III.

Intonazione popolare, ho detto, e immagini classiche. Sì fatta mistura non poteva riuscir felice, prima che ne fossero separatamente manipolati e affinati gli elementi; e per ciò neppure al Boccaccio, che la tentò ne' poemi, accadde d'ottenerla, se non forse qua e là nel Ninfale fiesolano. Ma i prosecutori dell'opera sua di umanista e di poeta, avevano, dagli ultimi decennii del trecento in poi, quali studiata l'arte su gli antichi, quali invece teso l'orecchio alle canzoni del popolo, quali anche coltivato insieme le canzoni e gli studii. Onde Franco Sacchetti, così schietto popolarmente e grazioso nelle ballate e ne' madrigali che rime sue furono poi attribuite al Poliziano; onde Leonardo Dati, che tenta dottamente in volgare una tragedia a uso Seneca, e in volgare sperimenta, dopo l'endecasillabo già scioltosi dalla rima per imitazione de' latini, il verso esametro e il saffico; onde Leonardo Giustinian, che parla in greco all'imperatore di Costantinopoli, recita in pubblico orazioni latine, e insegna ai liuti veneziani i più cari strambotti, le più dolci canzonette che fossero mai state ascoltate da belle innamorate e da allegri compagni. E, passando da liuto a liuto, da bocca a bocca, queste canzonette veneziane o giustiniane, come le dicevano, scesero giù per l'Italia; e Firenze, correggendole alla parlata toscana, cioè alla lingua nostra letteraria, le fe' sue. Quando il Giustinian morì, che fu nel 1446, la poesia del popolo aveva dunque trovati cultori insigni a raggentilirla; e a Luigi Pulci, nato nel '32, a Lorenzo de' Medici, nato nel '48, e al Poliziano, non mancavano dunque gl'incitamenti e gli esempii a perseverare e a compiere l'impresa leggiadra. D'altra parte, l'imitazione de' classici [165] aveva anche essa progredito; anzi, era giunta allo sforzo ed alla goffaggine; non tanto, a parer mio, in quei metri del Dati che oggi diciamo barbari, quanto nell'abuso dei vocaboli e dei costrutti latini e delle erudizioni mitologiche e storiche alla pedantesca.

Il poeta dell'Orfeo, che aveva cominciato dagli studii del latino e del greco, vedeva accanto a sè, nel palazzo Mediceo, Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo, scrivere laudi a uso del popolo, e Lorenzo piacersi a scrivere sacre rappresentazioni e laudi anche lui, e insieme canzoni a ballo e canti carnascialeschi; udiva Luigi Pulci, per desiderio di madonna Lucrezia, racconciare nel Morgante a stile fiorentinescamente snello e a racconto maliziosamente arguto le rozze storie d'un rimatore plebeo. Provatosi così bene al volgare nella favola mantovana, è da credere che allora, in quella brigata di cui ho detto soltanto i nomi più illustri, tra l'ammirare e il ridere e il dar suggerimenti, meglio si esercitasse nelle rime dei rispetti e delle ballatine, quasi a sollievo dalla versione dell'Iliade e dall'erudizione che accumulava portentosa. E perchè quel rimare gli era un sollievo, non fa meraviglia che si astenesse dagli argomenti e dai metri più alti e più laboriosi, la canzone e il sonetto: di canzoni, una sola ne ha, a imitazione del Petrarca; di sonetti, a quel che sembra, neppure uno; di sirventesi, che era metro popolare, ma troppo soleva andare per le lunghe, non più che uno, prenunziante la prima scena dell'Aminta, in servigio di Giuliano de' Medici, per conto del quale, da coetaneo e amico, scrisse altri versi d'amore. Le ottave dei rispetti, le strofette delle ballate, non chiedevano alla facilità e grazia dell'ingegno e della penna che pochi quarti d'ora, tra la lettura di due codici, la versione di due episodii, e, un po' più tardi, tra una lezione e l'altra a Piero, primogenito di Lorenzo, e a Giovanni.

