III. Masaccio.

Masaccio che gli succede ne è una esplicazione ancora più brillante e più completa, e noi entriamo con lui nel periodo vero del secondo Rinascimento, il quale prende a venerare l'antico, dimentica il sentimento religioso [281] puro dell'età precedente; e se rimane nella religione totalmente pel soggetto che tratta, umanizza, rende di forma meno mistica tutti i suoi concetti e progredisce nella via che oggi si direbbe del realismo. Di fatti in quell'epoca si sente già un grande agitarsi di tutte le menti per la scoperta del vero reale, del vero scientifico, mentre nei fondi dei pittori del 300 la prospettiva è messa là in un modo bambinesco, quasi ad esplicazione del soggetto. Si fa per esempio una torricina, ci si mette accanto una porta molto più piccola delle gambe di un cavallo, e di fuori ci si dipinge una cavalcata di ambasciatori molto più grandi della torre della città (e questo è un errore quasi voluto, perchè dovendo questa prospettiva rappresentare degli ambasciatori che andavano in un certo posto, uscendo da una certa città, si doveva far vedere che c'era una città e che erano usciti da una porta, magari più piccola dei cavalli che la dovevano oltrepassare, e non bastando questo magari ci scrivevano sopra il nome della città dalla quale partivano e quello della città alla quale arrivavano). Ma torniamo a bomba: invece nei primordi del 400 abbiamo le menti che si affaticano per cercare la ragione matematica della proiezione delle ombre. Già sappiamo che il maestro di Masaccio fu Brunellesco, e di questi Paolo Toscanelli dal Pozzo, sul quale sta pubblicando un libro con eruditissime ricerche il professore Uzielli. Toscanelli dal Pozzo fu uno dei più grandi matematici dei suoi tempi, ma però per quella universalità di allora su tutto lo scibile umano, era intimissimo amico del Brunellesco, ed a questo insegnava la prospettiva, la quale poi di seconda mano veniva passata a Masaccio. Voi vedete che le cognizioni negli uomini di quei tempi si accomunavano, si affratellavano, si davano la mano l'una coll'altra, e gli artisti sommi del 400, torno a ripeterlo, erano nel medesimo tempo gli uomini più [282] colti dell'epoca loro. Nel quadro - tutto di mano del Masaccio - della cappella Brancacci, nel quale il Cristo circondato dagli Apostoli è interrogato dal pubblicano per ricevere le decime e dove il Salvatore dà ordine a san Pietro di andarle a pescare nelle branchie di un pesce (cosa che sarebbe oggi molto comoda), abbiamo una pittura limpida, chiarissima e una pittura nella quale i piani vanno dal primo all'orizzonte con una degradazione sicura, scientifica. La prospettiva aerea è bellissima: il paese che circonda le figure è tutto al suo posto, e da questo voi vedete che il progresso è evidente, che la pittura non è più mistica, non è più significativa di una sola idea religiosa, ma la storia, anche del Cristo, diventa soggetto per trattare una storia umana. Le passioni, gli affetti si svolgono umanamente, e le figure per conseguenza prendono una precisione derivante dalla tecnica studiata severamente, dal vero cercato nella osservazione non domandato ad alcuna visione rivelatrice. Masaccio, descritto dal Vasari come persona distrattissima, e che per quanto derivasse dalla celebre famiglia dei Guidi di San Giovanni, pur tuttavia fu chiamato Masaccio per la trascuratezza della sua andatura, non potè finire l'opera sua: chiamato a Roma dove lavorò alla Minerva, morì giovanissimo, ed alla cappella già incominciata da Masolino da Panicale diè finalmente mano Filippino Lippi, figlio di frate Filippo Lippi, dato in educazione alla morte del padre a Sandro Botticelli. Uno di codesti affreschi, quello che rappresenta la risurrezione del nipote dell'imperatore per opera di san Pietro, è un affresco misto, e dipinto in parte da Masaccio, in parte da Filippino; di faccia abbiamo un affresco tutto di Filippino, al di sopra abbiamo l'affresco tutto di Masaccio, e più in alto gli affreschi già compiuti da Masolino da Panicale. Sarebbe difficilissimo oggi trovare tre artisti i quali potessero fare convenientemente la decorazione [283] intiera ed unica d'una cappella facendo ciascuno un quadro per conto proprio: impossibile quasi direi che nel medesimo affresco potessero dipingere due artisti senza darsi noia uno coll'altro. Ora io di questo fatto tengo conto perchè mi sembra importantissimo per spiegare come l'indirizzo degli studi, la buona fede colla quale un artista dava mano all'altro, la comunanza di idee nella quale vivevano, facesse sì che si potesse avere un'opera perfetta, ed un'opera triplice ed una nello stesso tempo.

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