IL SAVONAROLA e la PROFEZIA

DI

FELICE TOCCO.

Signore e Signori,

Dall'argomento della mia conferenza altri di me più degno avrebbe dovuto tenervi parola. Ma per sfortuna mia e vostra chi scrisse a giudizio unanime la migliore storia del Savonarola, è lontano da noi, e per il bene della cosa pubblica dobbiam tutti sperare che non faccia sollecito ritorno. Un altro scrittore avrebbe potuto degnamente tenerne il luogo, il nostro Gherardo che intorno al Savonarola seppe scoprire nuovi documenti e dottamente illustrarli. Ma poichè anche a lui non fu dato di accettare il difficile còmpito, eccomi di nuovo innanzi a voi, per riprendere a così dire il filo della conferenza, che ebbi l'onore di tenere: or sono due anni sull'eresia del Medio Evo. Giacchè io non intende parlarvi soltanto del Savonarola e dell'opera sua, ma ben piuttosto del modo come il frate ferrarese si ricolleghi coi profeti medievali, che lo precedettero. Escludo dal mio discorso le leggendarie o apocrife profezie del mago Merlino, della Sibilla Eritrea o del Carmelitano Cirillo, e di quei profeti [237] solo vi terrò parola, dei quali abbiamo sicure testimonianze. E per non risalire più in su fino a san Nilo o santa Ildegarde, comincerò da quell'abate Gioachino, a voi ben noto, che a giudizio di Dante sarebbe stato realmente di spirito profetico dotato. Parecchi in verità revocarono in dubbio codesto dono della profezia, e san Tommaso glielo negò addirittura. Ma i più erano dell'avviso di Dante, specie gli spirituali francescani, che consideravano le principali opere di Gioachino come cosa sacra; e già sapete che ripubblicandole e chiosandole non dubitarono di dirle Evangelo eterno. Le loro chiose furono condannate solennemente dalla Chiesa, le profezie stesse di Gioachino smentì l'anno fatale 1260; ma ad onta di ciò la fede dei Gioachimiti non venne meno, e parecchi altri seguitarono a profetare, come l'abate Calabrese. La differenza tra questi nuovi profeti e gli antichi del Vecchio Testamento sta in ciò, che questi si sentivano in contatto diretto con la Divinità e ne udivano le voci, e sotto dettato, a così dire, ne scrivevano le rivelazioni; invece quelli a tanto non arrivano, e non a torto la maggior parte di essi, da Gioachino al Savonarola medesimo, dichiarano spesso di non essere nè profeti nè figli di profeti. Per quanto a loro non facciano difetto nè i sogni nè i rapimenti dei profeti veri, per quanto possano vantare anch'essi quella forza divinatrice, che squarcia il velame del tenebroso futuro, pure indarno cercate in loro la vena larga e potente dell'ispirazione diretta; poichè non le proprie visioni essi interpretano, ma le altrui. Non sono profeti, bensì commentatori di profezie, e le più oscure come il libro di Daniele e l'Apocalisse preferiscono.

Si conserva ancora inedita nella nostra Laurenziana la postilla sull'Apocalissi di uno dei più famosi seguaci di Gioachino, minorità, ben s'intende, e capo degli spirituali di Provenza, fra Giovanni di Piero Olivi, nato [238] nel 1248, morto cinquantanni dopo. Negli ultimi tempi della sua vita, benchè avesse vedute tutte le speranze del suo partito dileguarsi, e l'eremita Celestino cedere la tiara a Bonifacio VIII, avido di potere e di gloria mondana, pure non ismise la sua fede, nè dubitò che l'ora della tremenda vendetta fosse per scoccare. In una lettera ai figli di Carlo II di Napoli, scrive: “Orsù, generosi soldati, preparatevi alla pugna. Il tempo della potatura è venuto, e si è udita sulla nostra terra la voce della tortora che sospira e che ha il gemito per canto. È d'uopo che nell'aprire il sesto suggello il sole e la luna s'oscurino, e che cadendo le stelle dal cielo, la terra ne tremi così, che tutte le montagne e le isole siano svelte dalle loro sedi.... Poichè a quel modo che sul secentesimo anno della vita di Noè si ruppero le fonti dell'abisso, e le cateratte del cielo si apersero a segno che nessuno potè salvarsi all'infuori dei ricoverati nell'arca fatta per comando di Dio; così fa d'uopo che l'empia Babilonia nel profondo del mare si sommerga.„ L'empia Babilonia è la Chiesa carnale, conculcatrice della povertà evangelica, e il ministro della vendetta divina sarà l'Anticristo.

La fede nel prossimo avvento dell'Anticristo è così radicata nei circoli dei beghini e degli spirituali, che Arnaldo di Villanova, celebre medico e studioso delle scienze occulte, non dubita di scrivere un trattato De adventu Antichristi, che gli fruttò le persecuzioni del vescovo parigino. Il trattato, ancora inedito, fu scritto nel 1297, come dice l'autore stesso, e non è se non un commento di alcuni luoghi delle Profezie di Daniele. Eccovene un saggio: “Compiuti i mille duecento anni dal tempo, in cui il popolo ebreo perdette il possesso della sua patria, entrerà nel luogo santo l'abbominio della desolazione, o l'Anticristo, il che sarà circa nel settantottesimo anno del secolo futuro. Non posso determinare con maggior precisione, ma certo intorno al 1378 si compirà [239] quello che il Profeta predisse.„ E più appresso contro i suoi contradditori aggiunge: “Senza dubbio questa conclusione non segue dalla parola di Daniele in modo certo e necessario; ma ha l'evidenza di una grande probabilità, in quanto che con questa interpretazione concordano altri luoghi della sacra scrittura.„ Era tanta la fede di Arnaldo nelle divinazioni sue, che uno scritto sul medesimo argomento ardì leggere al papa Clemente V; e non solo noi, ma i contemporanei stessi, a cominciare da Filippo il Bello, non sapevano più di che cosa meravigliarsi, se dell'audacia del lettore o della benignità soverchia di chi l'ascoltava. Ai medici di gran grido, che si crede abbiano in mano la vita nostra, sono permesse molte cose; e un papa meno docile e mansueto di Clemente V, lo stesso Bonifacio VIII, si mostrò indulgente col Villanova, e lo assolse dalle censure del vescovo di Parigi, purchè non s'impacciasse più oltre di teologia.

Non meno audaci sono le predizioni di frate Ubertino da Casale, l'eloquente difensore dell'Olivi, le cui dottrine segue, lievemente modificandole, in quel libro intitolato Arbor vitæ crucifixæ, che finì la vigilia di San Michele Arcangelo del 1305 nella solitudine dell'Alvernia, dove i suoi superiori l'aveano esiliato, perchè non predicasse più oltre nello stile degli esaltati spirituali. Nulla di nuovo egli dice sui sette stati o periodi in cui va divisa la storia della Chiesa o dell'Umanità, che secondo questi frati sono tutt'uno; poichè anch'egli, come l'Olivi, risale a Gioachino, e fa gli stessi calcoli e pone a confronto gli stessi passi scritturali per argomentare prossima la fine del sesto periodo. Quando esso abbia cominciato, o dalla rivelazione fatta dall'abate Gioachino, come dicono alcuni, o dalla conversione di san Francesco, come dicono altri, o infine dalla protesta che i frati spirituali levarono contro i trasgressori della regola francescana, non importa decidere; perchè tutte queste date possono essere vere [240] secondo che si consideri tutto il periodo ora da un aspetto, ora dall'altro. Quel che monta è constatare che si affretta alla sua fine. La qual cosa non può mettersi in dubbio; perchè scorsi 1293 anni dalla morte di Cristo, s'è veduta quell'orribile novità dell'abdicazione di papa Celestino e dell'usurpazione del suo successore. E come se questo segno non bastasse, ecco pullulare nuove eresie, come alla fine d'ogni periodo; e molti sostenere non essere la povertà evangelica il nocciolo della perfezione cristiana, e alcuni filosofi di Parigi andare più oltre, e proclamare con Aristotele che il mondo fu “ab eterno„ ed in eterno durerà. Le quali eresie mostrano chiaramente essere già nato il mistico Anticristo, vale a dire il precursore e il simbolo di quel vero Anticristo, che sorgerà più tardi alla fine del settimo stato. L'Anticristo mistico non è nè un imperatore nè un pontefice, ma bensì quel pseudo-cristiano che condannerà lo spirito di Cristo nella povertà evangelica. E di questi pseudo-cristiani al tempo di Ubertino non facea difetto.

