IV.

Fin da ragazzo avevo letto nelle storie letterarie e nelle Antologie che pregio dell'Arcadia del Sannazzaro era la bellezza delle Descrizioni campestri. Ma anche prima ch'io “fuor di puerizia fossi„ mi accorsi leggendolo che il Sannazzaro descrive.... come può descrivere un cieco. Mi spiego. Un cieco può parlare di oggetti visibili che non gli è dato distinguere - parlare di stature, di misure, di forme, anche di colori: ne ha sentito parlare, e ripete ciò che ha sentito dire. Così il Sannazzaro ci parla di boschi, di luna, di aurora, di uccelli, [187] di laghi, perchè gliene hanno detto qualcosa Virgilio, Ovidio, i Greci, il Boccaccio - ed egli ripete, quasi sempre male, quel che essi hanno detto bene.

A provare che il Sannazzaro non è vero poeta, cioè un veggente, cioè un uomo che vede meglio e più addentro che gli altri, nell'uomo e nella natura - basta guardare i suoi aggettivi. Non ne trovi mai uno, dico uno, che, come fan sempre quelli di Dante, dia vita e fisonomia e colore al suo sostantivo. Son tanto comuni che, dato il sostantivo, s'indovina subito l'epiteto che l'accompagna.

Apro a caso e leggo:

“Gli aratori tutti lieti, con vaghi e dilettevoli giuochi, intorno ai candidi buoi, per li pieni presepi cantarono amorose canzoni. Oltra di ciò li vagabondi fanciulli (vagabondi, in altro senso, non sarebbe cattivo) con le semplicette verginelle se videro per le contrade exercitare puerili giuochi in segno di comune leticia.„

Ecco dei versi d'un'Egloga lodata. Parla il pastore Barcinio a Summonzio.

Barcinio. - Una tabella pose per munuscolo

In su quel pin: se vuoi vederlo, or alzati,

Ch'io ti terrò su l'uno e l'altro muscolo.

Summonzio. - Quinci si vede ben senz'altro ostacolo

Filli, quest'alto pino io ti sacrifico,

Qui, Diana ti lascia l'arco e l'jacolo.

- Questo è l'altar che in tua memoria edifico,

- Quest'è il tempio honorato e questo è il tumulo

In ch'io piangendo il tuo bel nome amplifico.

Certo, questi pastori hanno avuto sempre dieci in latino, e sono stati tutti all'Università.... Paragonate questi dotti vestiti da pastori, agli schietti e veri e vivi contadini di Lorenzo de' Medici!

Sarebbe però ingiusto il negare al Sannazzaro la facoltà [188] che ha, in qualche scena silvestre o rusticana, di darci una serie di graduali impressioni che han del poetico - il senso della composizione, della euritmia, della Symetria prisca. Peccato che egli si compiaccia e si pavoneggi quasi sempre nella imitazione formale, in una specie di trascrizione dai Latini, quasi a sfoggio di saccenteria.

Un valente critico, anche troppo benevolo al Sannazzaro, scrisse che l'Arcadia fu come un sogno per l'autore, e diventa un sogno per il lettore - che i personaggi son quasi tutti fantasmi piuttosto che veri caratteri. Il Sannazzaro viveva nel più luminoso paesaggio d'Italia; aveva sotto gli occhi il golfo di Napoli, Posilipo, Amalfi, Sorrento; e non sa che intravedere uomini e cose, come fantasmi in un sogno! Aggiungete che i personaggi d'Arcadia, questi fantasmi che non sappiamo distinguere, e che non ci interessano, nè ci commovono mai, nè per le loro avventure, nè coi loro lamenti, erano, sotto nomi pastorali, personaggi veri e viventi, amici e parenti del Sannazzaro, che egli ha paralizzato con le sue frasi latine, e mummificato coi suoi periodi boccaccevoli. La poesia che in Dante e nei veri poeti mette la vita anche dov'era la morte - nel Sannazzaro mette invece la morte dov'era la vita; perchè l'arte vivifica, e l'artificio dissecca. Sì, pare incredibile, ma è vero e provato. La insipida pastora Massilia è la Masina, madre del Sannazzaro, da lui tanta amata - Amaranta, è la sua diletta Carmosina - Melisco è il Pontano - Fronimo è Gian Francesco Caracciolo - persone vive e vere, che egli vedeva tutti i giorni, e che egli ha seppellite per sempre nel classico e freddo sepolcro dell'Arcadia.

