L'ORLANDO INNAMORATO DEL BOIARDO

DI

PIO RAJNA.

Scommetto, signore e signori miei, che se fossi mago - che pur troppo non sono - e avessi la virtù di far qui comparire a un vostro cenno tutti i poeti che vi venisse la curiosità di vedere, la sala correrebbe un gran rischio di essere stipata prima che a Matteo Maria Boiardo fosse concesso di trovarsi in mezzo a un'accolta di persone, tale da richiamarlo a' suoi giorni più belli. Gli è che il nome suo vi s'offrirebbe offuscato da un altro: quello di Lodovico Ariosto. E c'è di peggio. Il Boiardo della tradizione comune ha come l'aria di un somarello dal pelo arruffato, pieno di guidaleschi, che se ne va trotterellando alla meglio, indegno di attirare gli sguardi, finchè un buffone - Francesco Berni mi scusi, - non è còlto dal ghiribizzo di balzargli sul dorso, e, messolo a corsa a forza di scudisciate, non si dà ad eseguire su quella cavalcatura ogni sorta di smorfie e capestrerie. O chi mai deve dunque impacciarsi di richiamare dall'eterno riposo un'ombra cosiffatta?

Chi? - Voi per l'appunto: dopo che vi siate presi la cura di conoscere meglio cosa sia per davvero l'Orlando Innamorato, o Innamoramento d'Orlando che si voglia dire; una cura che, avendo me a guida, riuscirà forse una fatica e una noia; ma che fatica e noia non [206] sarebbe, se, mandato a farsi benedire l'incomodo mediatore, apriste il libro voi stessi e vi deste a legger senz'altro.

Per il momento son qui, e bisogna che mi tolleriate. Ed io dal mio canto, volendo adempiere coscienziosamente l'ufficio a cui mi son sobbarcato (povera coscienza, come si strazia in tuo nome!), son costretto a risalir molto indietro. L'Orlando Innamorato - dicono i barbassori - non si può giudicar bene senza essere prima informati della sua schiatta; e questa schiatta è disgraziatamente antica assai.

Sicuro: ci si perde in un lontano passato, e in un passato non nostro. Tutti sanno oramai di una epopea rigogliosa fiorita nella Francia del medio evo e dissepolta pietosamente da sessant'anni in qua. Essa accompagnò la vita francese dai primordi fino a un'età molto tarda. Nata di sangue germanico, ma fattasi presto romana, cantò i fatti e gli eroi del periodo merovingio, poi quelli del carolingio, e serbò ancora abbastanza fiato perchè, due e più secoli dopo, al tempo delle crociate, potesse mettersi alla bocca la tromba.

Quanti personaggi si trovò così a celebrare! Ma tra gl'infiniti, taluni, per motivi interni ed esterni, vennero a prevalere. Primo fra tutti Carlo Magno, il sovrano per eccellenza. E accanto a lui Orlando, del quale la morte stoicissima al passo di Roncisvalle fece l'ideale del guerriero valoroso e del vassallo devoto. In Rinaldo invece e in certi altri si possono veder personificate le doti meno corrette, ma spesso più simpatiche, del barone ribelle; ribelle nondimeno ai soprusi, non all'esercizio legittimo dell'autorità.

Nella sua forma schietta e genuina questa epopea francese è poesia severa, profondamente patriottica, ardentemente cristiana, fieramente guerresca. Ma se il patriottismo, la religiosità e lo spirito bellicoso eran troppo [207] connaturati con essa per venir a mancare, la severità invece dovette via via ceder terreno di fronte al bisogno di andar a sangue a un pubblico mano mano più desideroso di svago: simile al pubblico d'una conferenza! Così l'epopea si veniva convertendo in romanzo: metamorfosi da non poter mai riuscire perfettamente, nel territorio almeno a cui l'epopea appartiene per nascita. Getti pur lontano quanto vuole la sua tonaca, poco o tanto il frate resterà sempre frate. Quindi, se le chansons de geste continuarono ad appagare esuberantemente il gusto, facile sempre, delle classi popolari, il palato dei signori trovò col tempo maggior piacere in altri cibi. E i cibi furono svariati; ma il più gradito fra tutti fu quello offerto in gran copia dalle narrazioni costituenti la cosiddetta Materia di Brettagna, o il Ciclo d'Artù e della Tavola Rotonda. Straniero di origine, e però non vincolato o frenato da nessun obbligo o tradizione, questo ciclo potè volgersi liberamente a sodisfare ogni tendenza e desiderio di quella società cavalleresca alla quale s'indirizzava, parte, svolgendo gli elementi portati con sè della patria, e più assai trasformando e introducendo di nuovo. Ne uscì un mondo fantastico, nel quale il meraviglioso - prima causa, se non erro, della fortuna brettone - s'incontra a profusione; dove i guerrieri se ne vanno errando soletti, o quasi, per regioni solitamente boscose, sconosciute affatto a loro medesimi, incontrando di continuo l'inaspettato; dove al posto della guerra s'ha il duello, il torneo e l'“avventura„; dove insieme col valore regna la cortesia; dove la donna, relegata in un cantuccio dall'epopea carolingia, è messa in trono, e con essa - occorre mai dirlo? - è messo in trono l'amore; un amore che cura ben poco le istituzioni sociali, sicchè si compiace segnatamente delle due coppie adultere di Tristano ed Isotta, di Lancillotto e Ginevra.

[208]

Dalla Francia così l'epopea nazionale come la materia di Brettagna si propagarono all'Italia. L'epopea se ne dovette venire fino da un'età molto antica; oserei quasi dire già in quella stessa di Carlo Magno. Quanto alle narrazioni brettoni, giunsero a noi più tardi; eppure, lasciando stare certi indizi che ci riporterebbero nientemeno che al cadere del secolo XI, è certo che nel XII si divulgarono largamente. La fortuna dell'epopea fu senza confronto maggiore. Essa trovò qui una seconda patria; e non già solo in questa o quella regione, bensì oramai in tutto il paese. Ciò non toglie che la vallata del Po fosse il terreno più disposto ad accoglierla. Colà prima che altrove mise salde radici e si rivestì di nuove frondi. Agli abitatori di quelle provincie che avessero qualche poco di coltura, la favella francese sonava famigliare; sicchè ivi accadde che si rimaneggiasse e s'arricchisse con nuove invenzioni ciò che s'era avuto d'oltralpe servendosi del linguaggio della Francia e senza dipartirsi dai ritmi originarii. Linguaggio e ritmo non rimasero; invece, nè potevano rimanere, al di qua dell'Appennino; l'uno cedette il posto ai volgari nostri, l'altro all'ottava rima o alla prosa. Ma di quaggiù il mutamento ebbe poi ad essere comunicato di rimbalzo all'Italia stessa del settentrione, ridottasi a poco a poco ancor essa ad accogliere un sentimento più vivo d'italianità nell'ordine altresì della lingua e della letteratura.

