I.

Dolci gli studii un tempo già m'erano: ahimè che m'incute,

la Povertà, co' suoi luridi cenci, orrore!

Onde, poi che 'l poeta non è che ludibrio del volgo,

stimo più savio cedere a' tempi anch'io.

Questo lamento, che suona troppo più efficace ne' distici latini dell'originale, questo sospiro di Angelo Ambrogini (sarà tra breve il Poliziano) alla quiete e agli agi di una vita, quale egli desiderava la sua, tutta spesa sui libri degli antichi e nell'esercizio dell'arte, è schietto documento dello stato e dell'animo di lui quindicenne. Cinque anni prima, gli avevano ammazzato il padre, per ciechi odii, ferocemente; il padre, messer Benedetto, uomo di legge, onorato d'alti offici nella patria Montepulciano, poi giudice a Pisa, cui non era valso chiedere protezione a Piero di Cosimo de' Medici, che “per l'amore de' suoi piccoli cinque figliuolini, lo sicurasse in modo che potesse starsene sicuro a casa sua senza portar arme, che non era suo mestiere„; nel maggio del 1464, tentando egli invano ripararsene con le mani inermi, l'avean morto più colpi di coltello e di partigiana. Vendetta, come allora si usava, ne era stata presa, due anni dopo, da un nipote che, sangue per sangue, uccise gli uccisori: ma la vedova si era rimasta con que' cinque figliuolini, e avea dovuto mandare il maggiore di essi, Angelo, a Firenze, da un cugino del marito, perchè si cercasse migliori fortune.

Tardavano queste; ed Angelo sentiva ogni dì più, nell'animo vivace, nella mente addestrata alle lettere, il disagio e il cruccio della miseria, onde quel sospiro che dianzi avete ascoltato. Ma come, giovinetto quale era, povero [149] quale era, potesse dare al sentimento la veste succinta di un epigramma latino, non intenderà chi non rammenti che fosse, a mezzo il secolo decimoquinto, la coltura italiana e più specialmente la fiorentina; non rammenti, cioè, i modi e i luoghi di quell'amore anzi furore per gli studii delle lettere che ebbe allora, con parola ciceroniana, rimasta fino a' dì nostri nell'uso delle scuole, titolo di umanità; delle lettere, anzi di tutta quanta la vita latina e greca; perchè parve che l'Italia, dopo le vicende barbariche, volesse riabbracciarsi stretta alla madre Roma, e quasi per ossequio di lei venerare più da presso gli esemplari della vita e dell'arte che i Romani stessi avevano ammirato nei Greci.

Alla parola Rinascimento non può ormai attribuirsi il senso che anche qualche anno fa le era attribuito: tra la lingua e la civiltà latina, tra la lingua e la civiltà nostra, distacco non fu. Come la persistenza del latino letterario per tutte le scritture nell'età di mezzo basterebbe a dimostrare, se altre testimonianze mancassero, la persistenza dell'insegnamento; come le opere degli antichi, giunte fino a noi su libri copiati nell'uno o nell'altro secolo di quell'età, dimostrano che mai non furono del tutto obliate, e le citazioni e le imitazioni ne dan riprova; così i vanti delle famiglie e delle città che ripetono a gara l'origine degli antichi eroi, e ne onorano i sepolcri che si credono recuperare, e conservano o dànno ai magistrati i nomi d'un tempo gloriosi, affermano che il popolo d'Italia non smarrì mai, e viva e intiera riebbe presto, la coscienza del sangue suo, del latin sangue gentile. Sì che Dante, il quale osava, contro il dispregio delle scuole, levare alle altezze del suo pensiero la parlata del volgo, Dante si stima, proprio perchè fiorentino de' puri, romano, e fa che Virgilio si stringa fra le braccia con amore di compatriotta il recente Sordello, e a Virgilio si fida come a connazionale, dicendolo, con orgoglio [150] di comunanza, nostro. E neppure si era mai spenta, fosse pur fioca e vacillante, la luce degli studii greci, alimentata da quanto la Chiesa d'occidente nei testi e nei riti aveva di greco, da quello che avevano dato e davano a tratti le ragioni politiche, dal più che recavano i commerci continui tra le repubbliche nostre e l'impero orientale. Morte dunque non fu, e parola fallace è perciò quella del Rinascimento; non da sbandirla, ove s'intenda che l'Italia, nei secoli dall'undecimo al decimosesto, rinvigorita, rallietata tutta, ebbe come una nuova gioventù di fede in sè e di gagliardia; quasi una grande quercia che, dopo aver frondeggiato ne' secoli, rotta ed arsa da più fulmini, sembri, per una stagione, destinata a perire; ma le percosse stesse e il riposo le hanno invece giovato, e getta fronde novelle, di verde più gaio, e torna a dare ombre dilette e ghirlande di gloria.