Se nella poesia e nella prosa, nell'Arcadia e nelle Rime, il Sannazzaro imita continuamente gli antichi, da Virgilio a Claudiano, si può dire che saccheggia addirittura il Boccaccio.

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Anche quando vuol descrivere la sua Napoli, il Sannazzaro non sa far altro che trascrivere dal Boccaccio. Ma il Boccaccio che, nonostante i latinismi e l'artificio, e un certo manierismo, è un gran poeta in prosa, rimane il solo vero ed efficace descrittore di Napoli. Il placido, azzurro, tepido mare di Baia, Posilipo e Castelnuovo, la tomba di Virgilio e Pozzuoli, Cuma e Caprea, ce lo rammentan sempre.

Dopo il Boccaccio, chi ha più sentito e meglio tradotto la poesia di Napoli, è Lamartine. Boccaccio e Lamartine - spaventosa concordia! eppure, o Signori, è così. Quell'incanto molle di Napoli, quello spettacolo unico di cielo e di mare, dove in uno sguardo si vede, dirò così, il fiore della Vita - dove la terra è una festa, e il cielo un paradiso - il sensuale amante della Fiammetta lo sentì come lo spirituale poeta di Elvira. Tatti e due avevano respirato l'aria balsamica e luminosa delle notti napoletane - tutt'e due avean errato sul golfo nell'ora ineffabile in cui la luna declina verso il Capo Miseno, e impallidisce e svanisce tra le prime rose dell'aurora.

Nel Sannazzaro già trasparisce il lato debole, anzi cattivo dell'epoca. Come in Lorenzo e in Leonardo è il lato dialettico, nel Sannazzaro è il lato sofistico del Rinascimento: la cieca idolatria del classicismo, delle regole consacrate e dommatiche, e quello spirito legislativo e dottrinario, che doveva finalmente soffogare l'immaginazione e la libertà individuale, e precipitare fino ai deliri del grottesco e del barocco, i sistematici adoratori del Bello Assoluto. Già fino dalla fine del secolo XV, per molti letterati, ciò che importa non è più cosa s'ha a dire, ma come si deve dire. Una menzogna o una turpitudine in bei periodi Ciceroniani, si preferisce a una verità o a un gran pensiero nel cattivo latino di Abelardo e di san Tommaso. Dei cardinali umanisti raccomandano [190] a dei giovani prelati di non fermare il pensiero sulle orazioni della Messa o sulle parole dei Salmi, per non sciuparsi lo bello stile. Si paganizzano perfino i nomi, e Pietro si muta in Pierio, e Giovanni in Gioviano. Lo scrittore finisce col non dir più quello che pensa, o immagina, o sente - ma pensa solo a delle frasi - vede, non più il mondo immenso della Natura, ma il mondo limitato dei classici, e trascrive servilmente questo, come modello assoluto, e quasi sempre lo sciupa nel riprodurlo. La forza trionfante, l'indifferenza nella scelta dei mezzi pur di riuscire, la bellezza sensuale e voluttuosa, il godimento raffinato e egoistico, divennero un nuovo Vangelo - tanto che la Letteratura e l'Arte, queste due confessioni della Società, ne furon finalmente viziate, infette nell'intimo organismo, e mostruosamente pervertite. E si ebbero per ultima conseguenza, poemi cortigianeschi deliranti e snervanti, drammi da macchinisti, pitture e sculture di Dei senza potenza, di Vergini senza pudore, di uomini senza carattere: Santi che paion facchini e odalische - Angeli che somigliano ad acrobati o a ballerine - moli enormi e insolenti di marmo e stucco sciupati, che si chiamano chiese, palazzi e sepolcri.

Il vizio del Rinascimento dopo il suo primo fiore, fu il culto eccessivo e la servile imitazione delle forme antiche. Finì per non guardar più alla Natura, unica e inesausta sorgente d'ogni Vero e d'ogni Bello; e lo vide solo attraverso i libri: e avemmo una letteratura convenzionale, un accademicismo rettorico. Dante, il gran conciliatore della Natura e dell'Arte, della dottrina e della poesia, fu dimenticato. Poi l'ingegno umano, pazzo d'orgoglio, non imitò più neppure i classici, ma pretese ricavare ogni invenzione dalla propria fantasia, creare senza guardare più nè il Vero nè gli antichi, e avemmo il Marini e il Secento.

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