LA SCULTURA del RINASCIMENTO

DI

VERNON LEE.

La scultura dell'antica Grecia e la scultura del medioevo italiano sono rami della stessa arte; ma del tutto divergenti: anzi, direi quasi, formano due arti diverse. Ciascuna di esse ha rivelati all'umanità eguali tesori di bellezza, ma l'una copiò mirabilmente una bella realtà; mentre l'altra prese l'imperfetto e il brutto, e riuscì a formarne bellezza. L'una è l'arte meridionale, pagana, del modellatore in creta; l'altra l'arte nordica cristiana, dell'intagliatore di pietra.

Prima di esaminare le opere, esaminiamo il modo di operare. E prima di considerare che cosa l'antico greco e l'italiano del medioevo furono rispettivamente chiamati ad imitare e ad esprimere, guardiamo la necessità e la capacità del materiale in cui ciascuno di essi imitò quel che vide ed espresse quel che sentì.

I Greci primitivi avevano raramente occasione di farsi abili intagliatori di pietra. Gli edifizi loro come quelli che ritraevano le forme di costruzioni primitive e semplicissime in legno, ne avevano anche i rozzi elementari ornamenti, poichè l'ordine Jonico, per quanto povero di ornamenti, non venne che più tardi, e il Corintio, il quale solo dà luogo alla ricerca e all'abilità degli intagli, nacque soltanto quando era pervenuta già alla sua maturanza l'arte di scolpir la figura. Ma i Greci, i quali [294] del resto erano appena entrati nel periodo del ferro (e il ferro è appunto lo strumento per lavorare la pietra) erano grandi modellatori di creta e fonditori di bronzo. Gli oggetti che le età più recenti fecero in ferro, pietra o legno furono da loro foggiati in creta o in bronzo. Stanno a dimostrarlo gl'innumerevoli arnesi, armi e minuti oggetti dei nostri musei: - dagli schinieri accuratamente modellati come le gambe che devono coprire, fino alle bambole di terracotta, piccole Veneri dalle braccia articolate e coi ligamenti di spago.

E veramente quando i Latini applicarono alla scultura il verbo fingo, che significa in realtà fare vasi, - e dalla quale ci viene non solo effigies, ma anche fichtlis, - parrebbe avessero capito che nell'arte di Fidia e di Prassitele poco entrava l'intagliare ed il cesellare, e molto invece il formare, il modellare, il plasmare. Poichè, oltre al fatto ogni giorno più confermato dall'archeologia, che, cioè, la maggior parte delle statue antiche ora in nostro possesso, sono copie in marmo di originali in bronzo, fatto rivelatoci anche da puntelli di esse e dal trattamento dei capelli; è evidente che anche le statue destinate ad eseguirsi in marmo, vennero prima modellate, cioè concepite dallo scultore, in creta.

Riassumendo: dai Greci la figura umana s'imitava con un processo, che non fu scultura nel senso letterale della parola. Rivolgiamoci ora a considerare il medioevo, e troveremo uno stato di cose totalmente diverso. Non v'era nella vita quotidiana bisogno di oggetti in metallo fuso, e non essendovi questo bisogno dell'arte del fondere, del far di getto, non vi era nemmeno pratica nell'arte preliminare del modellare in creta. Ma invece gli uomini del medioevo furono meravigliosamente abili nell'intagliar la pietra.

L'architettura, fino dai Romani, aveva dato più importanza all'ornamentazione scultoria: - sempre squisita [295] nei capitelli, nelle ringhiere, dei primitivi tempi Bizantini si manifestò nelle elaborate cornici, negli archi e nelle colonne dello stile Lombardo fino ai complicati gruppi e rilievi del Gotico pienamente sviluppati. E in verità la chiesa gotica, particolarmente in Italia, non era più lavoro di muratore, ma di scultore. Non è dunque fortuita combinazione se quei paesetti, i quali forniscono ancora Firenze di pietra e di scarpellini, hanno dato il nome a tre de' suoi più grandi scultori (Mino da Fiesole, Benedetto da Maiano, Desiderio da Settignano); nè Michelangiolo, allevato in quel paesetto (Chiusi di Casentino) “per tutto pieno„ dice il Vasari “di cave di macigni, che son lavorate di continovo da' scarpellini, scultori che nascono in quel luogo„, abbia potuto vantarsi d'aver tirato dal latte della balia gli scarpelli e il mazzuolo con che faceva le sue figure.