Ma per pochissimi che delle lettere classiche sapevano tanto da valersene come di nutrimento vitale al pensiero, per pochi che almeno modellavano lingua e stile su questo o su quell'autore de' buoni, quanti (e parlo sempre degli uomini colti) confondevano le forme della grammatica in un gergo strano, dove non era nè il latino corretto nè il volgare schietto, e le cose e gli uomini dell'antichità confondevano in una scienza tutta errori e leggende! Il popolo s'era fatto un Virgilio mago, del quale narrava le arti: come avesse purgata Napoli dall'aria cattiva, dalle sanguisughe che ne guastavano le acque, dalle cicale, dalle mosche, dalle zanzare che la tediavano, dalle serpi che la infestavano; come avesse aperto il monte di Posillipo, e, quel ch'è più, atterrito il Vesuvio dall'erompere, con la statua d'un arciere pronto sempre a saettarlo. Molte di queste e altre tali meraviglie ingrossavano la biografia del poeta ai tempi del Petrarca; e un fiorentino non incolto, Antonio Pucci, ne registrava alcune in un suo zibaldone, avvertendo [151] che “quantunque paiono a grossi huomini favole perchè in loro cuore non le possono comprendere, abbi quelle che udirai per vere„. E un altro poeta, più oltre, sui primi del quattrocento, poteva di Virgilio arditamente affermare che, andato a scuola,

per la testa grossa che lui avia,

da' scolari Marone era chiamato.

E già era stato detto innanzi, Virgilio derivare da ver gliscens, perchè ei fu vario e fecondo come la primavera, e Marone dal mare, perchè abbondante di scienza come d'acque il mare. Così d'Ovidio e il popolo e i dotti favoleggiavano miracoli; e sul nome facevano, ch'era esercizio consueto, belle fantasie: “Ovidio fu poeta (scriveva uno de' primi commentatori di Dante) et fu chiamato Publio, et per sopranome Ovidio ab ovo, perchè aveva tondo il viso, ritratto come un ovo: fu ancora chiamato Nasone, perchè aveva uno grande naso.„ Sallustio era fatto da alcuni zio di Cornelio Nipote; Stazio, contemporaneo di Ennio, e padre di due figliuoli, Archimede e Tebaide, nei quali è facile, con la correzione del primo nome in Achilleide, riconoscere i poemi suoi; e quasi nomi di uomini erano già stati citati Eunuchus comoedia e Orestes tragoedia; Plinio il vecchio, confuso col giovane, aveva ai molti libri suoi la giunta di leggende su Lucifero e su l'Anticristo; e Marziale, per gli epigrammi culinarii, il titolo di cuoco. Nè più si sapeva o si capiva della mitologia: “Venus fue una bellissima donna, regina de Cipri, e fue sì bella che quanti la vedeva di lei innamorava: unde dapuò la sua morte fue deificata e dicta dea de lo amore„; “Apollo nacque in Delo e fue sommissimo astrolegho e tractò del corso del Sole; e per tanto fue deifichato in lo quarto pianeta. Questo Apollo che uno figlio dicto Eschulapio, che [152] grande tempo medichò per la scienza del padre; imperò che Apollo fue lo primo che trovasse la medicina, et poi stete grande tempo persa, perchè, morto Eschulapio, le grosse giente arsero i libri, perchè trovavano che le cose venenose intravano nelle medicine; et non sapendo considerare l'utele de la scienza, desfecero i libri.„ Basti il saggio breve: tali, su per giù, la conoscenza e l'intelligenza dei miti negli anni in cui il Petrarca e il Boccaccio si affaticavano a restaurarne lo studio, e iniziavano la critica filologica e storica; dove è da notare, per segno dei tempi, che il Petrarca a Roberto re, il quale, presenti molti, lo dimandava sulla grotta di Posillippo, se la credesse anch'egli opera della magia virgiliana, rispose deridendo quelle stoltezze; e il Boccaccio, invece, nel commento all'Inferno dantesco, le ribadiva. Le menti del medio evo, disadatte a uscire dal cerchio del presente, e giorno per giorno seguitando ad allontanarsi inconscie dal modo antico di vedere e di rappresentare, non intendevano più nè l'arte nè la vita de' secoli greci e romani; e quando volevano rappresentarle, le travestivano. Ciò che alla mitologia, accadde alla storia: Teseo diventò duca d'Atene; Atene ebbe una università come avevano allora Parigi e Bologna; Alessandro Magno, dopo aver corso co' suoi baroni e signori tutto l'Oriente, scese in una gabbia di vetro fin giù nel fondo del mare, tentò l'entrata del Paradiso terrestre; Nerone partorì dal fianco una ranocchia; la regina di Fiesole, Belisea, prigioniera di Catilina, andò “la mattina di Pasqua di Pentecosta alla chiesa nella Calonaca di Fiesole alla messa„ (mi è ben lecito citar qui il Malispini); e Catilina, sfidato da Attila “fece con lui sì aspra battaglia, che pochi ne camparo dall'una parte e dall'altra, e Attila fu ritrovato morto presso all'Arno, e Catellina fu ritrovato morto nella costa di Fiesole„.

