II.

Ormai è chiaro in che modo il quindicenne Ambrogini potesse lamentarsi della sua miseria in distici garbati; ci è chiaro anche in che modo potè, indi a poco, rompere la malignità della sorte. La protezione che quel povero messer Benedetto aveva chiesta invano a Piero de' Medici, fu dal figlio dell'invocato protettore conceduta al figlio dell'assassinato, non tanto forse per la pietà dei casi suoi quanto per la stima dell'ingegno e della dottrina. Lorenzo aveva sei anni soli più dell'Ambrogini, e comuni con lui gli studii, del pari che alcune qualità della mente; pregato egli giovine poeta da un poeta giovine, che lo salutava e si diceva tutto suo, s'intende che subito ricambiasse il saluto e l'offerta con benevolenza di signore e cortesia di confratello. Che mai chiedeva in distici latini il minore al confratello magnifico? Prima di tutto un paio di scarpe, chè i diti dei piedi gli si affacciavano dalla rotta prigione alla vista del cielo, e un vestito, fosse pure usato, che non mostrasse le corde e peggio, come quello che lo faceva schernire da' beceri. Delle scarpe non so; il vestito venne; e tali furono, in versi che mi spiace dover guastare, i ringraziamenti:

Ben io volea più volte ne' carmi renderti grazie,

Lorenzo, o gloria prima de' tempi tuoi;

sì che invocai la Musa Calliope con lunghe preghiere,

ed ella venne, e avea seco l'arguta lira.

Venne; ma come addosso mi vide le splendide vesti,

subito volse a dietro l'isbigottito piede,

chè ravvisar la Dea non seppe sì bello il poeta:

troppo mi fa mirando questa vermiglia toga!

[158]

Onde se a te minori dà il verso le debite grazie,

colpa ha la Dea che niega regger la penna mia.

Oh che leggiadri carmi udrai, sì tosto che avvezza

a' miei splendori nuovi si sia la Musa!

La valentia che questi epigrammi dimostravano, fu confermata a Lorenzo da' maestri dello Studio, tra i quali Marsilio Ficino che di quello scolaro prometteva grandi cose: anche meglio la confermò, subito dopo, il secondo libro dell'Iliade, recato in esametri latini, di colore e sapore virgiliano, e offerto a Lorenzo medesimo. Il primo libro ne era stato tradotto, per desiderio di Nicolò V, da un segretario della repubblica, il Marsuppini, morto nel 1453: non potea non piacere al Magnifico, che l'impresa fosse continuata a Firenze, sotto gli auspicii suoi; ed Angelo, che secondo l'uso degli umanisti si ribattezzava, dal nome della patria, in Poliziano, lasciò la casuccia di via Saturno, dove il cugino povero lo aveva ospitato, e salì le scale del palazzo mediceo in via Larga. Le salì certo senza borbottare il verso di Dante, che è duro salire le scale altrui: perchè egli era giovane molto, e sapeva la cortesia del protettore; e perchè l'umanesimo aveva raddolcite le asprezze del vivere medievale, ma anche, mi convien dirlo, scemato il vigore degli animi, e adusati i letterati e gli artisti a stimarsi artefici di diletto e di fama ai potenti, anzi che, come Dante fu, gl'interpreti e i vindici della rettitudine e della patria. Fatto sta che il Poliziano, disposto a celebrare, in gloria di Lorenzo, quasi una nuova Iliade, perfino il sacco spietato di Volterra, e sollecito pedagogo ai figli di lui, se ebbe sempre a lodarsi del padrone, si accorse anch'egli che il pane altrui sa di sale quando fu poi preso in uggia dalla padrona, madonna Clarice.

Ma tali fastidii sentì più tardi. Allora, godendosi la quiete operosa di che già avea disperato, attendeva alla [159] versione d'Omero. Dalla quale non gli fu grave distrarsi per ammirare a Mantova le feste che il Gonzaga diede in onore di Galeazzo Sforza e Bona di Savoja sposi, nel luglio del 1471; per ammirarle e farvisi ammirare; poi che quivi, come volle il cardinale di Santa Maria Nuova, che l'avea conosciuto allora allora in Firenze, dovè, entro quarantotto ore e in quella tanta confusione, mettere insieme la favola d'Orfeo. Rammentatevi che il Poliziano, nato il 14 luglio del 1454, compiva proprio in quei giorni 17 anni.