Quanto alla materia di Brettagna, è naturale che anche presso di noi se ne avessero a compiacere specialmente quelle classi per cui s'era venuta foggiando. Ciò viene a dire che dovette certo aver voga maggiore nella Lombardia, intesa nel suo vecchio ed ampio significato, nella Marca di Treviso, nella Romagna, così ricche di signori feudali e di piccole corti. Però non a caso Dante pose il romanzo di Lancillotto tra le mani de' “duo cognati„, con quell'effetto che troppo ben sapete. Nondimeno [209] e Artù e Tristano e Galvano e tutta la brigata non mancarono di esercitare vive seduzioni anche qui nella Toscana sulle fantasie di una gioventù, cui il nascere per la più parte di popolo non toglieva d'essere amante del “donneare„, della prodezza del lusso, e di ogni gentil costume. Quindi sulle pareti del palazzo della sua Madonna il poeta dell'Intelligenza - o perchè non dirò io Dino Compagni? - darà luogo alla rappresentazione di questo mondo leggiadro con parole che lasciano intendere quanto fosse caro al suo cuore (St. 287-288):

E sonvi i pini, e sonvi le fontane.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

E sonvi tutti i begli accontamenti

Che facevan le donne e' cavalieri:

Battaglie, giostre, be' torneamenti,

Foreste, roccie, boscaggi e sentieri.

Quivi sono li bei combattimenti,

Aste troncando e squartando destrieri.

Quivi sono le nobili avventure;

E son tutte a fino auro le ligure:

Le caccie, e corni, valletti e scudieri.

Lungi da me l'idea di parlarvi, sia pure rapidissimamente, di ciò che da un lato il ciclo carolingio, dall'altro il brettone, produssero presso di noi nel lungo periodo che precede al mio soggetto, ossia fin verso il declinare del quattrocento. Questo solo dirò, che il brettone riuscì poco prolifico, e si limitò quasi sempre a tradurre e verseggiare. Il carolingio invece fu di una fecondità conigliesca, e mise alla luce una serie interminabile di romanzi in prosa e in verso, attraenti dapprima, fino a che in generale si contentavano essi pure di ripetere in forma schietta ed ingenua narrazioni antiche, ma via via più stucchevoli. Ci si domanda come la gente del secolo XV - ed anche del XVI - potesse [210] trovar diletto nel leggere o sentir recitare casi tanto uniformi, narrati prolissamente e senza grazia. Ci si domanda: ma quando si vede un fanciullo trastullarsi ore ed ore con quattro fuscellini, e gli stessi pettegolezzi far le spese della conversazione universale per una intera settimana, e i cuori di migliaia e migliaia di persone (osservo, non critico) stare in ansia per veder risolto il gran problema se quattro zampe di cavallo arriveranno alla mèta un minuto terzo prima di altre quattro, e rimanersene per questo ore ed ore sotto la sferza solare, si conchiude che per divertir l'uomo, grande e piccino, molto poco può essere sufficiente. Vero che non ci vuol troppo più nemmeno per annoiarlo.

Questa nostra letteratura pareva giunta alla sera - e che squallida sera! - senza aver avuto un vero meriggio; quando le nubi si squarciarono e il sole prese a sfolgoreggiare. Esso, par bene, ebbe prima a mostrarsi a Firenze, dove, secondo le conclusioni di studi recenti, il Morgante di quella bizzarra creatura che fu Luigi Pulci era già composto per tre quarti nel 1470. Il valore di questo poema è tuttavia più scarso che non si pensasse in addietro. D'invenzione non è da parlare che per pochi episodii, dacchè del resto l'amico del Magnifico non fece oramai che rintonacare le mura rustiche elevate da un rimatore popolaresco, sovrapponendovi un tetto costrutto con travi e tegoli di cui possiamo determinare la provenienza. Il pregio maggiore dell'opera sta nella vivacità, davvero mirabile, dello stile e della lingua, e nel riso che guizza per ogni dove. Ma insomma, col Pulci, il romanzo popolare carolingio si riveste di nuovi panni, si raggentilisce, si abbandona alla gaiezza, senza punto mutare sostanzialmente. I cantambanchi che in San Martino ed altrove raccoglievano dattorno a sè un uditorio composto sopratutto di bottegai e di artefici, potevano ancora riconoscere in messer Luigi uno [211] dei loro. Che le cose seguissero a questa maniera nella democratica Firenze, è un fatto più che naturale.

E il Boiardo? - Qui la scena cambia. Ma prima di vedere il come, bisogna pure che noi si faccia un po' d'amicizia col nostro personaggio.

Matteo Maria Boiardo nasceva di una famiglia feudale che nel 1423 aveva ceduto al marchese Niccolò d'Este l'avita signoria di Rubiera, tra Modena e Reggio, ricevendone in cambio la vicina Scandiano ed altre ville, con titolo di contea. Venne al mondo nel 1434, o giù di lì; verosimilmente in Scandiano stessa, residenza abituale de' suoi. Perdette il padre nel 1452; il nonno, Feltrino - uomo insigne - nel 1455; la nonna due anni appresso; e si trovò così arbitro di sè medesimo in età affatto giovanile. La vita sua, nota a noi in modo per verità manchevolissimo, trascorse per la massima parte tra Scandiano, Reggio, Ferrara. Caro agli Estensi, com'era stato loro carissimo l'avolo, accompagnò nel 1471 Borso nel viaggio intrapreso a Roma, quando Paolo II gli concedette anche per Ferrara quel titolo di duca, che l'imperatore Federico gli aveva conferito già da oramai vent'anni per Modena e Reggio. Sotto Ercole poi, succeduto poco appresso al fratello, fu nel 1481 e nel 1486 al governo di Modena. E più lungamente ebbe quello di Reggio: chè, lasciando stare qualcosa che s'afferma e non si prova per un tempo antecedente, rimase in ufficio dal 1487, o al più tardi dal principio del 1488, fino alla morte, seguita nella notte dal 20 al 21 dicembre del 1494.

Educato senza dubbio alcuno all'esercizio delle armi fin dagli anni suoi teneri, Matteo Maria ebbe scarse occasioni di menar per davvero le mani. Qualche parte è verosimile che prendesse alla difesa contro i Veneziani, che nel 1482 mossero ad Ercole una fiera guerra, durata fino al 1484. Come reggitore, certe voci, posteriori alquanto, lo accusano di fiacchezza; e non dirò che l'accusa [212] sia sbugiardata trionfalmente in tutto e per tutto dall'esame di quel tanto che ci è rimasto del suo carteggio col duca. Certo l'animo suo era profondamente inclinato alla benevolenza. Non meno che a questa tuttavia alla giustizia. E il carteggio dà insieme chiaramente a vedere com'egli fosse largamente dotato di senno pratico, e rotto agli affari.

Agli uffici pubblici par che Matteo fosse spinto da ragioni private; probabilmente da strettezze pecuniarie, ben conciliabili anche colla signoria di Scandiano, toccata propriamente a lui nelle divisioni con un cugino. Ma occupazione più gradita che le faccende amministrative, conditegli spesso di fiele da altri ufficiali, gli riuscivano di sicuro lo studio e la poesia.