Se non che la fine del mondo non ebbe luogo in tutto quel secolo, sul cui cominciare Ubertino scriveva, e nuove tribolazioni non mancarono. Rinacquero sotto Giovanni XXII le lotte coll'Impero, non chetate neanche sotto i successori Benedetto XII e Clemente VI, e la Chiesa, infeudata ai re di Francia, travagliarono mali e scandali siffatti, che Avignone fu detta non pure dagli spirituali francescani ma dal Petrarca medesimo: l'avara Babilonia, fontana di dolore, albergo d'ira, scuola d'errori, tempio d'eresia. Non è meraviglia che in questa età procellosa rifiorisse la Profezia. Anche i poeti, quindi, come il cantore di Laura, prendono il tono di veggenti, e minacciano e rampognano e predicono imminente lo scoppio dell'ira divina.

[241]

Fiamma del ciel su le tue trecce piova,

Malvagia, che dal fiume e dalle ghiande

Per l'altrui impoverir sei ricca e grande....

Nido di tradimenti, in cui si cova

Quanto mal per lo mondo oggi si spande....

Ma pur novo Soldan veggio per lei

Lo qual farà, non già quando io vorrei,

Sol una sede, e quella fia in Baldacco.

Gl'idoli suoi saranno in terra sparsi

E le torri superbe al ciel nemiche,

E suoi torrier di for, come dentro, arsi.

Ma dopo la tempesta verrà il sereno, e il Petrarca anche lui vede in nube quel Papa, da questi profeti concordemente chiamato angelico, che sbalzerà di seggio gl'indegni ministri:

Anime belle e di virtude amiche

Terranno il mondo; e poi vedrem lui farsi

Aureo tutto e pien dell'opre antiche.

Non diversamente canta frate Stoppa dei Bostichi, che non può essere vissuto dopo il papa Clemente VI, a cui rivolge le più fiere rampogne, chiamandolo specchio evidente, nel qual potrà mirare ogni superbo, e nell'impeto dell'ira esce in questa profezia:

Sarà la Chiesa de' pastor privata;

Fie beato qual potrà negare

Il chericato, e rifiutar l'entrata,

Fiane cagion la terra d'oltremare.

Invidia, gola al chericato guata

Superbia, simonia, lussuriare;

Poi fie la Chiesa ornata di pastori

Umili e santi, come fur gli autori.

Intorno allo stesso tempo sarà probabilmente sorta quell'altra profezia, attribuita a Jacopone da Todi, ma [242] che certamente non gli appartiene, dove par che si confidi più in un potente imperatore che in un papa angelico:

Da poi che seran structi li tiranni

Et li preti cacciati alli lor danni,

Verrà cului che di terra di lor mani

Serà alevato....

Costui serà segnor de tucto 'l mundo,

Facendo della terra el quadro e 'l tundo:

Sposo d'Italia, questo non abscundo,

Imperatore....

Costui farà far pace in ogne lato,

Descacciarà del mundo ogne peccato,

Non si trovarà chi sia superchiato

Dal suo vicino.

Costui convertirà alla fede Saracino

Et Tartaria con tucto quil camino;

Poi intrarà ad quil luoco divino

Sacrificato.

Poi tornarà Roma nel suo stato

De tuctu quanto el mundo repusato:

Li sancti preti di novello Stato

Predicaranno.

E tucti l'infidel convertiranno,

Tucti vestiti d'un aspero panno,

Et sensa proprio sempre viveranno

Im povertade.

In simili profezie credono anche gli uomini politici, specie quel Cola da Rienzi, che da oscuro popolano assunto ai primi poteri dello Stato, ebbro della sua insperata fortuna, prende pubblicamente il bagno nella vasca Costantiniana, perchè dalle macchie dell'ignobile origine appaia deterso il nuovo cavaliere dello Spirito Santo. Sembra che anche nei giorni del suo trionfo Cola abbia avuto sogni e visioni. Almeno egli stesso racconta che pochi giorni prima della cruenta sconfitta dei Colonnesi, gli [243] apparve in sogno Bonifacio VIII per incitarlo alla vendetta contro gli autori della sua cattura. Quando poi, dimessa la dignità tribunizia, si ritrasse nel silenzio di Monte Sant'Angelo presso i romiti della Majella, le sue fantasie apocalittiche ebber nuovo alimento. Ed uno di quei fraticelli, a nome Angelo, gli predisse dovere fra non molto risorgere tale, che morì fra le persecuzioni (forse fra Pietro di Giovanni Olivi?), e che alla sua voce nascerebbe grande confusione e terrore tra i maggiorenti della Curia, ed il Papa stesso correrebbe pericolo, finchè brillerebbe la nuova luce. Allora sarà fatta la riforma della Chiesa, e non pure tutti i Cristiani, ma i Saraceni con essi, formeranno un popolo solo, e a capo di tutti si porrà il Papa angelico. A queste profezie il tribuno prestava ascolto, tanto più che egli stesso doveva aver non piccola parte nella futura rinnovazione del mondo. E per infondere nell'imperatore e nell'arcivescovo di Praga la propria fede, si fa a sua volta commentatore ed interprete di profezie, e fra tante sceglie la più recente, che, nata senza dubbio sullo scorcio del secolo decimoterzo, fu attribuita ad un profeta Cirillo, contemporaneo di Gioachino, del quale non si sa nulla all'infuori della profezia medesima; e che non sarà meno apocrifo di essa. Comunque sia, Cola sa ben torcere l'oscuro oracolo al senso che più gli torna; e sotto il sole che entrerà nelle viscere dello scorpione e sarà lacerato dai figli dello scorpione medesimo, intende proprio lui, Cola, che andrà glorificato da Dio e posto al governo di Roma, e poscia dal Papa e dai cardinali sarà perseguitato, e nell'anno del giubileo chiuso nella squallida spelonca del carcere imperiale. Frate Angelo da Monticelli aveva ben insegnato la sua arte al credulo tribuno!

Un altro minorita, non meno credente di frate Angelo, ardiva divulgare le medesime profezie nella sede stessa della corte papale in Avignone. Avea nome fra Giovanni [244] di Roquetaillade, latinamente de Rupescissa; ed oltre che per le sue profezie è noto per lo studio che, al pari di Arnaldo da Villanova, faceva dell'alchimia. Le sue predizioni risalgono, come dice egli stesso, al 1356, l'anno avanti che cominciassero le secolari guerre tra Francia e Inghilterra. La sua voce fu inascoltata; anzi Clemente VI, lo stesso papa così avverso a Cola, lo chiuse in prigione, e ve lo rimise il successore Innocenzo VI, tenendovelo per tutta la vita. Una profezia, che costui compose nelle carceri ad istanza di un suo correligionario, comincia così: “Le rendite ecclesiastiche sappiate che fra breve andranno tutte perdute, poichè molti popoli della terra spoglieranno il Clero dei beni temporali, lasciandogli appena da vivere. La Curia romana fuggirà da questa città peccatrice di Avignone, e non sarà più dove è ora. Prima che si compiano sei anni da questo presente, che è il 1356, la superbia clericale sarà prostrata nel fango, e distrutta ogni malvagità. La città delle delizie sarà convertita in lutto, e il mondo si perderà per l'avarizia; ma dopo innumerevoli tribolazioni scenderà la misericordia alla gente desolata, perchè un angelo, vicario di Cristo, spargerà tutte le virtù evangeliche, e convertirà gli Ebrei e i Tartari e i Saraceni e i Turchi distruggerà.„ Come vedete questo profeta anche a costo di andare crudelmente smentito dai fatti predice le cose a termine fisso ed a breve distanza. E non muta stile in un altro libercolo intitolato Vade mecum in tribulatione, composto l'anno dopo, dove riassume tutte le predizioni sue sparse negli altri libri, che cita e magnifica come annunziatori di fatti da poi verificatisi, quale la cattura del re di Francia. Anche nel Vade mecum vuol essere preciso più di quel che convenga a un profeta. “Pria che il mondo arrivi all'anno 1370, egli dice, prima che corrano altri tredici, da questo che abbiamo ora compiuto, 1356, avrà principio la restaurazione del mondo, e sarà palese quello [245] che ora annunzio. Nel 1365 sorgerà l'Anticristo orientale, e gli Ebrei ingannati da codesto falso Messia infiniti danni recheranno al popolo cristiano. E nello stesso anno i veri seguaci del santo mendico di Assisi saranno di nuovo tribolati, come al tempo di Michele da Cesena; ma ben presto si rifaranno dei loro danni, e l'ordine loro si dilargherà per l'universo ed i loro conventi si moltiplicheranno come le stelle del cielo. Ma non vale la pena di riferire più oltre i sogni del povero prigioniero, che aspetta prossima la liberazione sua e dei suoi compagni. Dirò solo che anche egli adduce a prova delle sue profezie il versetto di Daniele, che soleva citare Arnaldo; ed anche lui, facendo cómputi sottili, arriva all'anno 1370 nello stesso modo che un secolo prima Gioachino di Fiore arrivava al 1260.