I Toscani del medioevo, i Pisani del '200, i Fiorentini del '400, facevano certamente modelli in cera delle loro statue; ma le opere loro sono concepite per essere poi lavorate nel marmo; e quest'arte è uscita dal sasso, senza interposizione d'altro materiale, - come le figure che Michelangiolo traeva viventi e gigantesche direttamente dal macigno.

I Greci, dunque, in quel tempo primitivo in cui l'Arte prende il suo abbrivo, erano modellatori di creta e fonditori di bronzo; i Toscani, invece, nel periodo corrispondente, erano cesellatori d'argento, battitori di ferro, ma sopratutto tagliatori di pietra. Ora la creta (e bisogna rammentarsi bene che il bronzo non è che il calco della creta) significa il piano modellato; l'imitazione di tutti i rilievi e di tutte le depressioni delicatamente graduate del corpo umano; la creta non presenta contrasti fra luce e ombra, non permette varietà nel trattamento corrispondente alla varietà dei tessuti. La creta si presta quindi ad imitare non la tessitura del corpo umano, ma [296] la forma; e la forma poi nell'assoluta realtà tangibile della natura.

Tutto l'opposto accade col marmo. Granulato come fibra vivente e capace allo stesso tempo di una delicata spulitura, il marmo può riprodurre la vera sostanza del corpo umano colle sue varietà d'opaco e di lucente. Può riprodurre, sotto ai variati colpi dello scarpello, quelle ombreggiature correnti ora in un senso, ora nell'altro, secondo che la pelle riveste il muscolo o l'osso. Il marmo inoltre è così resistente e insieme così docile al ferro, che può prendere i contorni più squisitamente sottili; e si presta all'incisione più superficiale ed al taglio più profondo, in modo che la luce e l'ombra diventano il materiale dell'artista quanto la pietra stessa. Quindi il marmo consente allo scultore di cercare non solo la forma assoluta, ma la forma relativa; non solo il rilievo, ma anche il chiaroscuro. Tali erano i caratteri fondamentali di quei due generi diversissimi di scultura, la scultura in creta e la scultura in marmo, che in circostanze diversissime di vita e di pensiero, Greci e Toscani trattarono, per produrre opere di indole e di bellezza diversissime.

È inutile che ci dilunghiamo sulla influenza esercitata nell'Arte dalla civiltà antica, coi suoi costumi e caratteri essenzialmente meridionali, colla sua vita all'aria aperta, colla sua perfettissima educazione del corpo, coi suoi atleti nudi, i togati suoi cittadini ed i suoi contadini ed artigiani pochissimo vestiti, e sopratutto colla sua religione di divinità conviventi coi mortali e di semidei dalla poderosa muscolatura; come è inutile che, d'altra parte, ci dilunghiamo sull'influenza della vita assai più complessa del medioevo, vita di tipo nordico anche nei paesi meridionali, vita industriale, sedentaria, che costringeva la gente nelle angustie delle città murate; ed in cui primeggiò sempre, nonostante la sensuale grossolanità, la [297] preoccupazione dell'anima, l'ideale del patimento, il disprezzo del corpo.