Tre libri di liriche amorose contengono soprattutto gli sfoghi della sua passione giovanile per una diva reggiana, che non tardò a mostrarsi maestra di lusinghe, simulatrice, volubile, capricciosa. Grazie alla provvida costumanza degli acrostici, ne conosciamo nome e cognome: si chiamava Antonia Caprara. Ma Antonia non domina sola qua dentro. Buon numero di poesie, scritte durante il viaggio a Roma del 1471, inclino a credere indirizzate da Matteo a Taddea Gonzaga dei conti di Novellara, divenuta l'anno dopo sua moglie. Ed altre rivendicazioni dovremmo ammettere (nè dico ciò senza ragioni specifiche), se alle ossa che furono donne gentili e leggiadre negli Stati estensi durante la seconda metà del quattrocento fosse consentito di venir qui a far valere i loro diritti. Chè l'amore fu il sentimento predominante nel Boiardo. E sia poi stata fatta eseguire da lui medesimo, oppure invece da altri in suo onore, la medaglia che nel 1490, quando egli s'avvicinava alla sessantina, ce ne tramandò - e autentiche - le fattezze, il suo rovescio, rappresentante Vulcano intento a foggiare sull'incudine strali per Cupido, lì presente con Venere, e il motto virgiliano [213] che accompagna la rappresentazione, Amor vincit omnia, ci rendono davvero secondo verità i lineamenti interni del Conte di Scandiano. Quel motto - si badi - in una forma o in un'altra, noi lo raccogliamo direttamente dalle sue labbra non so quante volte.

Il canzoniere del Boiardo è uno dei più notevoli del secolo XV; e io mi domando, se mai, non ostante una certa povertà di tavolozza, non fosse il più notevole addirittura. Attrae e colpisce la sincerità della passione, di cui noi seguiamo agevolmente la storia nelle sue vicende liete e tormentose; l'efficacia e la bella semplicità delle espressioni via via che essa riceve; la vivezza e soavità delle immagini; la delicata sensitività per la natura; l'armonia squisita dei congegni ritmici. Se i convenzionalismi e le ricercatezze non mancano (specialmente, badiamo, nel libro terzo, forse ordinato da altri che dal poeta), quanto difficilmente potrebber mancare dopo l'esempio del Petrarca! Ma l'ispirazione petrarchesca, che qui pure può assai, non soffoca nient'affatto l'originalità. Tra Antonia e Laura, tra il modo di sentire di Matteo e quello di messer Francesco, c'è una differenza profonda. Quasi più che a Laura direi che Antonia rassomigli alla Lesbia di Catullo; ma le assomiglia come una donna somiglia ad un'altra donna, poichè essa è propriamente persona viva. Il poeta, trascorsa la prima fase dell'estasi, ce la rappresenta colle sue pecche; e in causa di lei accusa, più spesso e più acerbamente che il Petrarca non faccia, tutto il sesso femminile:

Fede non più: non più v'è de honor cura

In questo sexo mobile e fallace,

Ma volubil pensier e mente oscura.

(Son. 79).

Ma anche quando soffre, e non potrebbe più dire di certo, come in un tempo di beatitudine,

Amore ogni tristezza a l'alma toglie,

(Son. 23)

[214]

non sarebbe alieno dal ripetere le altre parole che faceva allora tener dietro:

E quanto la natura ha in sè di bene

Nel core inamorato se raccoglie.

E infatti dell'Amore egli prende una volta le difese in un leggiadro contrasto col suo proprio cuore che lo viene accusando:

Non sei tu per Amor quel che tu sei?

Se in te vien ligiadria,

Se honor e cortesia?

Ah, pensa pria se lamentar te dei!

Lamentar di colui che l'armonia

Infonde a i vagi ocei!

Che infonde a' tygri humana mente e pia,

E fa li homini Dei

(Canzone V, st. 3).

No, l'amore può tormentarlo quanto si voglia: dopo d'aver imprecato, Matteo si riconcilierà con lui, e rimarrà tra' suoi più devoti.

Col Canzoniere hanno scarsa attinenza le altre opere minori. Dieci egloghe latine furono composte, secondo me, tra il 1460 e il 1462; dieci italiane spettano manifestamente la più parte al tempo della guerra con Venezia. Perfino nel numero portano scritta in fronte l'imitazione virgiliana! Qualche sprazzo di luce non vale davvero a conciliarci con codesti pastori, che non hanno nulla di schiettamente rustico, neppur quando l'allegoria non ne succhia il sangue. E meno ancora ci seducono cinque capitoli, quattro dei quali hanno per soggetto il timore, la gelosia, la speranza, l'amore, e il quinto il trionfo delle virtù sui vizi. Quanto copiosi di una non recondita erudizione mitologica e storica, altrettanto son poveri, e peggio, di poesia. A un posto senza confronto più onorato, segnatamente per ragion di tempo, può [215] pretendere il Timone: commedia in terza rima, che non vuol essere se non traduzione e adattamento scenico del dialogo omonimo di Luciano, e che è qualcosa più. Traduzioni vere sono quelle che il Boiardo fece, dal greco, dell'Asino d'oro di Luciano stesso, delle Storie di Erodoto, della Ciropedia; dal latino, dell'Asino d'oro di Apuleio. Quanto alla Istoria Imperiale, ossia degl'imperatori, prima romani, poi romano-germanici, che si dà essa pure come versione di un testo di Riccobaldo ferrarese, ancora non s'è ben chiarito cosa sia; ma par da ritenere un raffazzonamento del Boiardo stesso, a cui Riccobaldo non dette se non molta parte del materiale.

Tale, in brevi termini, l'uomo e lo scrittore, venuto ancor esso nell'idea di metter mano a un poema cavalleresco. Quando l'idea nascesse, non so dire; so bensì che nientemeno che sessanta dei sessantotto canti e mezzo che il poeta ci ha lasciato, erano già scritti al tempo della guerra con Venezia, e probabilmente anche proprio avanti che nel 1482 la guerra scoppiasse. Chè, tra le armi, il poeta, smarrito e addolorato, non per la sua provincia soltanto, ma per l'Italia, non ha cuore di attendere all'opera, e ne rimette a giorni migliori la continuazione:

Non saran sempre e tempi sì diversi,

Che mi tragan la mente di suo locho.

Ma nel presente e canti mei son persi,

E porvi ogni pensier mi giova poco;

Sentendo Italia de lamenti piena,

Non che hor canti, ma sospiro apena.

Però il principio della composizione vorrà riportarsi indietro Dio sa di quanto; nè con essa ha dunque assolutamente [216] che vedere la pubblicazione del Morgante, seguìta essa pure solo nel febbraio di quel medesimo anno 1482. E per me credo assai poco che vi abbia che vedere nemmeno in altra maniera il poema fiorentino, del quale la voce, od anche qualche esemplare manoscritto o qualche saggio, fossero arrivati fino al Nostro. In ogni modo, se da Firenze fosse venuto qualcosa, non si tratterebbe che di un semplice impulso, di cui poco capisco che ci potesse esser bisogno.

Sicchè dobbiam fare direttamente i conti col nostro Matteo Maria. Cosa ci saprà e vorrà egli dare? - Se ci mettiamo ad argomentare dalle altre opere, il Canzoniere ci inspirerà una certa fiducia; ma tutto il rimanente ci farà scuotere il capo in atto di diffidenza. Che razza di poema cavalleresco dovrem noi aspettarci da un erudito, da un traduttore, da un imitatore, dal coltivatore assiduo di un genere letterario quale è l'egloga virgiliana, falso in sè medesimo e più falso ne' suoi riflessi?