Tale, fino a non più che cento anni innanzi al Poliziano, [153] e anche più da presso, la dottrina che scrittori non incolti avevano dell'antichità. E quanto sapessero di latino, per quel che è della correzione e dell'eleganza, mostra il latino stesso di Dante, che pur sapeva a mente tutta l'Eneide: dirò di più, il latino stesso del Petrarca, tanto migliore di quel di Dante, e pur tanto lontano ancora dalla retta imitazione de' classici, e spregiato per ciò dagli umanisti più tardi, non senza ragione, come barbarico. E sì che il Petrarca fu davvero, quale lo vantano i frontespizii nelle antiche stampe delle opere sue, “filosofo, oratore e poeta chiarissimo, della rifiorente letteratura e lingua latina, per molti secoli da orrenda barbarie deturpate e quasi sepolte, confermatore e instauratore„. Parole magnifiche, ma non false. Discepoli suoi possono infatti considerarsi e il Boccaccio e il Salutati e il Marsigli e il Malpaghini, co' quali l'erudizione classica meglio si addestrò e si fe' laica e divenne parte necessaria della vita civile e politica. D'allora in poi l'umanesimo, sì bene avviato, avanza ogni anno di spazio, cresce ogni anno d'intensità: Firenze è il focolare; le faville se ne diffondono per tutta Italia, e, secondo i luoghi, suscitano fiamme nuove o dan forza ai fuochi che già ardevano chetamente: a Venezia, Padova, Verona, Milano, Pavia, Genova, Mantova, Ferrara, Bologna, Rimini, Urbino, Pesaro, e Foligno, e Camerino, a Siena, a Roma, a Napoli, là dove era un reggimento aristocratico, repubblicano o principesco o pontificio che fosse, ivi da per tutto chiamare maestri, raccoglier libri, educare i giovani alle lettere con lezioni e con dispute, reputare decoro e utile della città e dello Stato un cancelliere che sapesse vestire consulte e ambasciate di adequati e sonanti ed efficaci periodi. Da queste città in altre attorno minori; dalle corti e da' magistrati supremi nelle famiglie, fino alle donne. Leggesi sulla fine del trecento, di una gentildonna veneziana: “Chostei fu [154] lodata et dotata de una piacevole grammaticha (seppe, cioè, di latino), et udio li poeti (i latini, s'intende) in questo muodo, che, essendo lei fanzulla, la madre la mandò a la scola perchè imparasse da legere a ziò che dire potesse lo officio de Nostra Donna; poi, essendo grande, intanto lo padre teneva uno grande maestro in poexia che legieva a li figioli li autori; et chostei, udendo quelli, et udendo latinare, meravigiosamente si fece saputa, et molto si dilectò in Virgilio, et piacevolmente lo intexe, e sì bene che io, che zià la udi' parlare, a pena me'l consento.„ Ben s'intende come, un secolo dopo, il Poliziano, visitata a Venezia Cassandra Fedele, dotta di greco e di latino, sì che la Repubblica gelosa non volle mai che, per inviti di re e di pontefici, lasciasse la terra di San Marco, il Poliziano potesse scriverne a Lorenzo de' Medici: “È cosa mirabile.... Partimi stupito.„ Nè che in Firenze ricambiasse con lui epigrammi greci Alessandra Scala, che in greco recitava l'Elettra di Sofocle.