Al di sopra di questi, sarei per dire, computisti della Profezia, si eleva una donna di alto sentire e di nobilissimo sangue, santa Brigida di Svezia. Nata intorno all'anno 1302, a sedici anni sposò il diciottenne principe Wulf di Nerik, da cui ebbe otto figliuoli. Alla morte del marito, dato un addio agli splendori principeschi e diviso il patrimonio tra i suoi figli, vestì le ruvide lane del pellegrino e venne a Roma, dove scrisse le sue Revelationes. A differenza di tutti i vaticinatoli precedenti la santa svedese non s'indugia a commentare le altrui profezie; ma come i profeti antichi conversa direttamente con Dio, che le svela il segreto dell'avvenire. “Io non disdegno di parlare con te, le dice Gesù, e benchè la mia umanità sembri essere dentro di te e parlar teco, pure è più verisimile essere la tua anima e la tua coscienza con me e in me, poichè a me nulla è difficile nè in cielo nè in terra.„ Una volta in una chiesa di Roma la Vergine stessa le apparve, e in tuono di comando le disse: “Tu devi mandare da parte mia questa parola al legato del Papa.„ Al che la donna rispose: [246] “Egli non mi crederà e volgerà i miei detti in derisione.„ E di rimando la Vergine: “Benchè io conosca l'intimo animo di quel prelato, pure è d'uopo che tu gli faccia sapere che le fondamenta della Chiesa vacillano, e la vôlta è screpolata in più parti, e le colonne piegano e il pavimento si avvalla così, che i ciechi che v'entrano sono per cadere.„ Questo ardito linguaggio osava tenere la santa al cardinale Albornoz, legato di Clemente VI, che, per riacquistare il sacro patrimonio, riempiva l'Italia di sangue e di rovine. Di Urbano V, il successore di Clemente, la Vergine stessa le dice: “Io condussi Urbano papa da Avignone a Roma senza alcun pericolo suo. E che cosa fa egli? Mi volge le spalle e intende partirsi da me. Il maligno spirito lo guida colle sue frodi. Ma se accadrà che egli faccia ritorno alla terra dove fu eletto, sarà colpito nella guancia così che i suoi denti scricchioleranno, e il suo volto diverrà caliginoso e fosco, e tutte le membra del suo corpo tremeranno.„ La profezia si avverò nel modo più tragico; che il Pontefice, non appena tornato in Avignone, vi morì. Nè meno energiche sono le ammonizioni, che Maria manda per mezzo della santa a Gregorio XI. “Come la pia madre, ella dice, che stringe al petto il suo bambino nudo e tremante di freddo per riscaldarlo del suo calore e nutrirlo del suo latte, così io farò di Gregorio, se vorrà tornare a Roma con animo di rimanervi e di riformare la Chiesa tutta. E perchè in avvenire non adduca la scusa dell'ignoranza, io gli annunzio che, se non obbedirà alle ingiunzioni mie, proverà la verga della mia giustizia e l'indignazione del mio figliuolo.„ Tutte queste visioni, ed altre non meno terribili sulla regina Giovanna, ebbe la santa donna in Napoli, dove sostò per qualche tempo tornando dal faticoso pellegrinaggio di Palestina. A lei non era dato vedere il frutto delle sue coraggiose ammonizioni, poichè, tornata a Roma, vi morì grave d'anni il 23 luglio 1373.

[247]

L'opera da santa Brigida lasciata a mezzo, fu continuata da un'altra santa, che anch'ella ha estasi e visioni, anch'ella talvolta cade in tale anestesia, da poterlesi conficcare nella pelle un grosso ago, senza che si riscuota od avverta alcun dolore; ma forse più ancora della Svedese, ha un tatto finissimo per guidare gli uomini e riuscire nelle imprese più scabrose. Intendo parlare di Santa Caterina da Siena, che nata nel 1347 da un agiato popolano, e pur digiuna di lettere, seppe levarsi a tanta altezza di concetti, a tanta squisitezza di forma, che la sua prosa è anche oggi tenuta in grandissimo pregio. A quindici anni, vinte le opposizioni della madre, che la voleva sposa ad un ricco congiunto, entrò nelle Mantellate, terziarie domenicane, che non professavano voti solenni, e dopo tre anni passati nella sua cella tra preghiere e digiuni e torture d'ogni sorta, che ella infliggeva al delicato suo corpo, escì all'aperto ministra di pace e di carità. Nella peste del 1374 ella sola mostrò tale coraggio, tale abnegazione nell'assistere gl'infermi più gravi, da parere agli occhi di tutti un essere superiore. E ben si comprende come questo miracolo di sacrifizio, dovunque mostravasi, sapesse imporre la pace ai più riottosi, e comunicasse agli altri quell'ardente carità, che le bruciava il petto; talchè non pure a Siena, ma nella maggior parte delle terre toscane era chiamata come paciera, e la sua fama saliva tant'alto, che i più consumati uomini di Stato non disdegnavano d'entrare in relazione con lei; come, per citarne un solo, Bernabò Visconti. E a tutti teneva un linguaggio fermo e di gran buon senso. Al cardinale d'Ostia, legato pontificio, grida: “Pace, pace, pace, padre carissimo. Ragguardate voi e gli altri, e fate vedere al Santo Padre più la perdizione dell'anima che quella delle città; perocchè Dio richiede l'anime più che le città.„ Allo stesso papa Gregorio XI, non appena scoppiata la guerra con Firenze, [248] scrive, ribadendo il concetto della santa svedese: “Andate innanzi e compite con vera sollecitudine e santa quello che per santo proponimento avete cominciato, cioè dell'avvenimento del santo e dolce Passaggio (vale a dire il ritorno della Santa Sede in Roma). E non tardate più, perocchè per lo tardare sono avvenuti molti inconvenienti.... Pregovi che coloro che vi sono ribelli, voi gl'invitate ad una santa pace, sicchè tutta la guerra caggia sopra gl'infedeli.„ “Ma pare che la somma ed eterna Bontà permetta che gli stati e delizie sieno tolti alla sposa sua, quasi mostrasse che volesse che la Chiesa santa tornasse nel suo stato primo poverello, umile e mansueta come era in quello tempo, quando non attendevano altro che all'onore di Dio e alla salute delle anime, avendo cura delle cose spirituali e non temporali. Che poi che ha mirato più alle temporali che alle spirituali, le cose sono andate di male in peggio.„ Mandata dalla repubblica Fiorentina in Avignone per trattare la pace col Papa, Caterina vi si adoperò con tutte le sue forze; e se non riescì a comporre il dissidio, ottenne però quello che più le stava a cuore sovra ogni altra cosa, il ritorno della Santa Sede a Roma. Questo è il suo pensiero dominante, che il felice passaggio, come diceva lei, avrebbe posto riparo a tutti i mali della Chiesa. E la sua fede invitta seppe trasfonderla in Gregorio: “Andiamoci, Ella scriveva, andiamci tosto, babbo mio dolce, senza veruno timore; se Dio è con voi, veruno sarà contro di voi. Dio è quello che vi move, sicchè gli è con voi. Andate tosto alla sposa vostra, che vi aspetta tutta impallidita, perchè gli poniate il colore.„ “E io vi prego da parte di Cristo Crocifisso, che voi non siate fanciullo timoroso, ma virile. Aprite la bocca e inghiottite l'amaro, per lo dolce.... Spero.... che voi sarete uomo fermo e stabile e non vi moverete per verun vento nè illusione di dimonio, nè per consiglio di dimonio incarnato.„ E fermo fu Gregorio. [249] Non valsero le preghiere calde e insistenti di suo padre e delle sue sorelle, non valsero le opposizioni dei cardinali e le rimostranze del re di Francia. Su tutti e contro tutti vinse la fanciulla di Siena; e lo stesso giorno che ella lasciò Avignone, anche il Papa ne partì per non ritornarvi più mai. Singolare tempra di donna, a nessun'altra pari, fuorchè in parte ad un'altra vergine, nata non meno umile della Benincasa, Giovanna d'Arco. Anche questa fanciulla, pochi anni dopo Caterina, apparisce nel mondo come dotata di una potenza misteriosa. E al re di Francia e all'esercito suo disfatto ed avvilito, ella, la povera fanciulla d'Orléans, sa ridare il coraggio e la confidenza in sè e li conduce alla vittoria. Diverso fu il destino delle due profetesse: l'una levata sugli altari, l'altra dannata al rogo: ma entrambe operarono prodigi, perchè prodigi erano elle stesse di fede, di amore, di sacrifizio.