Diffidiamo; ma se invece di baloccarci fantasticando ci daremo a guardare, saremo presi da un sentimento analogo a quello da cui sarebbe colto chi per la prima volta s'accorgesse che l'autore del Convivio, del De Monarchia, del De Vulgari Eloquentia, è ad un tempo l'autore della Divina Commedia. Contemplando, siamo indotti a riconoscere che se l'Italia produsse mai un uomo a cui la materia cavalleresca potesse convenire, fu per l'appunto il Boiardo. E quest'uomo era in pari tempo un esperto maneggiatore di affari grossi e piccini. Davvero, per quanto si deva sentir ritegno a lodarsi di sè medesimi, non si può trattenersi dal notare come sia dote caratteristica dell'ingegno italiano la moltiplicità delle attitudini. Rassomiglierei questo ingegno al cubo, che, adagiato su sei facce diverse, è sempre stabile ed equilibrato ad un modo.

Erano due, come sapete, i cicli che il Boiardo si trovava [217] dinanzi: il carolingio ed il brettone. Entrambi gli erano ben famigliari; ma a lui la schiatta e il costume signorile, e ancor più l'animo amoroso, rendevano tra i due molto più grato il secondo:

O gloriosa Bertagna la grande,

Una stagion per l'arme e per l'amore,

Onde ancor hoggi il nome suo si spande.

Sì ch'al re Artuse fa portar honore:

Quando e bon cavalieri a quelle bande

Mostrarno in più battaglie il suo valore

Andando con lor dame in aventura;

Et hor sua fama al nostro tempo dura.

Re Carlo in Franza poi tenne gran corte,

Ma a quella prima non fo sembïante,

Ben che assai fosse ancor robusto e forte

Et havesse Ranaldo e 'l sir d'Anglante.

Perchè tenne ad amor chiuse le porte,

E sol se dete a le battaglie sante,

Non fo di quel valore o quella estima

Qual fo quell'altra ch'io contava in prima.

(Orl. Inn., II, XVIII, 1-2).

Si direbbe dunque che il Boiardo dovesse correre difilato al mondo arturiano: porre in esso la scena, togliere di lì i personaggi, per quel tanto che non li foggiasse di nuovo. Invece a questo partito egli non s'appigliò punto; e anche con ciò dette prova di un criterio rettissimo. Intanto, le selve della Brettagna, per quanto vaste, erano sempre un terreno troppo angusto perchè ei ci facesse muovere liberamente il suo popolo un intelletto italiano devoto al senso del reale, e però non disposto a rappresentarsi ed a rappresentare gli spazi troppo difformi dal vero; ben altra comodità offriva il ciclo carolingio, condottosi via via ad estendere il suo dominio su tutta quanta la terra! Poi, appunto perchè gl'ideali del Boiardo venivano già ad essere attuati [218] nella Tavola Rotonda, poco rimaneva qui a fare per una mente creatrice. E c'era una ragione anche più grave d'assai. Mentre Tristano, Lancillotto, Galvano, mantenevano non so che di aereo anche per coloro che gli avevano in maggior domestichezza, i loro rivali carolingi presentavano alla fantasia una concretezza, da non potersi immaginare la maggiore: gli uni rassomigliavano come a gente vista in sogno; gli altri parevano uomini conosciuti nella vita. Però, parlare ad italiani di Carlo, d'Orlando, di Rinaldo, di Malagigi, era un parlar loro di persone così prossime al cuore dei più, che mai non si sarebbero stancati di udirne i fatti. Nè si creda che la famigliarità con costoro, se non forse l'affetto, fosse nei signori troppo minore che nel volgo. Di ciò fornisce la prova la conoscenza che il Boiardo stesso dà a vedere incidentalmente, ora dell'una, ora di un'altra narrazione tradizionale, e quella, meglio ancora, ch'egli suppone a volte in un uditorio, che da luoghi non so quanti ci è rappresentato come essenzialmente aristocratico. Ma non voglio neppur tacere una testimonianza, istruttiva per più di un verso, fornita da documenti storici dissotterrati di recente; tanto più che essa si riferisce a una principessa estense, e propriamente a colei che tutti s'accordano nel riguardare siccome l'esemplare più perfetto di quello splendido fiore, che fu la donna del nostro Rinascimento.

Quando, al principio del 1491, Isabella, la figliuola del duca Ercole, già marchesana di Mantova, fu a Milano per accompagnarvi la sorella minore Beatrice, che andava sposa a Lodovico il Moro, s'accese una disputa tra lei e Galeazzo Visconti, gentiluomo milanese, se fosse da anteporre Orlando, oppure Rinaldo. Isabella (chi non sa che i ribelli e gli scapigliati attraggono sempre le simpatie femminili?) stava per Rinaldo; Galeazzo sosteneva le parti d'Orlando. La disputa dette luogo, un [219] giorno che s'andava per acqua a Pavia, oppure si ritornava di colà, a una specie di lotta, nella quale Galeazzo costrinse la sua avversaria a dichiararsi vinta, ed a gridare essa stessa: “Rolando, Rolando!„ Ciò, beninteso, non le impedì punto di inalberare poi subito di nuovo la sua bandiera e di tenercisi aggrappata anche dopo la partenza da Milano; donde uno scambio curioso di lettere, tra le quali, disgraziatamente, noi abbiamo solo - e non tutte - quelle di Galeazzo. La disputa (ciò che ho detto della lotta lo avrà fatto intender di già) era sostenuta in tuono umoristico. Importa poi rilevare, dacchè senza di ciò la testimonianza perderebbe qui per noi ogni valore, che questo contrasto, per quanto vediamo, non prese punto materia dall'Innamorato, sebbene i primi due libri avessero visto la luce per le stampe cinque anni innanzi.

Sicchè il ciclo carolingio era il solo donde si potesse muovere opportunamente. Ma questo ciclo, qual era ridotto, presentava l'aspetto di un vecchio castello, dalle mura decrepite, dove lasciate rovinare, dove rifatte alla peggio, dalle sale sterminate e buie, dalle pareti squallide, dall'arredamento poverissimo e consunto dal lungo uso. Non era lì dentro davvero che un uomo dei gusti del conte di Scandiano avrebbe mai voluto mettersi ad abitare, ed invitar cavalieri e dame avvezzi allo splendore delle nostre corti. Perchè il castello gli apparisse degno albergo di lui medesimo e di ospiti siffatti, bisognava rimetterlo a nuovo da cima a fondo.

L'impresa era ardua quanto mai; e non so chi altri sarebbe riuscito a condurla a buon termine. Restaurare è facile; ma è difficile in sommo grado che ciò che s'è restaurato non si trovi poi essere la negazione dell'armonia. Il Boiardo squarciò dovunque i fianchi alle mura risaldate, e fra quelle tetraggini fece penetrare fiotti di luce; rintonacò, dipinse e addobbò le pareti; senza dare [220] lo sfratto al vecchio mobigliare in quanto fosse ancora servibile, lo allogò convenevolmente, e ne aggiunse uno copiosissimo di meravigliosa ricchezza e d'impareggiabile svariatezza. Insomma, egli trasformò quella miserabile dimora in un palazzo incantato.

