IV.

L'Orfeo e le Stanze, opera quasi improvvisata la prima, non compiuta la seconda, furono pubblicate soltanto due mesi innanzi che il Poliziano morisse, e non per volontà di lui. Al pari del Petrarca, egli, da buon umanista, chiedeva piuttosto e si aspettava la gloria dalla filologia [173] classica, nell'arte e nell'erudizione. Per ciò, interrotta dalle Stanze, la versione d'Omero, ch'era destino restasse come le Stanze incompiuta; per ciò, scritto in latino il commentario della congiura de' Pazzi; per ciò, gli epigrammi greci e latini; e in latino le elegie, le odi, le Selve, le traduzioni di prose greche, le orazioni, i trattati, le miscellanee. Tanto più, perchè a ventisette anni già insegnava eloquenza greca e latina nello Studio fiorentino, dove accorrevano a udirlo tali ch'egli aveva ascoltati maestri; e perchè l'umanesimo si andava mutando d'arte in iscienza e richiedeva ormai lunghe e pazienti fatiche di collazioni sui manoscritti e di commenti.

Giurazio Suppazio, che va in cerca de' dotti per tutta l'Italia, dopo aver corse due giorni le vie di Roma con gran rischio d'essere messo sotto dalle mule de' prelati, si sfoga con un letterato dell'ozio in cui gli sembrano sprofondati i Romani: otio illic marcescere homines, dice Suppazio; e l'altro lo prende a pugni: - To' su, bestiaccia! splendesco, tabesco, liquesco non ammettono il caso ablativo! - Più egli cerca, con esempii, scolparsi, e più ne busca; sì che fugge da quella grandinata e va a lagnarsene altrove; ma non ha aperto bocca, che il confidente lo interrompe: - O non ti vergogni a codesta età, non saper di latino? iniuriam patior chi te l'ha insegnato a dire? - Neppur qui valgono al disgraziato gli esempii; e quando vede che il grammatico stringe i pugni, fa tutta una corsa fino a Velletri. La satira è come uno specchio convesso che altera la proporzione delle fattezze e suscita il riso: ma il volto sformato è pur nello specchio quel dato volto e riconoscibile a tutti: così nel dialogo del Pontano accade al purissimo de' ciceroniani ignoranti. Or quando si può far satira tale, la diffusione e la intensità dell'umanesimo, rispetto allo scrivere latino, sono palesi. Ridicola appariva ormai la lingua letteraria del medio evo, tanto lontana da quella [174] dei classici; e la questione che si agitava non era più che questa: si ha da scrivere coi vocaboli e i costrutti di Cicerone solo, o sarà lecito valersi d'altri vocaboli e costrutti usati dagli altri antichi? e, al bisogno, coniare vocaboli nuovi? il Poliziano fu per la libertà, diciam pure per la licenza, e ne sostenne fiere baruffe, che lasciò in eredità ai discepoli. Ma come Erasmo, eclettico anche lui, esclamò piacergli più quel che il Poliziano scriveva dormendo, di quel che un suo avversario, Bartolommeo Scala, da sveglio e con ogni cura; così, oggi che l'eclettismo ha perduta la guerra, i critici lodano ancora nello stile del Poliziano, sia pure a mosaico e tutto fioretti, un gran sapore di latinità, e un vigore, una grazia, singolari. L'elegia per le viole avute in dono dalla sua bella (vo' credergli non fosse ancora canonico!) quella in morte di Albiera degli Albizzi, che prenunzia le Stanze, l'ode ad Alessandro Cortesi, i giambi contro una vecchia (anche in latino ricantavano i motivi popolari), gli esametri delle Selve con le quali splendidamente iniziò le sue letture pubbliche di Virgilio, d'Esiodo, d'Omero; e in prosa, le epistole, la prelezione alle Priora d'Aristotele, il trattatello sull'ira, la narrazione della congiura, sono tra i capolavori del latino recuperato, com'egli diceva, dalla barbarie dell'evo medio. “Non son mica Cicerone io! me stesso, se non m'inganno, ho da esprimere.„ Il ragionamento, a dir vero, zoppica; o non aveva, ad esprimersi, il volgare? Ma il libraio degli umanisti fiorentini, Vespasiano da Bisticci, affermava, quasi interprete di tutti loro, che “nello idioma volgare non si può mostrare le cose con quello ornamento che si fa in latino„. Esperienza del contrario fece il Poliziano medesimo, e si mostrò restio, almeno in parte, al detto del Filelfo: in volgare si scrivon le cose che non vogliamo far sapere ai posteri. Restio pe' versi, non per la prosa; e voi rammentate che dell'uccisione di Giuliano [175] lasciò ai posteri la grave memoria in un racconto latino. Del resto, anche per la poesia, troppa distanza poneva tra i classici e i moderni. In una Selva, celebrati i greci e i latini con più di settecento esametri, si sbriga con otto soli di Dante, del Cavalcanti, del Petrarca, del Boccaccio: è un cenno in cui suona l'affetto; ma l'ammirazione sua va ai padri antichi, non ai recenti fratelli.