Il ritorno del Papa a Roma, secondo la veggente Sienese, doveva essere il principio di quella riforma della Chiesa, a cui ella come tutti i profeti aspiravano, e che avrebbe dovuto portar seco la pacificazione degli animi in Italia e l'unione di tutte le forze cristiane contro l'irrompere dei Maomettani. Il Signore stesso in una fatidica visione le commette di dire al Papa: “che levi la croce santissima sopra gl'infedeli, e levila sopra dei sudditi suoi.... in perseguitare e' vizii e difetti loro. Divelto il vizio è piantata la virtù, ponendo questa croce in mano di buoni pastori e rettori nella santa Chiesa„. E in un'altra, ancor più notevole, le svela il segreto delle tribolazioni della Chiesa, che egli permette per divellere le spine della sua sposa che è “tutta imprunata„. “Sai tu come io fo? Io fo come feci, quando io ero nel mondo, che feci la disciplina di funi e cacciai coloro che vendevano e compravano nel tempio, non volendo che della casa di Dio si facesse spelonca di ladroni. Così ti dico [250] che io fo ora. Perocchè io ho fatta una disciplina delle creature, e con essa caccio i mercanti immondi e avari ed enfiati per superbia vendendo e comprando i beni dello Spirito Santo.„ Sfortunatamente queste profezie non si avverarono, poichè la Chiesa, non che riformarsi e rinvigorirsi, ebbe a subire nuovi travagli dal lungo scisma, che tenne dietro alla morte di Gregorio. E indarno la vergine Sienese s'adoperò a soffocarlo sul nascere, scrivendo lettere di fuoco a principi e cardinali. Ormai la battaglia era impegnata, ed ella, accorsa al fianco di Urbano VI, si preparava a sostenerla virilmente, quando la morte sopraggiuntale nell'aprile del 1380 le risparmiò nuovi e più cocenti dolori.

Un altro profeta, certo molto da meno della santa di Siena, non si faceva invece alcuna illusione. Era costui il frate terziario francescano, Tommasuccio da Foligno, che nato nel 1319 dicono morto nel 1377; ma certo avrà vissuto ben oltre quell'anno, perchè dell'elezione di Urbano VI è testimone, e di tutte le sciagurate conseguenze dello scisma tra Urbano e Clemente che tristamente descrive, se pure le strofe, ove di ciò si tratta, non s'abbiano a dire interpolate nel suo rozzo componimento, che fu oltremodo popolare:

Urbanu et Chiomento

Faran nova quistione

Et l'uno in Vengnone

Forte terà sua sysma.

In fede et in bactisma

Crescierà suo podere,

Mectendo grande herrore

Nella cristiana gente.

In Italia primamente

Ne seguirà strazio,

Che ne sarà ben sazio

El sangue de oltramontani.

[251]

. . . . . . . . . . . .

Serà fra li dui munti

In Roma grande divisa,

Ogni cosa provisa

El caso mino offende.

Però ongne omo che intende

Ol mio parlar diverso,

Che no sarà somerso

El bel castello Ursinu;

Poi ad priesso ad Marinu

La jente oltremontana

Fra monti valli e piani

Fugerà e sarà presa.

Qui sono accenni e fatti determinati, come la presa del castello Orsino e la battaglia di Marino, accaduti nel 1379. E nessun profeta nè antico nè nuovo entra in particolari, se non è contemporaneo dei fatti che annunzia. Comunque sia, fra Tommasuccio crede anch'egli nel papa angelico:

Verrà poi nello strimo

Dalla benigna stella

Uno che renovella

El mundo in altra forma.

Darà la bella norma

Ad nostra vita activa,

Et farà la terra priva

De vitii fallace.

Per lu universo pace

Serà da cielo in terra

Et follia e guerra

Serà nello inferno remessa.