Tutto questo è oramai ovvio ed anche esagerato da tanti scrittori invaghiti della teoria del milieu (ambiente o mi-luogo) introdotto da Enrico Taine meno per la sua verità che per l'occasione che porge di tratteggiare pagine colorite. Ma vorrei richiamare la vostra attenzione su di un'altra circostanza storica, che ha influito potentemente sulle differenze tra la scultura medioevale italiana e la scultura antica. Questa circostanza è il primato della pittura nella seconda metà del medioevo italiano. Mentre nell'antica Grecia la scultura fu l'arte dominante e matura, della quale la pittura non fu che l'ombra; nell'Italia medioevale invece la pittura fu l'arte che meglio corrispose ai bisogni della civiltà; fu l'arte che superò i più ardui problemi tecnici e scientifici, e fu quindi quella che dovette primeggiare. Si può asserire in senso quasi letterale che la pittura greca non fosse che l'ombra della scultura. Sui vasi e negli affreschi vediamo infatti le figure modellate con moltissima cura anatomica (al punto, per esempio, di accennare qualche volta la giuntura fra la gamba e la coscia con due linee che non esistono nella visibile realtà, e che sembrano segni di tatuaggio), - ma senza consistenza, vuote, ed allineate simmetricamente l'una accanto all'altra, senza comporsi in un disegno vero, precisamente come se fossero tante ombre di statue tonde proiettate sul piano. Lo scultore non poteva imparare nulla di nuovo da una simile pittura, che non si occupa delle cose più essenzialmente pittoriche, la prospettiva, l'aggruppamento, il contorno lineare, il valore relativo dei colori, il chiaroscuro ed il tessuto degli oggetti. La pittura medioevale, arte positiva, agisce in ben altro modo da quest'arte negativa che fu la pittura antica. Esaminiamo che cosa essa portò di nuovo nel campo dell'osservazione e della [298] pratica artistica. In primo luogo, la superficie piana, muro o tavola, in cui l'arte medioevale mostrò la sua maggiore originalità, insegnò agli uomini a dar valore alla prospettiva, ad ordinare gruppi nei vari piani, ed a studiare l'insieme, sotto il rispetto delle opere intelligibili quanto sotto quello della bellezza, delle figure così raggruppate. Poi li abituò a considerare la forma non più come un insieme di proiezioni, di rilievi, di piani, ma come linea, come alternativa di luce e d'ombra, il cui pregio principale consisteva nella sagoma esterna, nel profilo dell'intreccio di linee, d'angoli e di curve; cosa assai più importante nella pittura, col suo unico, immutabile punto di vista, che nella scultura, dove l'occhio, girando intorno alla forma, si compensa della povertà di un punto di vista colla varietà di tutti gli altri. Di più, la pittura, nata da un interesse più sviluppato di quello che sentisse l'antichità pel colore, la pittura, dico, indusse gli artisti a considerare meglio l'effetto del colore sulla forma lineare.

Poichè, sebbene l'uomo, fatta astrazione dal colore naturale o da una tinta bianca, abbia infatti quella forma larga ed alquanto smussata, quell'indecisione di contorni che caratterizza la scultura; tuttavia quale egli esiste realmente, coi capelli, gli occhi e le labbra fortemente coloriti, ed il resto del viso colorito di tinte diverse, acquista dal colore - il quale dà enfasi alla linea - una maggior precisione, direi piuttosto, una maggiore acutezza di forme lineari. Per ciò, nel modo istesso, in cui la prospettiva e la composizione in pittura dovettero indurre gli scultori ad usare maggiore complessività nel rilievo e maggiore unità nel punto di vista, così pure la nuova importanza del disegno e del colore, dovette suggerir loro un nuovo concetto della forma.

L'uomo cessò dunque d'essere una mera combinazione di piani e di masse, cessò d'essere omogeneo nel tessuto [299] e nel colore. Si accorsero ch'era fatto di sostanze diverse, pelle - pelle morbida dove aderisce al muscolo, dura e lustra dove accenna l'osso, pelle liscia o rugosa o pelosa; pelo poi duro o floscio, nero o biondo; inoltre ch'era pinto in vari colori, e che possedeva ciò che i Greci sembra non avessero avvertito, quella cosa straordinaria e straordinariamente variabile che è l'occhio. Gli scultori del '400 furono spinti dai pittori a riconoscere queste differenze fra l'uomo monocromo dei Greci - monocromo per l'astrazione del vero colore - e l'essere multicolore che è l'uomo vero.

Avvertite queste differenze, vollero significarle nell'opera loro. Ma come avrebbero potuto conseguir l'effetto colla loro arte che tratteggiava il rilievo tangibile, e che ricusava l'aiuto del colore?

Per capirlo bisogna fermarci a considerare di nuovo, e più attentamente, due particolarità capitali, che distinguevano gli scultori medioevali da quelli antichi.