Perchè fosse meglio inteso dagli spettatori, l'Orfeo fu in volgare. E forse spiacque allora al giovine umanista dover piegarsi, oltre all'angustia del tempo, anche a codesta necessità; tanto che poi si doleva, gli amici avessero conservato quell'abbozzo, e, pur assentendo che ormai vivesse, gli volle unita un'epistola a testimonio della sua riluttanza. Vero è che vi aveva cacciato dentro, per amore o piuttosto per forza, almeno una strofe saffica sua, e due distici d'Ovidio accomodati al proposito; ma troppo misero segno era quello della dottrina sua e di latino e di greco! Qualche anno dopo, quando a tutti egli appariva maestro nelle lettere classiche, s'intende invece che non senza un segreto compiacimento concedesse agli amici la favola improvvisata, in quella età e a quel modo, con tanta snellezza ed eleganza di rime. E il compiacimento gli sarebbe stato maggiore se avesse potuto prevedere l'importanza che un tempo si attribuirebbe all'Orfeo, primo esperimento certo di adattare ai metri e alle forme delle sacre rappresentazioni la materia profana. Un palcoscenico, più largo che fondo, diviso, a una certa distanza, da quella che oggi dicesi la ribalta, in due scompartimenti; al modo stesso che oggi vediamo, per esempio, nel Rigoletto; salvo che nel melodramma odierno è da un lato l'interno della casa, e dall'altro la via contigua, mentre nella favola antica le selve della Tracia stavano a ridosso dell'Averno, che gli spettatori dovevano [160] immaginarsi sotterra; dalle selve e dall'Averno si facevano a mano a mano innanzi sul proscenio i personaggi; e supponevasi determinato il luogo dell'azione dallo scompartimento onde essi erano usciti. L'Averno, nel quale si vedevano vivi Plutone re, e Proserpina e Minos e una Furia, e s'intravedevano per artificio di pitture Issione, Sisifo, Tantalo, le Danaidi, Cerbero, le altre Furie, disse subito agli invitati del Gonzaga che l'arte del giovinetto omerico, come lo chiamava il Ficino, li avrebbe tratti nelle fantasie pagane; e la curiosità della festa, con quella novità, dovè accendersi più. Ed ecco, invece dell'Angelo consueto, Mercurio in persona a esporre l'argomento; e dopo lui, quasi a temperar la tristezza delle morti annunziate, un pastore schiavone, cioè trace, suscitare il riso ribadendo l'ammonizione agli uditori in un suo gergo strano:

State tenta, bragata; bono argurio

chè di cievol in terra vien Marcurio.

Ma Aristeo e Mopso, sebbene pastori traci anch'essi, dan principio alla favola ragionando tra loro in rime di squisito eloquio; e Aristeo, perchè il vecchio intenda meglio la forza dell'amore onde è preso, si fa accompagnare da lui sulla zampogna mentre canta una ballata di perfetta toscanità.

Udite, selve, mie dolce parole,

poi che la ninfa mia udir non vole.

La bella ninfa è sorda al mio lamento

e 'l suon di nostra fistula non cura:

di ciò si lagna il mio cornuto armento,

nè vuol bagnare il grifo in acqua pura,

nè vuol toccar la tenera verdura;

tanto del suo pastor gl'incresce e dole.

Udite, selve, mie dolce parole,

poi che la ninfa mia udir non vole.

[161]

Tirsi, servo d'Aristeo, che si vanta di avere ravviato con suo gran rischio nella mandria di Mopso un vitello smarrito, getta un'altra risata nell'azione che si affretta a mal fine per colpa sua; ha vista una donzella coglier fiori, e la descrive bellissima; onde Aristeo riconosce l'amata e ne va in cerca e la insegue. Passano su la scena correndo; poi si ode di dentro alla selva uno strido; un serpe velenoso ha punto la giovine che là cercava nascondersi dall'inseguitore. Turbati così gli animi degli spettatori, il poeta, quasi a intermezzo di svago, fece che s'inoltrasse Orfeo con in mano la lira miracolosa, e accennasse su questa in saffici latini le lodi del cardinale, figlio secondogenito del marchese Lodovico, augurandogli la tiara; il marchese dava la festa, il cardinale l'aveva voluta più bella per l'arte di lui Poliziano: ma l'ode, già nota, credo, a' lodati, ai quali per ciò quell'accenno bastava, era subito interrotta da un pastore:

Crudel novella ti rapporto, Orfeo,

che tua ninfa bellissima è defunta.

E Orfeo, con dolorosi lamenti, andava davanti all'inferno a impetrare gli fosse resa Euridice, mortagli così crudelmente nel voler serbare la fede coniugale.