“La sapienza latina e greca le abbracci per modo che non è facile accorgersi di quale tu possegga più. Senza adulazione, Poliziano mio, non c'è che un solo, o due, o forse nessuno, degno d'esserti paragonato: se foste in più, il secolo nostro non avrebbe di che invidiare gli antichi.„ La lode è d'un giudice amico, è del candido Gian Pico della Mirandola; ma data l'enfasi epistolare d'allora, esagerata non è. Il Poliziano, componendo epigrammi, traducendo Omero, le Storie d'Erodiano, il Manuale d'Epitteto, fu veramente, anche per le lettere greche, così elegante scrittore come sagace interprete, e benemerito della filologia moderna. La quale, se ammira quella tanta facilità e vivacità dello scrivere latino e greco, sia pure che, fatta più accorta da quattro secoli di studii, abbia qua e là a notare qualche scappuccio di stilistica e di prosodia, attribuisce al Poliziano lodi maggiori per avere, con senno ed acume di critica, bene avviata e procurata la restituzione e la interpretazione dei testi, e lo saluta come uno de' maestri primi. Grammatico si vantava egli; ma la sua grammatica era la filologia tutta e comprendeva tutta la vita e la letteratura degli antichi. “Di grazia, m'avete voi per tanto insolente o stolto, che se alcuno mi desse del giureconsulto o del medico, non crederei in tutto ch'e' volesse il giambo de' fatti miei? E pure (sia detto senz'arroganza) gli è buon tempo ch'io lavoro, e di lena, ad alcuni commentarii sul Diritto civile, ad altri su maestri di medicina; nè voglio acquistarne altro nome che di grammatico; [176] pregando che non mi sia invidiata questa qualifica, schifata pure da certi messeri come vile e spregevole.„ Codesto grammatico raffronta codice a codice; corregge col raffronto gli errori; dove il raffronto non giova, fa congetture, e spesso indovina, come poi altri codici proveranno; intende ciò che fino a lui pareva oscuro; e può nella prima centuria delle Miscellanee mostrare, da gran signore, senza ostentarla, una dottrina e una sagacia che sarà mirabile a tutti gli studiosi, dopo essere stata gradita a Lorenzo de' Medici, il quale cavalcando con a fianco l'amico, si dilettava ascoltarne le primizie. Così talvolta si dilettavano insieme assistere alle dispute de' dottori rivali su questioni di leggi; e d'una avvenuta in Pisa, riferiva così il bidello al notaio dell'università: “Riscaldandosi e giostranti nell'arme si fe' buio, e col torchio finì detta disputa. Venendo loro (Giason del Maino e il Soccini disputanti) a un certo passo d'un testo, del dire in un modo a dire nell'altro, Lorenzo e M. Agnolo Poliziano suo mi mandò con sua volontà per uno codice, e trovata la legge, M. Agnolo la lesse presso Lorenzo.„ Questo nel 1489; l'anno dopo, la collazione del manoscritto delle Pandette era finita, e il Poliziano aveva sospinta con essa anche la culta giurisprudenza a progressi crescenti. E nella giurisprudenza, oltre quel merito del testo restituito a lezione migliore, a lui spetta quest'altro, dell'aver accennato per primo alle traduzioni greche del dritto giustinianeo, ai Basilici e a Teofilo, con opinioni che la scienza odierna, se non le accetta tali quali, ancora discute.

Quando nel 1494, due anni dopo il suo Lorenzo, il Poliziano morì, che non contava ancora quarantun anno, l'umanesimo trionfava negli studii, nell'arte, e, quel che più importa, nella coscienza italiana. Eccone, per molti, un esempio men noto. A Reggio d'Emilia, negli ultimi mesi della vita del Poliziano, corse voce fosse sottratto, [177] o che presto sarebbe, dal convento de' Carmelitani, un codice ove un frate umanista, Michele Ferrarmi, aveva raccolte quante più iscrizioni antiche gli erano capitate in lunghi anni di ricerche. La città si commuove; gli anziani si adunano e fan provvisione, si mandino al convento tre deputati i quali parlino col priore e diano opera a che il prezioso manoscritto sia incatenato e talmente affisso nella libreria del convento che mai non possa esserne nè tratto nè sottratto, ma resti (son le parole della deliberazione) quasi un altro libro delle Pandette nella città di Reggio perpetuamente. I deputati andarono; i frati si scusarono e promisero; Reggio vanta ancora nella sua biblioteca il codice del Ferrarini.

Tali gli effetti dell'umanesimo. Del quale io, parlandovi d'Angelo Poliziano, non potevo e non dovevo colorire il quadro compiuto che la serie di queste letture vi andrà troppo meglio a mano a mano dipingendo. Ma non vi dissimulo che il Poliziano stesso mi avrebbe data occasione a farvi almeno intravedere anche il rovescio della medaglia, la petulanza del chiedere, i costumi facili, le invidie, le insidie, i furori letterati, se avessi stimato utile ed opportuno, dentro lo spazio d'un'ora, fermarmi su i vizii e su i malanni dell'uomo, e del tempo suo, piuttosto che sulla virtù di quella mente e sulla importanza del rifiorire degli studi classici. Che se poi non fossi riuscito neppure in ciò, mi valga uno di quelli epigrammi che il Poliziano si compiaceva aguzzare nelle sue lettere: lo scrisse a Gian Pico, un giorno che nel far lezione l'avea veduto tra gli scolari; ed io lo parafraso ed estendo a voi tutti: “Per farmi onore vi siete messi a sedere qui innanzi a me, quasi mi foste scolari. Non v'aspettate la mia gratitudine. Se la lettura v'è piaciuta, sta a voi l'esserne grati a me; se poi la non v'è piaciuta, oh non ci mancherebbe altro che vi dovessi esser grato io!„

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