Il rinnovamento consistette soprattutto (e si troverà ben naturale dopo quanto s'è visto) in un grande raccostamento al ciclo brettone. Un'azione di questo ciclo sul carolingio s'era cominciata a vedere nella Francia stessa da ben tre secoli; ed aveva continuato ad esercitarsi qui da noi. Ma sempre s'era trattato di fatti parziali, compiuti senza impulso profondo, col semplice scopo di dilettar maggiormente. Gli effetti erano stati per lo più tutt'altro che felici; nè c'è da meravigliarsene. La vera e propria fusione del mondo d'Artù e di quello di Carlo Magno non era possibile se non ad un uomo per il quale quei due mondi avessero cessato di rappresentare qualcosa di distinto e si confondessero in un'unità superiore: il mondo cavalleresco. Allora soltanto Orlando e Rinaldo e quanti mai li circondino potranno legittimamente convertirsi in cavalieri erranti; e starà bene che anche i boschi del loro tempo sian pieni d'avventure; e che le donzelle se ne vadan solette in cerca di un prode che osi arrischiarsi a qualche arduo cimento, invochino con alte grida un soccorso che le strappi a un pericolo, sian causa di combattimento tra chi le accompagni e chi in loro s'incontri e pretenda di impossessarsene; e che il passaggio tranquillo de' ponti sia impedito da giganti e altri campioni; e che ai castelli si mantengan coll'armi fiere usanze; e che le fate s'inframmettano nelle faccende degli uomini, e li attraggano nelle loro dimore, e faccian sorgere giardini e palazzi maravigliosi, che in un attimo vengan poi a dissiparsi. Queste e molte altre cose troviamo nel poema del Boiardo per via de' romanzi della Tavola Rotonda. Sennonchè [221] insieme troviamo anche roba non so quanta di provenienza diversa, e segnatamente classica. Ma poi, prenda il Boiardo di dove mai si voglia, egli tutto trasforma e rifoggia, e a tutto dà l'impronta sua propria. E dalla sua stessa fantasia trasse tanto, quanto assolutamente nessun altro poeta italiano, all'infuori di Dante. Però, al pari di Dante, di uno studio di fonti che, punto per punto, riconduca alle sue origini quel che paia in qualsivoglia maniera derivato d'altronde, egli non ha da temere. Ciò che per altri produce troppo spesso l'effetto di una spennacchiatura, per lui si risolve in una riprova di originalità. Così si capisce come, pur risultando da elementi disparati, il poema non dia alcun sentore di raffazzonamento, e nemmeno abbia la più lontana attinenza con un mosaico, per quanto abilmente congegnato. Esso è lavoro di getto; e nel suo autore è da riconoscere il creatore di un nuovo mondo poetico. Quanti sono mai gli uomini, e nella nostra e in qualsivoglia letteratura, a cui sia lecito di attribuire un vanto siffatto?

Guardiamo un poco addentro in quest'opera singolare. Vi sentiremo in ogni parte strepito d'armi: qui abbiamo il cozzo di moltitudini, come nel ciclo carolingio, là, e più spesso, semplici duelli, come nel brettone. Ma alle armi s'accompagna qualche altra cosa. Dalla bocca stessa del poeta s'è udito, non è molto, come la corte di Carlo (quella, s'intende, di cui s'era narrato fin allora) fosse rimasta al di sotto della corte d'Artù “Perchè tenne ad amor chiuse le porte„. Chiuse del tutto, per verità, non le aveva tenute di sicuro; e Matteo Maria lo sapeva benissimo; ma certo in essa l'amore aveva sempre avuto l'aria di un intruso, e in ogni modo poi il valore non gli aveva obblighi di nessuna specie. Per il Boiardo invece

Amore è quel che dona la vittoria

E dona ardire al cavaliero armato.

(II, XVIII, 3).

[222] Senza di esso il cavaliere quasi non si concepisce, e

Se in vista è vivo, vivo è senza core.

(I, XVIII, 46).

Nè, mancando l'amore, potranno fiorire neppur l'altre virtù, e in primo luogo la cortesia, che è tanta parte nella morale cavalleresca. Così si pensa e parla nel poema (I, XII, 12); e qui noi subito ci s'accorge dell'intimo legame che lega questo col Canzoniere; ossia veniamo a conoscere come il poema, lungi dall'essere un'opera concepita ed eseguita per mero sollazzo o per studio d'arte, abbia radice nella regione più profonda del sentimento. Ciò costituisce la massima tra le differenze che distinguono il conte di Scandiano da quant'altri si dettero fra noi al poema cavalleresco, non escluso nient'affatto l'Ariosto.

Supremo pensiero del Boiardo dovrà essere dunque di redimere il mondo carolingio da quella vita vegetativa in cui aveva languito così a lungo, e di stabilire anche su di esso la signoria dell'Amore. Ed ecco che un Trionfo d'Amore sarà ciò che verrà ad offrirsi sulla scena ai nostri sguardi subito al levarsi della tela.

Siamo di maggio, verso la pasqua di rose, e in Parigi, per occasione di una giostra bandita da Carlo, troviam raccolta una solennissima “corte reale„, che più che alle solite corti del nostro imperatore rassomiglia a quelle d'Artù. Insieme colla moltitudine de' signori cristiani, sono accorsi di Spagna anche molti Saracini; chè le barriere del mondo cristiano e Saracino, se non son tolte, son cadute più che a mezzo in isfacelo. Quel giorno tutta l'infinita baronia è stata chiamata a un gran convito. Carlo va lieto a porsi sopra una sedia d'oro “a la mensa ritonda„; (la “Tavola Rotonda„ è trasportata qui, come vedete, non solamente in idea); accanto a sè ha i paladini, dirimpetto gli ospiti spagnoli.

Mentre si sta in allegrezza, all'estremità della sala si [223] presenta una donzella, che sapremo poi chiamarsi Angelica, in mezzo a quattro giganti, seguita da un cavaliere e non più:

Essa sembrava matutina stella,

E giglio d'orto e rosa di verzieri;

In somma, a dir di lei la veritate,

Non fu veduta mai tanta beltate.

(St. 21).

A quella vista non un cristiano, non un Saracino, sa rimanersene seduto; tutti cercano di accostarsi alla donzella, la quale si fa ad esporre all'imperatore certe sue fanfaluche, il cui succo si è che il fratello suo (il cavaliere che l'accompagna) domanda giostra a quanti son qui convenuti, e che ella stessa sarà premio per chi riesca ad abbatterlo. Il fascino esercitato da questa bellezza impareggiabile è tanto, che l'amore s'accende di subito nei petti. Innamora Namo, “ch'è canuto e bianco„, e si scolorisce in viso; innamora Rinaldo, e si fa “rosso come un foco„; il Saracino Ferraguto, che ha l'argento vivo addosso, a gran fatica si rattiene dallo slanciarsi contro i giganti, per impadronirsi colla forza della fanciulla, e frattanto

Hor su l'un piede, or su l'altro si muta;

Grattasi il capo e non ritrova loco.

(St. 34).

Insomma, a farla breve,

. . . . . . . . ogni barone

Di lei se accese, et ancho il re Carlone;

(St. 32)

il quale profitta della condizione sua privilegiata, e tira in lungo la risposta alla donzella. “Per poter seco molto dimorare„(St. 35).

Ma il trionfo dell'amore non parrebbe al poeta pieno abbastanza, se alla testa dei devoti non fosse ridotto a camminar dietro al carro per l'appunto chi era parso [224] più restio a questo culto, o a questo servaggio: il casto e severo Orlando, il futuro martire di Roncisvalle:

Non vi para, signor, maraviglioso

Odir cantar de Orlando inamorato,

Che qualunque nel mondo è più orgoglioso

È da Amor vinto al tutto e subiugato;

Nè forte braccio, nè ardire animoso,

Nè scudo o maglia, nè brando affilato,

Nè altra possanza può mai far diffesa,

Che alfin non sia da Amor battuta e presa.