[166]

I sospiri, i dispetti, i vanti, le disperazioni, le maledizioni degli innamorati, le immaginette rusticali e primaverili, gli scherzi e le mariolerie fiorentine, le novellette e le satire, ebber vita così negli accenti variamente affettuosi, gai, rabbiosi di quelle brevi poesie: un mazzo che sopra è di rose fragranti e sotto di spine pungenti. Il Poliziano era di sua natura epigrammatico, nel senso antico della voce; spesso, scrivendo agli amici, se la godeva di sbrigarsene con poche parole: - Ti lamenti che non ti rispondo: non ti lamentar più; t'ho bell'e risposto. - Gran dispiacere, gran piacere ho avuto, della tua malattia, della tua guarigione. - Siete in parecchi a chiedere che vi scriva: ecco fatto: lettera unica, perchè vi amo unicamente; ma le saranno più lettere, poi che a leggerla sarete in parecchi. - Figuratevi poi, con la scaltra lingua toscana, e al bisogno col gergo fiorentino, col verso, con le rime, in argomenti adatti, ammaestrando le donne ad acquistarsi e a mantenersi gli amanti, narrando le sue buone venture e sventure amorose, vituperando una vecchiaccia sfacciata, toccando insomma quasi tutte le corde dell'antica lirica popolare.

Donne mie, voi non sapete

ch'i' ho el mal ch'avea quel prete.

Fu un prete (questa è vera)

ch'avea morto el porcellino.

Ben sapete che una sera

gliel rubò un contadino

ch'era quivi suo vicino;

(altri dice suo compare):

poi s'andò a confessare,

e contò del porco al prete.

El messer se ne voleva

pure andare alla ragione:

ma pensò che non poteva,

chè l'aveva in confessione.

[167]

Dicea poi tra Le persone:

- Ohimè, ch'i' ho un male

ch'io nol posso dire avale. -

Et anch'io ho il mal del prete.

Tra queste malizie il sentimento della vita e della natura, caldo, giulivo, libero, sì da effondersi talvolta in rime che sembrano scheggiare i canti goliardici. Ma qui anche meno abbisognan gli esempii. Chi non sa i conforti ad amare che la fanciulla dà alle compagne?

Quando la rosa ogni sua foglia spande,

quando è più bella, quando è più gradita,

allora è buona a mettere in ghirlande,

prima che sua bellezza sia fuggita:

sicchè, fanciulle, mentre è più fiorita

cogliàn la bella rosa del giardino.

E chi non sa il canto pel rinnovamento della primavera che Firenze, la città della primavera, salutava con feste? Non eran più, nel quattrocento, le laute accoglienze di che narra il Villani, corti coperte di drappi e zendali, e desinari e cene; ma le schiere de' giovani correvano ancora la città agitando i ramoscelli in fiore, le frondi verdi, i gonfaloni selvaggi.

Ben venga maggio

e 'l gonfalon selvaggio!

Ben venga primavera

che vuol l'uom s'innamori.

E voi, donzelle, a schiera

con li vostri amadori,

che di rose e di fiori

vi fate belle il maggio,

venite alla frescura

delli verdi arbuscelli.

Ogni bella è sicura

fra tanti damigelli;

chè le fiere e gli uccelli

ardon d'amore il maggio.

[168]

Ma non c'indugi la dolcezza de' suoni. Nel gennaio del 75, Giuliano de' Medici trionfò in una di quelle giostre che porgevano a' signori l'occasione di ostentare lor valentia cavalcando e armeggiando; spettacolo pomposo e gradito al popolo. Il fratello maggiore, Lorenzo, si era meritato, sette anni innanzi, il premio in una giostra consimile, di cui avea celebrate le gesta e l'eroe, con un poemetto, Luigi Pulci, come si usava sì per le giostre, sì pel giuoco del calcio, sì per altri sollazzi, dai cantastorie; i quali compievano, dati i tempi, l'officio de' cronisti ne' nostri giornali, non so con quanto più di verità, certo con più fatica, perchè le fandonie le strimpellavano in rima. Anche questo genere era dunque ormai caro a' poeti d'arte: se non che il Pulci, come nel Morgante, così nella Giostra, lo aveva accettato, almeno per le apparenze, tal quale, dilettandosi nella parte finta del cantimpanca o d'un suo inspiratore; tanto che diceva dover chiudere il racconto

perchè il compar, mentre ch'io scrivo, aspetta

ed ha già in punto la sua violetta.

