strozzi a sloggiare di notte; ma egli coll'ostinazione propria de' caratteri più avventati, accecato da una fatale pazzia, volle battere [174] in ritirata alla luce del giorno, sfoggiando bravura, come in una giostra. All'ultimo momento il Bentivoglio offriva di sacrificarsi per assicurargli la marcia, e lo Strozzi, per tutta risposta: “chi ha paura fugga, io voglio combattere„. “Signore, fuggirò„, rispose in collera quel prode, e corse nelle prime file.

Erano circa le 11 del mattino del 2 agosto, e il sole sfolgorava implacabile. Gli squadroni della cavalleria imperiale si avanzano, alzando le visiere, e con faccie allegre mostrando alle fanterie il desiderio della vittoria. “Parevano (scrive il Montalvo, un testimone oculare) una montagna di ferro con piume al cielo, vista non meno brava che bella.„ La cavalleria francese, con armi e sopravvesti dorate, e molti paggi, sembrava “un bellissimo torneo„. Intorno allo Strozzi stringevansi i fuorusciti suoi concittadini, levando bandiera verde col verso dantesco: “libertà vo cercando ch'è si cara„. Tre sagri imperiali tuonavano; due falconetti davano loro poca o nessuna risposta. Già l'onda dei cavalli cesarei irrompe al di là del fosso, quando l'alfiere dei Francesi gitta il grido infame del tradimento e della paura! scampa, scampa! Era stato comprato dal nemico con alcuni fiaschi di monete d'oro, che si erano fatti credere di tribbiano. Lo splendido squadrone si divide, si rompe, fugge a spron battuto; fuga maledetta anche dalle cantilene dei contadini che destano pur oggi l'eco triste della solitaria campagna:

“O Piero Strozzi, in du' son i tuoi soldati

Al Poggio delle Donne in que' fossati:

Meglio de' vili cavalli di Franza,

Le nostre donne fecero provanza.„

Tutto non era ancora perduto. Il signor Piero, sulla cima del Poggio delle Donne, armato alla leggera di armi nere dorate, su di un cavallo turco, e collo stocco in [175] pugno, facendo gli uffici di generale e di soldato, conforta le fanterie, esclamando che quella fuga è un suo artifizio; fa dare nei pifferi e nei tamburi; sventolano le bandiere; gli Svizzeri scendono giù a precipizio, urlando: Francia, Francia; mentre dall'altro lato rispondono: Spagna, Imperio. I bruni Spagnuoli, che si erano inginocchiati a pregare prima di menar le mani, Francesi, Italiani, Svizzeri e Tedeschi si urtano, si mescolano, si uccidono. Si videro ferite stravagantissime; monti di uccisi, e il fosso ripieno di morti talmente che la retroguardia lo passava con facilità. Lo Strozzi avea proibito ai suoi di tragittarlo; ma chi poteva trattenerli? Giunti al di là, ecco di nuovo i cavalieri vittoriosi che l'investono di fianco; oramai agli imperiali e ai cosimeschi non resta che uccidere e far prigionieri; de' Francesi e dei Senesi non se ne trovavano insieme neppur cinquanta per segno di qualche residuo di ordinanza. La strage fu di qualche migliaio; i superstiti gittavano le bandiere in terra, e domandavano la vita, levandosi le bande bianche. Furono inseguiti per oltre due miglia, fin sotto Lucignano che si arrese. La furia della preda fu tale che i morti vennero “ignudati totalmente„. Lo Strozzi, ferito in un fianco ed in una mano, è travolto negli amari passi della fuga: solamente sei ore sono trascorse; ma quante speranze e quante vite distrutte; quanti anni di vedovanza e di lutto; quante lacrime, quanti orfani, qual mutazione solenne di destini, mentre il sole fa trafelare i guerrieri nelle armi rilucenti (scrive il Montalto che vi scoppiavano dentro) e continua implacabile a flagellare gli aridi campi allagati di sangue! Frattanto il duca gittava i danari a manciate dalle finestre di Palazzo Vecchio “talchè in quella piazza vi si rassembrava un altro fatto d'arme, stante la gran quantità di pugna che vi correvano„; faceva appendervi le lacere bandiere conquistate; adunarvi musici e cantanti; far [176] salve di gioia; suonar campane, cantare il Te Deum, e scrivea a Cesare: “che Dio è restato servito, dare a Vostra Maestà ed a me, suo devoto servitore, la vittoria contro i nostri nemici„. Quella vittoria si festeggiò perfino in Inghilterra.

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