Ahimè! Pur troppo la triste realtà era ben lontana da questo roseo sogno; poichè le condizioni della Chiesa peggioravano ognor più, e se Urbano poteva vantare [252] della sua parte e santa Caterina e Giovanni dalle Celle, neanche a Clemente VII faceano difetto uomini d'insigne pietà, come a dirne uno, san Vincenzo Ferrero, teologo e profeta egli pure. Ormai non si sapeva più da qual parte stesse il diritto, e peggio ancora a quale fra i combattenti sarebbe per arridere la vittoria: talchè i profeti stessi, parteggiando chi per l'uno chi per l'altro, in questo solo s'accordavano: nel credere prossima la fine del mondo. E vi credè il suddetto Giovanni dalle Celle, che, pur avendo combattuto per tutta la sua vita contro i Fraticelli, non teme ora d'imitarne il linguaggio, e di risalire anche lui allo stesso abate Gioachino, dai Fraticelli tenuto per suprema autorità. “L'abate Gioachino, egli scrive, fu nel 1138 e fece un libro il quale si chiama el Papa, dove egli infino all'avvenimento di Anticristo dipinse tutti i papi.... Ma questo papa Gregorio (XI) pone che è l'ultimo papa e pone che fugge in forma di fraticello. E dopo di questo papa dipinse una terribile bestia, che colla coda avvinghia molte stelle, e dalla punta della coda esce una spada. Gli uccelli del Cielo sono i religiosi e questa bestia è l'Anticristo....„ Il libro che il Vallombrosano crede composto intorno al 1138, quando probabilmente Gioachino era ancor fanciullo, non è se non quello che racchiude gli apocrifi vaticini intorno ai Pontefici, vaticini dei quali, come delle profezie di Merlino, di Cirillo e delle varie Sibille, si fecero tratto tratto nuove edizioni con aggiunte ed interpolazioni per adattarle ai nuovi fatti. Su questi libri, sfacciatamente bugiardi, e sopra un creduto vaticinio tradotto, dicevasi, dall'ebraico in latino per opera di un Dandolo Ilerdense, e intitolato Oroscopo, fonda altresì le sue congetture l'eremita calabrese Telesforo o Teoforo o Teleoforo da Cosenza. Per parte mia credo che questo profeta faccia il paio col supposto Cirillo; e parmi non poco probabile che sotto [253] il pseudonimo di un conterraneo di Gioachino si nasconda qualcuno, che non vivea molto lontano dalla Curia avignonese e ne divideva le speranze. Comunque sia, racconta il nostro eremita che vivendo nelle solitudini di Tebe presso Cosenza, dopo avere sparse molte lagrime e durati parecchi digiuni per divenir degno di conoscere il principio e il termine dello scisma; finalmente addormentatosi in sull'aurora della Pasqua del 1386, gli apparve un angelo dal volto verginale, dall'ali lucenti e dell'altezza di due cubiti, che lo invitò a raccogliere i libri di Gioachino e di Cirillo, se voleva conoscere il segreto che tanto l'affannava. Destatosi l'eremita si mise a cercare insieme con un suo compagno, Eusebio Vercellese, le opere dei due profeti, e non solo quelle trovò in gran copia, ma tutte le altre che vi ho testè citate. Come si vede, il Cosentino, benchè gli appaiano gli angeli dalle bianche vesti, non è neanche lui un profeta, ma piuttosto uno studioso delle altrui profezie. E resta altresì molto indietro ai predecessori suoi; poichè non nelle sacre carte cerca di leggere l'avvenire, ma nelle profezie più recenti, e non nelle autentiche, ma nelle spurie, come a dire i falsi vaticini sui Pontefici, che egli conosce sotto il nome di Fiore, e il falso commento alla pretesa profezia di Cirillo. La sua ingenuità arriva anzi a tal segno, da credere in buona fede che Gioachino, morto nel 1202, abbia potuto commentare la profezia Cirilliana, la quale, secondo Telesforo, sarebbe apparsa nel 1264. Ma i profeti, che vedono tanto bene nel futuro, non hanno l'obbligo di conoscere per filo e per segno il passato. Alla luce di queste pseudo-profezie al nostro eremita si rischiarano tutti i dubbi; ed ora legge nell'avvenire come in un libro aperto. “Il presente scisma, ei scrive, è nato dai vizi e dalle colpe della Chiesa, che dei beni terreni apparve più sollecita che degli spirituali; e non avrà fine se non al tempo dell'angelico [254] pastore, che seguirà immediatamente alle presenti tribolazioni, e rinunzierà spontaneamente a tutti i suoi possessi.„ Dicevano in Avignone che la ragione del ritorno della Santa Sede in Italia dovevasi ricercar nel desiderio di riconquistare quel dominio temporale, che i principi e le città collegate con a capo Firenze stavano per togliere alla Chiesa. Ed aggiungevano che sarebbe stato molto meglio subire tale spogliagione, che mettersi allo sbaraglio di uno scisma. Anzi l'antipapa Clemente di una gran parte del patrimonio di San Pietro avea costituito un ducato in favore dell'Angioino, per riceverne aiuto e difesa nelle presenti strettezze. Telesforo, andando più oltre, aggiunge che il successore di Clemente, o il Papa Angelico, non ad una parte sola dei possessi suoi rinunzierebbe, ma bensì a tutti. Se non che prima che spunti questo avventuroso giorno nuove calamità sovrasteranno ai fedeli, e dalla Germania sorgerà, secondo un'antica leggenda tedesca, un terzo Federico, della semente del secondo, il quale, non meno infesto alla Chiesa, pugnerà contro la Francia, come un tempo Manfredi contro Carlo d'Angiò, e più fortunato di lui riuscirà a menare prigione il re francese. Ma non tarderà molto, che le sorti della guerra muteranno e l'imperatore tedesco sarà sconfitto e l'impero stesso passerà nelle mani di re Carlo di Francia, il quale, stretto in intimo accordo col Papa Angelico, dominerà tutto il mondo cristiano, sconfiggerà i Saraceni, convertirà i Tartari, e la Chiesa greca unirà con la latina. Nel qual tempo si verificherà l'antica profezia di un solo ovile e di un solo pastore, e per lunga pezza la pace sorriderà agli uomini. Nè qui si arresta l'incauto profeta, ma discorre ancora dei successori del Papa Angelico, che saranno in numero di tre, dopo i quali il Diavolo sarà sciolto di nuovo, e verrà l'ultimo Anticristo, che con doni ed incanti sedurrà il popolo dei credenti; dopo di [255] che seguiranno la finale catastrofe e il giudizio universale. Di tutti questi avvenimenti, dei quali neppur uno si è verificato, è così certo il nostro eremita da snocciolarvene le date con precisione matematica. Lo scisma avrebbe fine nel 1417, e nel 1432 sarebbe legato Satana, e tra altri 420 anni dal 1386, vale a dire nel 1806, sarebbe accaduto il giudizio universale. Siamo, come si vede, in piena decadenza della profezia. Telesforo è un commentatore di commentatori; e non si contenta se non quando ha colmate tutte le lacune, assegnate tutte le date. La sua profezia è un libro di partito, scritto per rincorare i suoi, ed accertarli che, non ostante i rovesci e le sconfitte, la vittoria finale non sarà per mancare. Non gl'importa che di lì a poco tempo il fatto possa smentirlo. Quel che preme ora, è non perdersi d'animo; e nulla giova tanto ad assicurare la vittoria, come la piena fiducia di doverla conseguire.

Il libro di Telesforo ebbe un grande ed immeritato successo; e sei anni dopo che fu pubblicato, vale a dire nel 1392, Enrico di Langstein ne scrisse una confutazione stringente. Ed Enrico era uno dei più dotti teologi del tempo e vice-cancelliere dell'Università di Parigi, e nello scisma ebbe una parte importantissima; perchè sostenne validamente non potersi comporre il conflitto, se non a patto che entrambi i papi deponessero il loro potere e lasciassero ad un Concilio la cura della nuova scelta del pontefice e della sospirata riforma della Chiesa; idee che, svolte poi dal Gerson, trionfarono nel Concilio di Costanza. Orbene quest'uomo, così dotto e così pratico, non ebbe disdegno di combattere le profezie del preteso Telesforo. E la ragione sta in questo, che tutti in quel tempo erano inclinati ad accogliere le voci profetiche. Lo stesso Enrico, se non presta fede a tutte le puerilità dell'Eremita, se gli rimprovera di attingere a sorgenti impure e non approvate dalla Chiesa, crede [256] però anch'esso nella prossima venuta dell'Anticristo; e di Arnaldo di Villanova fa tanto conto che lo mette a pari di santa Ildegarde, la Sibilla tedesca come ei la chiama, e rimprovera Telesforo di non averne conosciute le opere.

Parimente nella prossima venuta dell'Anticristo crede un altro teologo, Niccolò Oresme, precettore del re Carlo V di Francia. Mandato dal re francese alla Curia pontificia in Avignone, vi tenne un ardito discorso predicente lo scisma, e liberatosi poscia dall'accusa di eresia con tale vantaggio da meritare il vescovato di Lisieux, seguitò a meditare sui destini dell'umanità, e pur combattendo le dottrine gioachimite intorno alle tre età e all'Evangelo eterno, si fece a dimostrare in un libro De Antichristo, scritto, a quel che sembra, allo scoppiare dello scisma, che fra non molto si verificherebbero le terribili profezie dell'Apocalisse, stando almeno a parecchi indizi, tra i quali è da contare il pressochè compiuto annichilamento dell'Impero, la tepidezza della carità, la dissolutezza e la simonia dell'alto clero, il pullulare di nuove eresie, e più che tutto l'apparizione di quei falsi profeti che sono i Gioachimiti. Ed enumerati ad uno ad uno questi segni precursori, il dotto prelato si fa a descrivere il futuro Anticristo, che nascerà in Giudea e coll'apparenza della santità e con larghi donativi si guadagnerà molti cristiani, allontanandoli dalla vera fede, e fattosi eleggere loro re, perseguiterà a morte gli ortodossi, e con alterna vicenda di sconfitte e vittorie travaglierà tutto il mondo, finchè Cristo stesso non scenderà in terra per levarlo di seggio e cacciarlo in inferno con tutti i suoi seguaci.