Sapete che il compare aspettava nientemeno che dal 69? ed egli smise di scrivere soltanto allora che si preparava la giostra del 75, in cui spettava a Giuliano il trionfare. Poco più sollecito ma più elegante poeta ebbe questi: poco più sollecito, perchè, se ci pensò prima, e se forse qualcosa ne abbozzò, il Poliziano non si pose a stendere il poema ordinatamente che dopo trascorso un anno dalla giostra. In compenso non cantò le armi soltanto; cantò, più che le armi, gli amori.

Giuliano, che nella tela del Botticelli spira, giovenilmente pensoso, una dolce mestizia, era innamorato, cavallerescamente e platonicamente, com'era la moda, di quella Simonetta Cattaneo, moglie a un Vespucci, che [169] Piero di Cosimo, o altri, dipinse esilmente gentile. Ma la Vespucci visse, dopo la giostra, pochi mesi più. Nell'aprile del 1476, scriveva di lei a Lorenzo un amico ponendola accanto alla Laura del Petrarca: “La benedetta anima della Simonetta se ne andò a paradiso, come so harete inteso: puossi ben dire che sia stato il secondo trionfo della Morte; chè veramente havendola voi vista così morta, come la era, non vi saria parsa manco bella e vezzosa che si fusse in vita: requiescat in pace.„ Lorenzo stesso la pianse in versi; e il Poliziano, già interprete de' sospiri amorosi, ebbe a far distici sulle esequie, co' pensieri che Giuliano gli suggerì. Allora il racconto della giostra dove Giuliano si era cavallerescamente adoperato per amore e onore di lei, si allargò nella mente del poeta e comprese in sè anche la storia di quell'amore. Il genere popolano delle narrazioni in ottava rima di giuochi e apparati, venuto nelle mani d'uno scrittore geniale come il Pulci, passava pertanto da quelle di lui a più squisito artefice, e da questo era volto alla imitazione de' carmi encomiastici antichi; non altrimenti che i racconti romanzeschi, proprio in quelli anni, salivano dalla piazza al palazzo per opera del Pulci medesimo, ed erano da Matteo Maria Boiardo, traduttore d'Erodoto, avviati sulla imitazione de' poemi classici. Ove per altro conviene aggiungere che il Boiardo fu grande poeta, e nel calore dell'invenzione fuse stupendamente l'antico e il moderno in un metallo nuovo; il Poliziano fu grande artista, e nell'agevolezza dell'esecuzione compose dell'antico e del moderno un mirabile mosaico: all'uno mancò l'eleganza della lingua e dello stile, all'altro la virtù delle alte concezioni: l'uno e l'altro erano necessarii a preparare Lodovico Ariosto, poeta ed artista grande.

Ho detto con ciò il difetto e il pregio delle Stanze per la giostra: il difetto è nel disegno generale, il pregio è nel disegno e nell'esecuzione dei particolari. Come fare [170] un poema degli amori cortesi e delle armi cortesi di Giuliano? Ecco il modo. Julio, figlio della etrusca Leda, cioè a dire Giuliano figlio della Tornabuoni, sdegnava d'amare: Cupido volle che amasse, e in una caccia gli fece apparire una cerva bellissima; la quale, trattolo via dalla brigata de' compagni, disparve: ma al giovine non ne importava più, perchè si vedeva innanzi una donna troppo più bella della cerva bellissima: la Simonetta. Inutile dire che se ne innamora, e Cupido torna tutto lieto alla madre Venere. Fin qui il primo libro. Nel secondo, i vanti di Cupido per la vittoria, buona occasione alle lodi della casa medicea: il racconto di un sogno che Venere manda a Julio, perchè si accenda a mostrare all'amata la sua bravura in una giostra, sebbene egli abbia da quel sogno stesso il prognostico della prossima morte di lei; e la preghiera di Julio a Pallade, a Venere, a Cupido, che lo aiutino nell'impresa della gloria e dell'amore. E qui il poema, come il monumento che Michelangelo scolpì a' due fratelli Medici, rimase interrotto. Perchè? Il 26 aprile 1478, una domenica mattina, nella chiesa di Santa Maria del Fiore frequente di popolo, subito che il sacerdote nel celebrare la messa si fu comunicato, Francesco de' Pazzi e Bernardo Bandini si strinsero addosso a Giuliano co' pugnali e l'uccisero: Lorenzo ebbe tempo a trarre lo stocco e, ferito nella gola, difendersi e riparare nella sagrestia. Il colpo era andato a vuoto; Firenze restava ai Medici. Ma Giuliano giaceva morto; e dopo quella tragedia non si potevano più fiorire di rime le sue venture per una giostra bandita a diletto. Il poeta si mutò in istorico, e narrò in latino, a mo' di Sallustio, la congiura de' Pazzi.