(St. 2).

E d'Orlando l'amore s'impadronirà a tal segno, da dare lo sfratto ad ogni altro pensiero, da soffocare qualsiasi altro sentimento. Non contento di trascinarlo in remotissime terre dell'Asia, di darlo del tutto in altrui balìa, di renderlo affatto noncurante di Alda, della quale, dopo una fugace apparizione al principio, non è più questione nel poema, lo muove a calpestare l'amicizia e la parentela, ed a combattere ferocemente, pur sapendo di far male, contro il cugino Rinaldo (I, XXV-XXVII). E tanto può, da renderlo perfino sordo al tremendo pericolo a cui Carlo e la cristianità tutta intera sono esposti per il passaggio che sta per fare Agramante (II, XIII, 50-51). Quando poi, per volontà della sua dama, non già per sua propria, il paladino sarà tornato in Francia, l'annunzio delle orde nemiche che sono in procinto di rovesciarsi sull'esercito cristiano, invece che a sfoderar Durindana, porterà questo campion della fede a ritrarsi in un bosco:

E là pregava Dio devotamente

Che le sante bandiere a zigli d'oro

Siano abbattute, e Carlo, e la sua gente.

(II, XXX, 61).

Ciò perchè la sconfitta servirebbe a' suoi scopi! all'amore per una pagana!

[225]

Facendo innamorare Orlando, il Boiardo s'è guardato bene dall'alterarne sostanzialmente le fattezze. Ciò che egli si studia di rappresentare son precisamente gli effetti che la nuova passione deve produrre sul personaggio che tutti conoscevano da tanto tempo. Non è di certo un rendergli servigio l'operare in cosiffatta maniera: non si rende servigio ad un uomo di molto merito, ma senza alcuna pratica della società e delle sue usanze, trascinandolo in un ritrovo elegante. Guardatelo questo povero paladino, quando ritorna ad Albraccà, tutto pesto e malconcio, dopo aver compiuto imprese incredibili. Angelica lo disarma, lo spoglia per ungerlo “d'un olio delicato - Che caccia de la carne ogni livore„ (I, XXV, 38), e senza tante storie lo vien baciando. Che il Conte all'accostarglisi di quel volto si senta in paradiso, non potrebbe non essere; ma invece di prendere ardimento, se ne sta “quieto e vergognoso„. E timido compagno - timido, beninteso, come amante - sarà ad Angelica nel lunghissimo viaggio dal Cataio alla Francia (II, XIX, 50). Questa sua imperizia egli ce la dà a vedere anche più aperta, quando - guai a incominciare! - si lascia vincere dai vezzi di un'altra donna: di Origille. Con lei, che lo stimola e gli fa animo, parlerà d'amore, “come insonnïato„ (I, XXIX, 47), e le si mostrerà “mal scorto e rozzo amante„ (II, III, 66). Quanto rozzo e mal scorto, altrettanto credulo, sì da lasciarsi dar a bere che salendo in cima a una certa roccia e guardando in una specie di pozzo vedrà “l'inferno e tutto il paradiso„ (I, XXIX, 50). Vero che qui il Boiardo lo vuol scusare, dicendo che al pari di lui sarebbe stato ingannato chiunque, “che di leggier si crede a quel che s'ama„ (St. 52); ma io mi permetterò di domandare a Matteo Maria se avrebbe mai fatto gabbare a quel modo Rinaldo, o qualcuno della sua tempra.

Sicchè il protagonista mascolino del poema è volutamente [226] un personaggio nel cui volto c'è qualcosa di ridicolo; un personaggio del quale, a proposito del viaggio con Angelica ricordato dianzi, è possibile dire che

Turpin, che mai non mente di ragione,

In cotale atto il chiama un babione.

Non so cos'altro mai possa volerci per accorgersi che il poeta si atteggia di fronte alla materia sua in ben altra maniera che non facciano gli autori delle chansons de geste e quelli di tutti i romanzi del ciclo brettone. Non già che l'elemento comico sia escluso di colà. Basterebbe rammentare, per una parte il cosiddetto Voyage de Charlemagne a Costantinople e certe scene dei Quatre fils Aimon, ossia della storia di Rinaldo e de' fratelli, per l'altra la figura di Keu, il siniscalco di Artù, così simile per più d'un verso al nostro Astolfo. Per sè stesso il comico non disdice nemmeno all'epopea più schietta; o non vediamo nell'Olimpo dell'Iliade lo zoppo e barbuto Vulcano andare attorno ansimando in ufficio della vezzosa Ebe, suscitando negli dei una ilarità inestinguibile? Ma Omero non si sarebbe mai sognato sicuramente di rappresentare Ettore o Achille come fa Orlando il Boiardo; nè gli sarebbe passato per il capo di mettere in bocca ad Agamennone parole analoghe a quelle, tali ch'io non potrei qui tutte ripeterle, che il Conte di Scandiano pone sulle labbra di Carlo Magno, quando nella giostra di Parigi vede la sua baronia sopraffatta dai campioni saracini (I, II, 63-65); e nemmeno, crederei, di farlo scendere nell'arena a metter rimedio a un tradimento,

Dando gran bastonate a questo e quello,

Che a più di trenta ne ruppe la testa.

(I, III, 24).

Qui il ridicolo non penzola dai rami: esso si stringe dattorno al tronco stesso; sicchè alla tragedia ed al dramma si sostituisce la farsa.

[227]

Ma il ridicolo s'incontra nel poema del Boiardo anche in una forma che specialmente importa di rilevare: quale umorismo. Cosa propriamente sia l'umorismo secondo il concetto moderno, tutti più o meno intendono; eppure nessuno riesce a spiegar bene a parole. Permetterete dunque che ancor io tenti una definizione mia propria, e che lo dica “un riso interiore„. Esso è un riso che si vela, senza per questo volersi celare, sotto apparenze di serietà. Da questo riso dissimulato alla sghignazzata più chiassosa, non c'è soluzione alcuna di continuità. Si passa dall'uno all'altra per gradi insensibili, soliti comprendersi sotto un certo numero di varietà, come a dire il riso a fior di labbra, il riso aperto, e che altro so io. Però si capisce come le specie non siano nettamente distinte, sicchè a volte non si riesca a veder bene se s'abbia a fare con questa o con quella. E dato l'umor gaio, esso tende a manifestarsi, salvo condizioni e propositi speciali, or con una specie or coll'altra, non già sempre alla medesima maniera.

E le varie forme di riso s'incontrano nell'Orlando Innamorato ben diverso anche in ciò dal Don Chisciotte, dove invece l'umorismo informa tutta l'opera. Ma nemmeno nel nostro poema l'umorismo scarseggia. È umorismo, per esempio, quando subito alla terza ottava si dice:

Questa novella è nota a pocha gente,

Perchè Turpino istesso la nascose,

Credendo forse a quel Conte valente

Esser le sue scritture dispettose.

Qui l'umorismo intacca proprio, come vedete, l'azione fondamentale del poema. E umoristici sono in genere tutti appunto i riferimenti a Turpino, che occorrono numerosi, ivi specialmente dove se n'è sballata qualcuna di grossa; e umoristici diventano in particolar modo [228] allorchè il Boiardo assume dirimpetto al suo autore una certa quale aria di diffidenza, o rovescia comunque su di lui il peso dell'asserzione, come segue a proposito delle dame che assistono in Cipro da un gran palco al torneo che s'è bandito per maritare Lucina:

Mostravan poche il viso naturale,

Le più l'havean dipinto e colorato;

Turpino il dice, io nol scio per expresso,

Benchè sian molte che ciò fanno adesso.