Nel Convito di Platone si legge un raffronto di alta idealità tra la sorte d'Alceste e quella d'Orfeo. Alceste, osserva Platone, per salvare il marito suo Admeto, volle morire per lui, e gli Dei le concessero il premio di tornare dall'Ade alla luce e all'amore; ma Orfeo gli Dei “senza effetto rinviaron dall'Orco, dopo avergli soltanto mostrato la imagine della donna per la quale v'era disceso; non già gliela resero, chè giudicarono, si fosse comportato vilmente e da citaredo ch'egli era, per ciò che non avesse avuto il coraggio di morir per amore, come Alceste, ma ingegnato a penetrar vivo nell'Ade: [162] e di ciò certamente lo voller punito, facendo ch'e' fosse morto dalle donne„. Che il Poliziano, discepolo del Ficino, rammentasse il Convito, non è improbabile; l'arte a ogni modo gli suggerì un grido almeno, che, rispettando il mito tradizionale, desse alla parlata d'Orfeo più calore di perorazione. Rendetemi Euridice,

e se pur me la nieghi iniqua sorte

io non vo' su tornar, ma chieggio morte!

Proserpina si commuove al lamento di costui genuflesso innanzi a Plutone, al lamento che ha fatti dimentichi i tormentati e i tormentatori dei supplizi infernali; e induce a pietà il marito: Orfeo riavrà Euridice, solo che non si volga a guardarla prima che siano tra i vivi. Ma il citaredo, direbbe Platone, nel cantare a gioia “certi versi allegri che sono d'Ovidio„ dimentica il patto, e perde la donna sua, cui richiede invano, subito spaurito (oh citaredo!), dall'opposizione di una Furia. E peggio fa del lasciarsi atterrire; chè bestemmia (con che ragione? ma la favola portava così) l'amore delle donne, e si propone d'ora in poi farne a meno. Sì che una Baccante non ha torto quando indignata chiama le compagne ad ucciderlo: e fuor dalla vista degli spettatori lo straziano, per recarne in trionfo la testa cantando le lodi di Bacco in una ridda gioiosa.

Ognun segua, Bacco, te!

Bacco, Bacco, eù, oè!

Chi vuol bever, chi vuol bevere,

vegna a bever, vegna qui.

Voi imbottate come pevere.

Io vo' bever ancor mi.

Gli è del vino ancor per ti.

Lassa bever prima a me.

Ognuno segua, Bacco, te!

Bacco, Bacco, eù, oè!

[163]

Così, non senza un po' nelle rime di quello schiavone o trace comico da cui aveva prese le mosse, chiudevasi comicamente la festa. Festa drammatica, non dramma vero, e tanto meno tragedia di tipo classico, quale poi altri la volle per altre feste racconciare alla meglio, con accrescerla e distinguerla in atti. Di drammatico non ha l'Orfeo altro che il dialogo, il quale anche vi si leva sempre che può alla lirica: troppo più efficace il contrasto degli affetti e più rude ma viva la voce d'essi, troppo maggiore insomma la commozione del fatto e dello stile, in alcuna delle rappresentazioni sacre di cui la festa profana aveva accettato i metri e le forme. Se non che, pur lasciando da parte la importanza storica che l'Orfeo ha, appunto per essersi valso di esse forme in argomento profano, oh come dolce vi sonava il volgare, lo spregiato volgare, ripetendo sulle intonazioni degli strambotti popolari le immagini elette de' classici greci e latini! Le Muse antiche tenevano un po' il broncio, nel secolo decimo quinto, alla Musa nostra novella, che ne' due secoli innanzi aveva, non certo volendo, minacciato pareggiarle e superarle in bellezza. Virgilio si era soffermato con Dante sulla spiaggia del Purgatorio, dimentico di sè e del discepolo affidatogli, a udire i versi di Dante medesimo, che aveva musicati e ricantava Casella: e le muse di Grecia e di Roma s'indispettivano più, ripensando quell'omaggio che il loro alunno migliore aveva fatto alla Musa d'Italia. Spettava al diciassettenne toscano, che traduceva Omero in latino, la gioia e la gloria del riconciliarle nella festa italiana d'Orfeo: le antiche, non più gelose, abbracciarono finalmente la giovine sorella; e a lei, cogliendo insieme il destro a premiare chi aveva il merito della pace, a lei promisero splendidi doni: le Stanze del Poliziano stesso, o l'Orlando Furioso di Lodovico Ariosto.

[164]

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