Altri osservò: se il poema rimase a mezzo, fu, anzi che un danno, un vantaggio alla fama dell'autore: andando innanzi, egli avrebbe dovuto descrivere vesti, cavalli, armeggiamenti; e già nel secondo libro la poesia [171] scade; in più libri, il tedio sarebbe cresciuto; quel panegirico sarebbe stato letto da' soli eruditi. Io non mi lascio consolare così facilmente. Ammettiamo pure che le Stanze avessero a crescere, pel compimento del secondo e per l'aggiunta d'un terzo libro, che è quanto di più si possa immaginare, di un'altra metà: il disegno generale non si sarebbe sottratto, certo, da giuste censure; ma non gli si muovono a ogni modo, giudicandone dal frammento? e gli episodii ci avrebbero date bellezze, se non maggiori, pari a quelle che nel frammento ammiriamo.

Non le rammenterò. Le lodi della vita rustica, la caccia, la Simonetta, il regno di Venere, gl'intagli della porta nella reggia di lei, l'albergo del Sonno, sono, a tratti almeno, in tutte le antologie, sono, a tratti almeno, in tutte le memorie. La giostra non è più che un pretesto: sembra che il Poliziano prometta di guidarvi a goderne lo spettacolo, soltanto per aver modo di farvi ammirare, così senza parere, d'una in un'altra galleria, la sua meravigliosa raccolta di quadri e di statue. Sono i tempi de' bronzi di Lorenzo Ghiberti, delle terre cotte di Luca della Robbia, dei marmi di Donatello, degli affreschi di Filippino Lippi, delle tele di Sandro Botticelli; e l'arte di tutti costoro si riflette nello specchio finissimo di quelle ottave, che suonano e creano, secondo il precetto, da molti franteso, del Foscolo, il quale più d'una somiglianza ebbe col Poliziano negl'intendimenti e ne' modi dell'arte: suonano, cioè, varie, fluide, eleganti; creano immagini adatte alla plastica e ai colori. Dopo Dante, nessuno aveva posta nel verso tanta efficacia di rappresentazione: nessuno ancora aveva saputo nell'ottava rima alternare, con tanta accortezza di pause e di accenti, di piani e di sdruccioli, il forte col tenue, il dolce con l'aspro. Il primato della lingua letteraria, come da Leon Battista Alberti, sebbene con [172] importanza minore d'assai, per la prosa, così dal Poliziano era riconfermato alla Toscana per la poesia: dopo le Stanze per la giostra, l'Orlando innamorato doveva di necessità essere offuscato dalla fama del prosecutore che chiese alle labbra di una fiorentina la grazia dei baci e le grazie del nostro volgare; e doveva per ciò di necessità piegarsi, per rivaleggiare col Furioso, al rifacimento toscano di Francesco Berni.

La notte che le cose ci nasconde

tornava ombrata di stellato ammanto:

e l'usignuol sotto le amate fronde

cantando ripetea l'antico pianto;

ma solo a' suoi lamenti eco risponde,

ch'ogn'altro augel quetato avea già il canto:

dalla cimmeria valle uscian le torme

de' sogni negri con diverse forme.

Lingua, stile, metro erano ormai perfetti, e compiuta l'assimiliazione dell'arte classica nella medievale, per opera di quel giovane da Montepulciano che tendendo nelle campagne l'orecchio alle canzoni del popolo “beccava per tutta la via di qualche rappresaglia e canzone di Calen di maggio„, e leggeva a diletto i nostri migliori, e poi, nel silenzio del suo studio, meditava i testi dei greci e dei latini.

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