(II, XX, 13).

Questo umorismo non è se non una varietà di quello che consiste nell'assumere tuono di storico veritiero, cauto, accurato, e che porterà, per esempio, a mettere in rilievo qualche circostanza perchè serva a giustificare qualcosa di molto straordinario:

Al fin de le parole un salto piglia

(Vero è che indietro alquanto hebbe a tornare

A prender corso), e, come havesse piume,

D'un salto, armato, andò di là del fiume.

(II, VIII, 23).

La farò finita cogli esempi dell'umorismo boiardesco col menzionare il desiderio che il poeta manifestò di aver assistito a una certa battaglia contro un esercito di diavoli evocati da Malagigi,

Sol per veder se il demonio è cotale

E tanto sozzo come egli è dipento;

Che non è sempre a un modo in ogni loco:

Qua maggior corne, e là più coda un poco.

(II, XXIII, 1).

Il Boiardo non prende adunque la materia cavalleresca propriamente sul serio; ma andrebbe mille miglia lontano dal vero chi immaginasse per ciò che la volesse volgere in canzonatura. Le virtù cavalleresche, vale a dir la prodezza, il coraggio, la lealtà, la cortesia, la generosità, la sete di gloria, il disprezzo delle ricchezze, e [229] insieme con esse l'amore, che le inspira e rinfoca, egli le ammira dal profondo dell'animo. Quindi per esaltarle può anche continuare lungamente a cantare a occhi chiusi con un abbandono propriamente epico. Ma il senso della realtà è troppo vivo in lui, perchè, se appena apre le palpebre, non abbia ad accorgersi che ciò che gli sta davanti son fantasmi, e non componga il volto ad un sorriso. Ad un sorriso, oppure invece anche al pianto, se rivolge la mente a ciò che gli apparisce la vera grandezza; ad Alessandro, a Cesare, e ad altre figure siffatte:

Fama, sequace de gl'imperatori,

Nympha che e gesti a dolci versi canti,

Che dopo morte anchor gli homini honori,

E fai coloro eterni che tu vanti:

Ove sei gionta? a dir gli antichi amori

Et a narrar battaglie de giganti,

Mercè del mondo, che al tuo tempo è tale,

Che più di fama o di virtù non cale.

(II, XXII, 2).

Del resto importa rilevare che l'atteggiamento del Boiardo in cospetto del mondo della cavalleria non è già qualche cosa di peculiare a lui. In embrione, esso si può cogliere negli stessi rimatori popolari, ai quali, per esempio, non sono estranei nient'affatto i richiami scherzevoli all'autorità del famoso arcivescovo; portato all'estremo, per via d'una speciale conformazione dell'ingegno e dell'animo, ci dà il Morgante; e che del pari come agli scrittori fosse comune anche al pubblico cui essi si rivolgevano, può mostrare l'intonazione del contrasto tra Isabella d'Este e Galeazzo Visconti, a proposito del quale la parola “umoristico„ mi è già dovuta uscir di bocca. Si tratta dunque di qualcosa, che è dell'ambiente italiano d'allora. Da questo qualcosa, se si va bene al fondo, il nostro romanzo cavalleresco ripete in [230] generale quel suo temperamento capriccioso, che rende naturali, nonchè ammissibili per esso, tutte quante le capestrerie di pensiero e di forma.

Esaltatore dei sentimenti cavallereschi, il Boiardo può ridere nondimeno dei personaggi in cui egli stesso li incarnò; grande araldo dell'amore, lo troveremo, o non lo troveremo noi, in atto di adorazione devota, al piede della creatura da cui questa passione si diffonde? Cosa sono le sue donne quando egli ha la libertà di foggiarle a piacimento?

Protagonista femminile dell'Innamorato è Angelica. L'importanza sua non è uguagliata da quella di nessun altro personaggio, compreso lo stesso Orlando. In lei principalmente s'accentra l'azione; l'amore che da lei s'ispira è il motore più potente di tutto quanto il meccanismo. Quali effetti essa produca col suo semplice apparire, avete visto voi stessi. E il Boiardo ha immaginato un modo ingegnosissimo di complicare il giuoco dei sentimenti, facendo che, per virtù di due fonti, l'una delle quali accende, l'altra spegne le fiamme del cuore, Angelica sia aborrita da Rinaldo mentre ella arde per lui, e lo abbia in avversione non appena egli ha mutato d'animo. Che sia incantatrice, mi spiace; una donna è sempre maga abbastanza per il semplice fatto dell'esser giovane e bella! Ma il poeta è troppo avveduto per non accorgersi ottimamente di ciò egli medesimo; quindi di cotale prerogativa fa un uso assai parco, e finisce poi oramai per dimenticarla del tutto. Bensì Angelica rimane sempre una lusinghiera; questo il tratto in cui s'assomma l'indole sua. Che moine sa usare con Orlando, per il quale non prova alcun affetto, e che solo le desta rimorso quando è stato mandato da lei a un'impresa da cui non crede che possa uscir vivo (I, XXVIII, 40)! E al tempo stesso ella tiene a bada altri adoratori, che le giova di avere a suoi comandi. Ce la redimerebbe l'amore [231] non corrisposto per Rinaldo, che dà luogo a scene d'una passionatezza commovente, se non fosse l'effetto d'una forza soprannaturale, e se non ci rappresentasse, molto tempo prima che l'Ariosto potesse pensare a Medoro, come una punizione di quel farsi giuoco degli amanti:

Chè amor vol castigar questa superba.

(I, III, 40).

Insomma, all'infuori che per la bellezza, Angelica non ha somiglianza alcuna colle Laure, e meno che mai colle Beatrici.

I difetti che si scorgono nella figliuola di Galafrone toccano il colmo in Origille:

Era la dama di estrema beltate,

Malicïosa e di losinghe piena;

Le lachryme teneva apparecchiate

Sempre a sua posta com'acqua di vena:

Promessa non fè mai con veritate,

Mostrando a ciaschedun faccia serena;

E se in un giorno havesse mille amanti,

Tutti li beffa con dolci sembianti.

(I, XXIX, 45).

Angelica in fondo al cuore non è malvagia: Origille invece è tutta impastata di perfidia, a segno tale da trastullarsi anche colla vita de' suoi disgraziati adoratori.

Possiamo dir buona Tisbina. Amata da due, non frascheggia: riama Iroldo e sente compassione di Prasildo. Che disperazione è la sua quando una promessa a cui Iroldo stesso imprudentemente l'ha spinta, la mette nella necessità di concedere a Prasildo sè medesima! Iroldo vuol morire, ed essa morrà con lui. E i due inghiottono diffatti insieme una bevanda, che credono veleno. Ma veleno non è; e la conclusione della storia viene ad essere, che, dopo una gara mirabile di generosità, Tisbina, mentre è immersa nel sonno per effetto di ciò che ha bevuto, rimane a Prasildo. Che farà essa mai al risentirsi, [232] quando le sarà detto che il suo Iroldo se n'è andato lontano per sempre? È piena di dolore e tramortisce; ma poi, considerando che non c'è rimedio, prende “altro partito„:

Ciascuna dama è molle e tenerina

Così del corpo come della mente,

E simigliante della fresca brina,

Che non aspetta il caldo al sol lucente;

Tutte siam fatte come fu Tisbina,

Che non volse battaglia per nïente,

Ma al primo assalto subito se rese,

E per marito il bel Prasildo prese.