Non meno convinto della vicina catastrofe era quel Domenicano spagnuolo ricordato più sopra, Vincenzo Ferrer, che nelle sue predicazioni e in una lettera indirizzata al papa avignonese Benedetto XIII il 27 luglio [257] 1412 affermava dover coincidere la venuta dell'Anticristo con la fine del mondo, ed essere imminenti e l'una e l'altra; poichè già da cento anni ai beati Domenico e Francesco era stato rivelato che tre spade percuoterebbero la terra, vale a dire la persecuzione dell'Anticristo, la conflagrazione, e il giudizio universale. Inoltre nell'Apocalisse è detto che Satana, dopo mille anni dacchè fu legato, sarà sciolto di nuovo e sguinzagliato contro i fedeli. E Satana fu legato non alla venuta di Cristo, come dicono alcuni, ma ben piuttosto al tempo del beato Silvestro, quando l'Impero romano si convertì alla nuova fede e il paganesimo fu vinto. Da quel tempo i mille anni sono già trascorsi, e l'estrema ruina si appresta cito et bene cito ac valde breviter; e gli stessi ordini religiosi, il Domenicano e il Francescano, istituiti per ritardarla, sono pressochè distrutti, poichè è venuta meno la rigida osservanza delle loro regole. Le opinioni apocalittiche erano state fino allora proprie del sodalizio francescano, e della parte più esaltata degli spirituali; ora penetrano nell'ordine domenicano; e dopo Vincenzo Ferrer un altro predicatore, Manfredo di Vercelli, le va spargendo per l'Italia settentrionale, traendo seco le turbe atterrite.

Ma questi tetri pronostici fallirono alla lor volta del tutto; anzi composto a Costanza il grande scisma, e vinto senza fatica l'altro che vi tenne dietro a Basilea, il papato parve sorgere a nuova vita e riprendere il prestigio goduto ai giorni d'Innocenzo III e di Gregorio IX. Senonchè l'attento osservatore sotto l'apparenza ingannatrice non tardava a scoprire i segni di nuovi mali. La Curia non era più, come in Avignone, alla mercè del re di Francia; ma la corruzione, tanto rimproverata alla Corte avignonese, non era scomparsa sotto altro cielo. E per un certo rispetto pareva si andasse di male in peggio; poichè ora con cinico sorriso [258] si mettevano a nudo le proprie brutture, e le facezie di Poggio Bracciolini trovavan lieta accoglienza nelle stesse sale del Vaticano. Aggiungi che al cessare degli scismi lo spirito cristiano non che informare uomini ed istituzioni, pareva invece soffocato dal rifiorire della cultura pagana e dalla ognor crescente miscredenza, e la stessa Curia pontificia aveva a segretari uomini, che eglino per i primi non prestavano fede ai brevi ed alle bolle da loro distesi come saggio di elegante latineggiare. Infine un'altra piaga si riapriva nel seno della Chiesa, e più maligna delle precedenti, il nepotismo, che da Paolo II a Sisto IV divenne sempre più minaccioso, e con Alessandro VI non conobbe più modo nè misura.

In queste condizioni, quando le sorti della Chiesa parevano disperate, e lo stesso Vicario di Cristo era accusato a torto o a ragione delle tresche più scandalose, tonò potente la voce di Gerolamo Savonarola. In lui la profezia dal basso loco, in che era caduta, assurge novamente a sublimi fastigi. Al pari dei suoi predecessori egli lavora d'interpretazioni e di commenti sui libri profetici del Nuovo e del Vecchio Testamento; l'Apocalisse, i Profeti e il libro dei Salmi sono i suoi testi prediletti. Se non che non parla più, come i predecessori suoi, della prossima venuta dell'Anticristo e della fine del mondo, ma solo dell'imminente rinnovazione della Chiesa. E i suoi vaticini trae, come l'Oresme, da diversi indizi, che ha cura di enumerare ad uno ad uno nella famosa predica del 14 gennaio 1494. “Hora, egli dice, cominciamo dalle ragioni che io t'ho alleghate da parecchi anni in qua, che dimostrano et pruovano la renovatione della Chiesa. Alchune ragioni sono probabili, che gli si può contradire, alchune sono demonstrative, che non se gli può contradire, perchè son fondate nella scriptura sancta. La prima è propter pollutionem prelatorum. Quando tu vedi un capo buono, dì che il corpo [259] sta bene. Quando el capo è captivo guai a quel corpo. Però quando Dio permecte che nel capo del reggimento sia ambitione, luxuria et altri vitii, credi che il flagello di Dio è presso.... La terza per exclusionem istorum. Quando tu vedi che alchuno Signore o capo di reggimento non vuole e buoni et onesti appresso, ma gli cacciano, perchè non vogliono che gli sia dicta la verità, dì che il flagello di Dio è presso.... La sexta propter multitudinem peccatorum. Per la superbia di David fu mandata la peste. Guarda se Roma è piena di superbia, luxuria et avaritia et simonia. Guarda se in lei multiplicano sempre li captivi et però dì che il flagello è presso.... Tu dirai: O egli c'è tanti religiosi e tanti prelati più che ne fussi mai. Chosì ce ne fussi mancho. O cherica, per te orta est hæc tempestas! Tu se' cagione di tucto questo male et oggidì ad ogni uno gli pare essere beato chi ha el prete in casa; et io ti dico che verrà tempo che si dirà: Beata quella casa che non ha cherica rasa. La decima è propter universalem opinionem. Vedi ognuno che pare che predichi et aspecti el flagello et le tribolatione.... Lo abbate Joachino et molti altri predicano et annunziano che in questo tempo ha advenire questo flagello.„

Il Savonarola adunque non diversamente dai suoi predecessori è un profeta più di riflessione che d'ispirazione, e nelle previsioni sue l'ermeneutica biblica e le dottrine teologiche hanno la parte preponderante, come in quelle dell'abate Gioachino, che egli stesso cita. Ma ciò non pertanto a scoprire nelle sacre carte il senso, che agli altri sfuggiva, occorrevagli una singolare attitudine o un'illuminazione dall'alto. E questo dono singolaro nessuno più del Savonarola è convinto di averlo. “Chi dubiterà - egli scrive - che il giglio sia bianco se non il cieco?... Le cose avvenire appariscono tanto chiare nel lume della prophetia, che colui il quale ha [260] tal lume non può avere dubitatione alcuna„. “Et dicoti che si verificherà ancora il resto che non fallirà una iota et io ne so certo più che non sei tu che due e due fanno quattro, et più che io non so certo che io toccho questo legno di pergolo, perchè quello lume è più certo che non è senso del tacto. Credimi, Firenze; tu dovresti pur credermi, perchè di quel che t'ho decto non ne hai veduto fallire una iota fino a qui, et anco per l'avenire non ne vedrai manchare niente„. A lui non sembra come a santa Brigida e a santa Caterina di avere diretti colloqui con Cristo o con la Vergine, nè la sua fantasia sa levarsi alle grandiose rappresentazioni di Ezechiello e dell'autore dell'Apocalisse. Anzi talvolta l'arte gli fa tanto difetto, che cade nel trito e nel minuto, come in una descrizione del Paradiso inserita nel compendio delle Rivelazioni. Ma senza dubbio lampi di vero genio guizzano talvolta nelle sue prose e nelle sue poesie. E talune delle visioni sue colpirono talmente i contemporanei, che furono riprodotte in molte incisioni, come quella apparsagli nell'anno MCCCCLXXXXII, “la nocte precedente all'ultima predicatione che fue in Sancta Reparata, quando vide una mano in cielo con una spada sopra la quale era scripto: La spada del Signore colpirà tosto e veloce. E da poi questo la mano rivolse la spada verso la terra et subito parve che si rannugholassi tutto l'aere et che piovessi spade et gragnuola con grandi tuoni et saette e fuochi et fu in terra facto guerra pestilenza et carestia„. Non c'è nulla di strano che queste visioni ei l'abbia avute realmente. La sua fantasia, piena di ricordi biblici, non posava mai, il suo corpo estenuavano i digiuni e le fatiche della predicazione, il suo animo combattevano speranze e timori senza fine. Non erano fredde lucubrazioni le sue, ma sensazioni potenti che sentiva nel più profondo dell'essere suo prima di comunicarle agli altri.