Perchè anche gli studii del greco, che fino al secolo undecimo avevano, se non fiorito, perdurato, specialmente nell'Italia meridionale, nè mai si erano inariditi del tutto, si riebbero presto e divennero necessario compimento a quelli del latino. Fino dal 1359 il Boccaccio erasi accolto in casa un maestro di lettere greche, Leonzio Pilato calabrese, e gli avea procurata una cattedra in Firenze e libri greci da interpretare: e il Petrarca, che volle costui a Venezia, gli diede poi a tradurre, per prezzo, l'Iliade e l'Odissea; ormai disperava intendere da sè quei libri greci che aveva imparato a decifrare da un altro calabrese, frate Barlaam, e che, non intendendoli, si compiaceva almeno di possedere. Venne finalmente da Costantinopoli un maestro migliore, Manuele Crisolora; e già nel 97, per merito del Salutati, ne ascoltavano a Firenze le lezioni più giovani volonterosi e ingegnosi: [155] quando, sette anni dopo, il Crisolora se ne tornò in patria, un altro giovane, Guarino veronese, lo accompagnò come servo, pur d'imparare! Anche il greco era ormai riconquistato alla coltura italiana.

Que' giovani si spandono per l'Italia e per la Germania, frugano le biblioteche degli antichi conventi; traggon giù dagli scaffali tarlati, detergono dalla polvere de' secoli, i manoscritti, e gli scorrono qua e là frettolosi, col cuore che batte di desiderio e di speranza; ecco le orazioni di Cicerone, i carmi di Catullo, gli annali di Tacito; ecco le voci degli antichi nostri, che per lungo silenzio parean fioche, levarsi da quelle membrane ingiallite a orecchie bramose e capaci di comprendere. Ed altri scrivono a Costantinopoli per aver libri greci, s'imbarcano essi stessi, comprano, rubano talvolta; ecco Sofocle, ecco Platone, ecco i doni dell'arte e della sapienza ellenica che i nostri antichi tesoreggiarono e che noi vogliamo riammirare, nè ci lasceremo sfuggir più. A Strasburgo, nel 1439, un tale muove lite a un tal altro perchè gli mantenga i patti conchiusi con un suo fratello defunto, nell'esercizio di una certa arte arcana: i testimoni parlano di ordigni strani, torchi, forme, punzoni: il socio citato in processo è Giovanni Gutemberg. La stampa è inventata: l'eredità dei classici è assicurata al pensiero moderno; promesso e assicurato con lei a te, o pensiero moderno (lo dirò col poeta), il trionfo “su l'età nera, su l'età barbara, sui mostri onde tu con serena giustizia farai franche le genti!„

Dopo il Bruni, morto nel 44, il Valla nel 57, Poggio Bracciolini e l'Aurispa nel 59, il Guarino nel 60, Flavio Biondo nel 63, l'umanesimo ha ottenuto, non tutti i frutti suoi, ma tutto quanto il campo che dissoderà: la critica e la interpretazione dei testi, la storia, la geografia, l'epigrafia, la numismatica; l'archeologia insomma o la filologia; e d'altra parte, la grammatica e la retorica come [156] strumenti all'imitazione delle forme letterarie classiche: la correttezza, cioè, la scioltezza ed eleganza delle prose e dei versi sì latini che greci. Quando nel 1453 cadde l'impero d'Oriente (fo mia una notevole osservazione del Del Lungo) non furono i profughi che ci recassero la scienza, ma sì la scienza nostra li assicurò di accoglienze buone e fraterne.

E intanto Cosimo de' Medici, di quella famiglia di popolani mercanti il cui nome entra nella storia tra le prepotenze di parte Nera nel 1301 con un assassinio, Cosimo, il più ricco uomo d'Italia e il più liberale, padroneggiava Firenze; e attorno a sè, per amor di dottrina e arte di governo, raccoglieva uomini di lettere e codici, e, conversando coi greci, ideava l'accademia platonica. Lo studio fiorentino avea lettori e ordinamenti compiuti; la città si adornava di edifici e di opere stupende; il danaro affluiva; la Signoria stessa si rinnovava di fogge e di suppellettili il corteggio e il Palazzo. Onde Piero, dopo la morte del padre suo che fu titolato padre della patria, potè meglio sentirsi e assumere sembianza di principe; e come principi fece educare nei costumi e nelle lettere i figli Lorenzo e Giuliano. Quando nel 1469 morì, il primogenito non titubò a pigliarsi la cura dello Stato; e Firenze ebbe, e nel bene e nel male, i giorni che già Atene con Pericle. La libera città de' mercanti artisti perdeva nel fatto, se non di nome, le istituzioni repubblicane; in ricambio non buono, acquistava gli splendori della corte medicea e dell'umanesimo.

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