(I, XII, 89).

“Tutte siam fatte„: gli è che queste parole, insieme col racconto a cui servono di conclusione, son poste esse pure in bocca ad una donna. Ma se Fiordalisa modestamente parla così, mettendo sè medesima in mazzo con tutte l'altre, in lei almeno avremo finalmente un esemplare di perfetta lealtà femminile. Chi non ha presente quel suo pietoso andar di continuo in traccia di Brandimarte, che via via ritrova per poi riperderlo di bel nuovo? Se c'è donna amante, quella è lei di sicuro. Ma, ohimè, che ancor essa dà qualcosa a ridire! È troppo, per verità, il compiacimento col quale contempla il bel Rinaldo addormentato (I, XIII, 50), perchè un certo sospetto che il poeta s'è permesso poco prima (st. 48) abbia a parer calunnioso.

Sicchè in conclusione le donne dell'Innamorato son tutt'altra cosa che le Isotte e le Ginevre. Si capisce che nell'animo del poeta c'è una persuasione analoga a quella che ispira al Leopardi l'Aspasia. Gl'idoli a cui si brucian gl'incensi sono, pur troppo, ben lontani in generale dall'essere quali l'immaginazione li rappresenta. L'amore, maschile e femminile, riposa sopra una continua illusione; ciò che s'adora è un fantasma della propria mente; [233] sennonchè per il Boiardo - e tutti saremo con lui - una volta che l'illusione riesce gradita e feconda di bene, merita di essere tenuta nel medesimo conto in cui si terrebbe la realtà. Questo concetto, mentre ci porta lontano dalle tradizioni consuete dei romanzi cavallereschi, ci riconduce alla vita del nostro Matteo Maria. Si rammenti il Canzoniere; si ricordi Antonia Caprara. Così ci si verrà sempre più persuadendo che l'Innamorato è altra cosa che una semplice opera d'arte.

Della tela del poema non crederei indispensabile di farvi, sia pur rapidissimamente, l'esposizione, quand'anche al punto in cui sono non dovessi rammentarmi che tra le virtù del Boiardo ce n'è una nella quale giova che io mi specchi: il saper fare i conti colla pazienza di chi sta ad ascoltare. L'orditura ha qui assai poca importanza; l'importanza sta nelle molteplici narrazioni particolari. Queste s'intrecciano, spesso interrotte, più tardi riprese. Il procedimento per cui parecchie azioni camminano di conserva, dando luogo a continue spezzature, viene all'Innamorato dai romanzi della Tavola Rotonda, e segnatamente dal Tristano, dal Lancillotto, dal Girone il Cortese. Ma ciò che in questi è un mero e impaccioso portato della necessità, nelle mani del Boiardo si converte in un procedimento artistico, mediante il quale la curiosità è stuzzicata, e si consegue una varietà che mai l'uguale.

Ciò che assai mi duole si è che mi sia impedito di mostrarvi le ricchezze meravigliose della poesia del Boiardo, paragonabili a quelle della sua grotta di Morgana,

Che solo a dir di lor seria un volume;

E non ha tante stelle il ciel sereno,

Nè primavera tanti fiori e rose,

Quante ivi ha perle e pietre preciose.

(II, VIII, 19).

Che attitudine a concepire figure caratteristiche e a metterle in moto! che intuizione degli uomini e delle cose! [234] che fecondità di concepimenti! che sentimento delle bellezze naturali! che musicalità di ritmo! che amabile semplicità di forma! È una poesia fresca che noi qui abbiamo: la poesia d'un prato fiorito, in un bel mattino di maggio. E nelle nostre tazze la fantasia vien mescendo a profusione vini scintillanti, che parrebbero spremuti da altre uve che dalle terrene.

Sicuro che anche nel Boiardo ci son le sue pecche. Di certe particolarità non è opportuno che discorra, una volta che ai particolari devo qui rinunziare anche per il resto. E non gli farò colpa alcuna del molto intrattenersi a descriver colpi di lancia e di spada, non di rado uniformi. Queste descrizioni, che a noi paion monotone e stucchevoli, tali non parevano a uditori diversamente disposti che noi non siamo; alla maniera come non riesce monotono per una signora elegante il minuto ragguaglio dei cento vestiti e delle cento acconciature che si son sfoggiati a una festa. Bensì non è dubbio che nell'Innamorato c'è difetto di lima, sicchè aguzzando gli occhi si scorgono a ogni tratto piccole mende, che si vorrebber corrette. Quanto alla lingua, il vizio è quasi tutto alla superficie, ossia nella fonetica; e bisogna non conoscere la nostra storia letteraria per muoverne al Boiardo la più piccola colpa. Esso può rendere per il più dei lettori necessaria una spolveratura, non altro; ma certo non giustifica la manomissione commessa dal Berni. Sennò dovrà esser lecito ad un pittore moderno di ridipingere un Giotto, un Beato Angelico, un Botticelli, per la ragione che il disegno non vi è propriamente corretto.

Vi farò forse meravigliare, terminando, col dire che il poema del Boiardo ha ai miei occhi un alto valore morale. In quell'Italia perfida che gli storici soglion descriverci - l'Italia di Lodovico il Moro e di Alessandro VI -, una voce che esalta col più sincero convincimento le virtù cavalleresche, e prima tra esse la lealtà, significa [235] mi par bene, qualcosa. E più significa perchè non è voce che scenda da un pulpito, nè voce di popolo. Sicchè l'Innamorato viene a indicare che il marcio non era poi tanto profondo come in generale si afferma e si crede.

Certo tuttavia non era più questa la poesia che propriamente convenisse all'Italia, una volta che su di essa venne a rovesciarsi quella sequela di bufere, che al finire del secolo XV prese a devastare i campi, a sradicar gli alberi, ad abbattere case e palagi per tutto il bel paese. Di quella bufera il Boiardo non vide che i prodromi; ma essi bastarono per strozzargli il canto in gola e dissipare le immagini ridenti che gli danzavano davanti alla fantasia. L'opera fu interrotta; ed è legittimo il supporre che il poeta non l'avrebbe ripigliata nemmeno se al passaggio delle genti di Carlo VIII, avviate verso il regno di Napoli, non fosse tenuta dietro quasi subito la sua morte. Quanto differenti le guerre ch'egli aveva vagheggiato e rappresentato da quelle che allora si vennero a combattere! Ma io mi rallegro che gli ultimi versi di questo poema, tutto letizia e apparente spensieratezza, gli ultimi probabilmente che il Boiardo abbia scritto, siano rivolti alla patria:

Mentre che io canto, o Iddio redentore,

Vedo la Italia tutta a ferro e a foco,

Per questi Galli che con gran valore

Vengon per disertar non scio che loco.

Son parole condite d'ironia, alle quali servono di efficace commento quelle che si sono raccolte dalle labbra del poeta in un'altra occasione, consimile, ma a saper leggere nel futuro, assai meno lagrimosa. E noi da questa interruzione ci si sente attratti verso il poeta e l'opera sua più che non saremmo dal più splendido dei coronamenti.

[236]

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