[261]

Se non che il Savonarola non era soltanto un mistico ed un veggente, ma possedeva altresì uno squisito senso della realtà; e gran parte delle previsioni sue, come quelle intorno alla discesa di Carlo VIII ed all'espulsione dei Medici, si dovevano, più che alla sua natura profetica, alla conoscenza profonda, che egli aveva degli uomini e delle cose. Certo nessuno meglio di lui seppe consigliare ai Fiorentini, tornati liberi, la forma di governo più opportuna. E nessuno vide meglio di lui che la repubblica non sarebbe durata se non ad un patto, che si fossero rappaciati gii animi e scordate le antiche offese. Nella sua grande anima il Savonarola riunisce le doti e le tendenze più disparate. E se nei suoi vasti disegni pensava alla Chiesa tutta, che avrebbe dovuto tornare alla severità degli antichi costumi, non trascurava le sorti degli Stati, non meno bisognosi di riforme della Chiesa stessa, a cominciare da Firenze, la patria di adozione, che esercitava su di lui, come su tutti noi, il suo fascino irresistibile. Ed a Firenze avea consacrata non piccola parte dell'opera sua fin da quando, chiamato al letto del morente Lorenzo, non volle, a quel che raccontano, udirne la confessione se prima non avesse promesso di ridare la libertà alla sua patria. Le due riforme andavano, secondo lui, strettamente congiunte, perchè si potesse ritornare a quel tempo glorioso, quando i più rigidi e intemerati papi stavano al governo della Chiesa, e la Chiesa stessa era l'anima dei liberi comuni. Senonchè quella età era ben lontana, e la storia, per sforzi che si facciano, non torna indietro. Le due riforme, che il frate di San Marco congiungeva nel suo pensiero, si recavano vicendevole impaccio, come i fatti dimostrarono ben presto. Secondo l'austero riformatore Firenze, conquistata la libertà e il governo di sè, dovea ora rinnovare la sua coscienza, e da pagana che era, in gran parte, rifarla cristiana. Nè aveva a tollerare più a [262] lungo quei canti e quelle feste carnescialesche, onde fu celebre il governo di Lorenzo, e lo Stato, prendendo il luogo della Chiesa, dovea punire come infrazioni delle leggi sue quelli che la Chiesa condannava come peccati. Cristo dovea assere il re di Firenze, e in suo nome aveasi a riformar la città. Le quali idee del frate tornavano ostiche, non solo ai partigiani dei Medici, ma ben anche ad una parte degli aderenti all'ordine nuovo, che mal pativa la città si governasse dal pergamo, con metodi e con idee fratesche. E quando il Savonarola concepì l'infelice disegno di fare accendere in piazza della Signoria un gran fuoco per bruciarvi quanti oggetti di lusso o di vanità fosse dato raccogliere, le loro rampogne non conobbero misura, e l'odio contro il frate crebbe a tal segno, che la parte dei repubblicani, a lui ostili, fu detta degli Arrabbiati. Dall'altro lato se la religione, secondo la mente del Savonarola, dovea informare lo Stato fiorentino così da dargli sembianza di teocrazia, lo Stato alla sua volta aveva da esercitare un'azione non meno potente sulla religione; poichè da Firenze, che è, come egli dice, l'ombelico d'Italia, doveva sprigionarsi la scintilla del grande incendio della Riforma. Ed anche da questo lato non potevano tardare i disinganni; perchè la parte politica del Savonarola avea da sostenere l'urto non pure dei nemici interni, ma di un avversario ancor più potente, qual era il Papa, che impersonava la gerarchia. Nè ci voleva molto a prevedere che nell'impari lotta contro la doppia potestà temporale e spirituale, ne andrebbe fiaccata. E il Savonarola stesso lo sa, e con mirabile divinazione predice che la prima vittima sarà lui; ma un fato lo trascina ed egli non sa resistere.

Non è dubbio, dicemmo, che la propaganda del mistico profeta dovesse recare non poco danno all'opera politica da lui intrapresa, e non è dubbio altresì che danno non [263] minore dovesse recare l'inframmettenza politica al disegno di riforma religiosa. In che stesse codesta riforma è manifesto. Il Savonarola, al pari dei profeti che lo precedettero, non intende di toccare nessun punto del domma, e quelli che, a cominciare da Lutero stesso, ne vogliono fare un precursore della Protesta, s'ingannano di gran lunga. Ei voleva solo che la Chiesa si lavasse dalle brutture presenti, che sulla cattedra di San Pietro sedesse un papa santo, non diverso dal Papa Angelico vagheggiato dalle età precedenti, e che la corruzione provenuta dall'avidità di ricchezze e di potere cedesse il campo alla povertà e alla semplicità primitiva. La prima riforma che il Savonarola intraprese in piccolo, quando ottenne che il convento di San Marco, sottraendosi alla giurisdizione del provinciale lombardo, si ponesse a capo della nuova provincia toscana, fu appunto questa d'introdurre nell'interno del chiostro domenicano la stretta regola della povertà evangelica, presso a poco come la intendevano i Francescani spirituali. Ma la conseguenza logica di questo indirizzo più severo sarebbe stata appunto di vietare che gli uomini di Chiesa si mescolassero nelle cose dello Stato. Il che mal s'accordava col fatto che un frate fosse a capo di una parte politica, qual era quella dei Piagnoni. Evidente contraddizione questa che ebbero ben cura gli avversari di mettere in piena luce. Invano il Savonarola adduceva l'esempio del cardinale Latino, di santa Caterina da Siena e di sant'Antonino arcivescovo di Firenze. Indarno protestava non essersi delle faccende dello Stato in particolare mai impacciato, e solo le norme generali del governo aver suggerito per la salute temporale e spirituale dei Fiorentini. Le sottili distinzioni non gli giovavano. E per vincere l'ardua prova di condurre a buon fine le due riforme, che mal s'accordavano insieme, sarebbe occorsa a Firenze maggiore forza e più robusta fede di quella che avesse in realtà. [264] Per fermo era un sogno, che questa piccola repubblica, stretta intorno da tanti e così diversi nemici, potesse alla lunga resistere alle minacce di Roma. Oltre a che il Savonarola avea da combattere contro un pontefice, che, se dava ogni giorno nuova materia a scandali e maldicenze, vinceva tutti in scaltrezza, e che anche questa volta non si smentì. Non appena Alessandro sente che un frate fiorentino osa dal pergamo sparlare di lui e del suo governo e predicare l'imminenza della Riforma, lo chiama a Roma con lettera affettuosa e allettatrice. Scusatosi il Savonarola di non potersi muovere e per lo stato di sua salute e per le condizioni della città, gli vieta di predicare più oltre. Fallitogli per insistenza della Signoria fiorentina anche questo provvedimento, delibera di distruggere l'autonomia, da lui stesso concessa, del convento di San Marco, e di assorbire la nuova provincia toscana in una più larga, che prende il nome di tosco-romana, il che voleva dire mettere San Marco e il guardiano suo nelle mani di una creatura del Papa. Nè il Savonarola nè i suoi dipendenti si piegano al duro decreto, ed Alessandro VI alla sua volta non tarda a scomunicarli tutti come ribelli agli ordini suoi, e chiedere al governo fiorentino di assicurarsi del loro capo, se non voleva rendersene complice, ed incorrere nell'interdetto. Queste gravi misure non disanimavano il Savonarola, che dopo breve intervallo di silenzio ritorna sul pergamo e dichiarata nulla e vana la scomunica, ribadisce le sue profezie, sempre più convinto che non un iota, com'ei diceva, ne fallirebbe. “O uomini religiosi, esclama nella predica del 25 febbraio 1497, o Roma, o Italia, e tutto il mondo chiamo, fatevi innanzi. Questo che io dico o è da Dio o no. Se è da Dio voi non potete impugnarlo, e se impugnate, perderete con vostro danno; se non è da Dio mancherà presto per sè medesimo.„ E più gravemente in quella del 18 marzo: “Dico [265] che quando è guasta la Chiesa, non è potestà ecclesiastica, ma è potestà infernale e di Satanasso. Io ti dico che quando ella adiuta le meretrici, li cinedi et li ladroni et perseguita e buoni et cercha di guastare el ben vivere christiano, allora ella è potestà infernale et diabolica, et hassegli a fare resistenza„. Era guerra aperta e a ferri corti, e il Savonarola non disperava di vincerla. In una lettera ad un amico ricorda che i concili di Pisa e di Costanza aveano stabilita la superiorità della Chiesa tutta, rappresentata dal Concilio sul Papa, e il dritto di deporlo, dove si fosse chiarito indegno di tenere l'alto seggio. Dottrina già sostenuta un tempo da Marsilio da Padova e dall'Occam, e più di recente difesa dal Langstein, dal Gerson, dal Piccolomini, dal Cusano. E al Gerson il Savonarola s'appella, e spera che il re di Francia o l'imperatore dei Romani, o tutti insieme bandiscano un Concilio, che ponga fine agli scandali e alle simonie. E nello stesso collegio cardinalesco si affida di trovare aiuto, specie nel cardinale della Rovere, che fu poi Giulio II, il quale pubblicamente accusava il Papa di aver compra la tiara a contanti.

Ma tutti questi calcoli erano sbagliati. Le teorie di Pisa e di Costanza, se non pubblicamente condannate, furono ferite a morte dopo lo scacco del Concilio di Basilea e la sottomissione dell'antipapa da questo nominato. E gli uomini più eminenti, come il Cusano e il Piccolomini, ebbero a ricredersene anche prima che l'uno fosse fatto cardinale di San Pietro in Vincoli, e l'altro assumesse la tiara col nome di Pio II. Nè era credibile che il disegno fallito a Basilea, d'introdurre nella Chiesa in luogo del monarcato assoluto un governo a larga base, potesse riescire ora che le condizioni vi si prestavano meno. Certo è che quando il Savonarola levò il suo grido contro quel papa, che la Chiesa stessa deplora d'aver avuto a capo, nessuno lo raccolse, e gli Arrabbiati seppero ben [266] cogliere l'occasione delle minaccie papali per sbalzare di seggio la parte politica devota al Frate. Nè solo i politici gli si mossero contro, ma benanche la maggior parte del clero con i frati minori alla testa, i quali sfidarono il Profeta di provare la verità delle predizioni sue coll'esperimento del fuoco. Il Savonarola non voleva accettare la strana sfida, che sapeva bene non essere se non un tranello; ma il suo fido compagno fra Domenico, convinto della bontà della loro causa, l'accettò e sarebbe certo entrato nel fuoco, se il Minorita si fosse fatto innanzi. Costui però, come era da prevedere, non si presentò, il truce spettacolo non ebbe luogo, e la gran folla adunata in piazza della Signoria per assistervi, a tarda sera si sciolse indispettita e minacciosa. Da quel giorno la sorte del Savonarola era decisa. Ben presto fu dato l'assalto al suo convento, e vinta facilmente la debole resistenza, che una parte dei Piagnoni ancora opponeva, fu tratto in prigione, come volgare malfattore, quell'uomo dalle cui labbra pochi giorni innanzi pareva che il popolo tutto pendesse. La Signoria non volle consegnarlo al Papa, ma dopo lunghe trattative ottenne che il processo fosse fatto in Firenze e vi prendesser parte i magistrati fiorentini.

Potrebbe sembrare strano come il Governo tanto tenesse ad istruire un processo, senza dubbio più ecclesiastico che civile e per la qualità delle persone e per l'indole stessa dell'accusa di ribellione al Papa, i cui ordini non furono eseguiti, le scomuniche sprezzate. E la Signoria stessa ebbe a ricorrere ad una menzogna per giustificare l'opera propria, asserendo, nell'intestazione degli atti processuali, che i giudici da lei scelti procedevano per conto e per mandato del Papa, mentre questi non avea potuto avere il tempo di manifestare la volontà sua. Perchè tanta insistenza? La ragione è chiara. La Signoria, sotto al processo ecclesiastico, ne ordiva [267] uno politico, e non solo il Savonarola voleva colpire, ma tutta la sua parte. E sperava che il Profeta, innanzi al quale fu visto allibire lo stesso Lorenzo dei Medici, smentisse sè stesso, perchè, non solo scomparisse dalla scena politica, ma ne fosse per sempre macchiata la fama, e passasse appo i posteri quale impostore, nè fosse possibile che la parte, della quale egli era anima e mente, riprendesse lena e del di lui nome si giovasse. A tale scopo non fu risparmiato nessun mezzo. Furono somministrati all'infelice in un solo giorno tre tratti e mezzo di fune, che gli slogarono le ossa e sconciarono la mano destra, furono alterati i verbali delle sue risposte, mandati in giro con glosse, che, guastando il senso, rivelavano con la nequizia l'inabilità del notaio che le stese. Ed i Signori ottennero in parte l'intento loro. Il Savonarola già nel pieno trionfo della sua carriera non è sempre sicuro di sè. Dice bene spesso che le sue rivelazioni le ebbe da Dio, e ribatte tutti gli argomenti degli avversarii che il dono profetico gli volevan contrastare; ma talvolta dichiara di non essere nè profeta nè figlio di profeta, e che tutto quel che dice lo ha ricavato dallo studio attento delle sacre carte, che ogni uomo di qualche levatura può fare. In lui, come in tutti i presaghi dell'avvenire, non di rado con la fiducia piena s'alterna il profondo scoraggiamento. Non è dunque strano che davanti ai suoi giudici, dopo aver sofferte le più atroci torture e i più cocenti disinganni, sconfessi il suo dono profetico. Talvolta il primo uomo risorge e si ribella alle sue stesse confessioni, come in queste memorabili parole pronunziate il 20 maggio 1498 nell'apparecchiarsi ancora una volta alla tortura: “Hor su uditemi: Dio, tu m'hai colto, io confesso che ho negato Christo, io ho detto la bugia. Signori Fiorentini, siatemi testimoni, io l'ho negato per paura di tormenti; s'io ho a patire, voglio patire per la verità; ciò che io ho detto l'ho [268] havuto da Dio; Dio tu mi dai la penitenza, per averti negato per paura di tormenti, io lo merito.„ Ma questo ritorno fu un lampo. Dimandato in sulla fune sconfessò le dichiarazioni sue e nel giorno seguente confermò di aver detto “come huomo passionato, e che voleva sbrigarsi da una gran briga„. Il 23 maggio 1498 egli ed i suoi compagni, fra Domenico e fra Silvestro, furono degradati e consegnati al braccio secolare, e alle dieci del mattino le livide fiamme del rogo ne accolsero i cadaveri.

I pensieri dominanti del Savonarola furono questi due: la rinnovazione della Chiesa e la libertà del popolo fiorentino; l'una da promuovere, l'altra da stabilire e difendere. E i principi della Chiesa e i signori del popolo si strinsero insieme per darlo al rogo, vittima espiatrice delle sue grandi aspirazioni. Con la morte del Savonarola la Profezia ammutisce, nè più si ode, fuorchè a un secolo di distanza negli insipidi vaticini dello pseudo-Malachia, e nella debole eco di un altro domenicano, uomo politico anch'esso, fra Tommaso Campanella. Negli anni che seguono al martirio del Ferrarese, l'ora del tremendo giudizio non s'attende più, è già suonata. Ma nessun profeta l'annunzia, e quando più fervono le lotte religiose, e torrenti di sangue dilagano per l'Europa, nessuna voce risuona a confortare gli animi con la promessa di giorni migliori. Simili ai dannati danteschi, i profeti di cui vi ho ricordate le strane visioni, a furia d'aguzzar gli occhi nel futuro, brancolano come ciechi nelle tenebre, quando si tratti del presente:

Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,

Le cose, disse, che ne son lontano,

Cotanto ancor ne splende il sommo Duce;

Quando s'appressano, o son, tutto è vano

Nostro intelletto, e s'altri noi ci apporta

Nulla sapem di vostro stato umano.

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