Gli artefici del medioevo, in primo luogo, erano chiamati assai di rado a fare figure da essere poste all'aria aperta su un piedistallo libero. Invece, erano continuamente esercitati a scolpire ornamenti architettonici da porre in alto e profilati su di uno sfondo scuro; e monumenti, tombe, pulpiti, ringhiere, da collocare in locali parzialmente illuminati e spesso oscuri.

Ora, secondo l'altezza dell'oggetto e la direzione della luce, certi particolari acquistano o perdono la loro importanza; per restituire la relazione vera fra linea e linea, rilievo e rilievo, bisogna tener conto della posizione e del punto di luce; bisogna, perchè la cosa faccia lo stesso effetto che al livello dell'occhio e sotto una luce diffusa, alterare le proporzioni, accrescere qua, scemare là, introvertire alle volte il concavo ed il convesso, sacrificare il vero all'apparente.

I monumenti gotici, per esempio quelli di Santa Maria [300] Novella, che sporgono dal muro all'altezza di un primo piano di casa, non presenterebbero che una confusione indecifrabile, se la figura sdraiata ed i suoi accessorî non fossero alterati in modo da sembrare mostruosi a chi s'arrampicasse a vederli da vicino. Lo stesso segue nell'arte sviluppatissima del '400. Il Cardinale di Portogallo - figura del Rossellino a San Miniato al Monte - ha una metà del viso voltata soverchiamente all'insù, in modo da ricevere in faccia la luce; e ciò perchè, essendo visto dall'ingiù, la metà più vicina del viso avrebbe altrimenti un'importanza relativamente troppo grande; mentre, all'opposto, al bellissimo guerriero morto, d'autore incerto, che è a Ravenna, lo scultore ha deliberatamente tagliata una parte della mascella, perchè lo spettatore deve guardare all'ingiù la figura sdraiata su un lettuccio basso di marmo. Se prendiamo i gessi di queste due statue, ponendo sulla tavola quella del Cardinale, ed attaccando sul muro quella del guerriero, la composizione si sfascia completamente: l'espressione cambia affatto, i lineamenti diventano deformi, e mentre l'una testa diventa grossolana, l'altra sembra insoffribilmente manierata.

Per intendere questo sistema, d'alterare la forma a seconda della collocazione e della luce, basta rammentarsi l'aneddoto delle due cantorie di Donatello e di Luca della Robbia, di cui la prima parve brutta nella bottega dello scultore, ma bellissima messa al posto; mentre la seconda, che era piaciuta straordinariamente veduta da vicino, scomparve del tutto nell'altezza buia di Santa Maria del Fiore.

Quest'abitudine di prendere delle licenze col modello, di alterare le proporzioni misurabili all'occhio, abitudine cominciata per ragioni quasi architettoniche, permise agli scultori del '400 d'imitare i pittori, cercando, come questi, la verità apparente, col sacrificio coraggioso della verità [301] assoluta e concreta. Aprì alla scultura il campo vastissimo degli effetti relativi; l'incoraggiò a produrre, colla materia dura ed incolore, l'equivalente della varietà nel colore e nel tessuto.

Ma per secondare questo nuovo indirizzo dell'arte, era necessario che gli artefici del '400 trattassero la parte tecnica in un modo diverso affatto da quello dei Greci.

Gli antichi, a' quali abbondavano ottimi gettatori in bronzo, esercitati nel foggiare armi, utensili e arredi d'ogni genere, dovettero prendere l'abitudine di circoscrivere la loro personale operosità al modello in creta: giacchè questo non richiedeva, come nel Rinascimento, la sorveglianza costante dello scultore. E le liste lunghissime di statue, di cui molte costruite faticosamente d'avorio e d'oro, dànno a credere che gli scultori antichi non perdessero il tempo sbozzando i lavori in marmo, ma invece terminassero soltanto di propria mano le copie che dal modello in creta avevano tratto lavoranti espertissimi. Che ci fossero simili copiatori, lo sappiamo dall'uso di fare riproduzioni in marmo delle statue già fuse in bronzo, uso a cui dobbiamo la maggior parte delle statue antiche pervenute a noi.

Le abitudini erano diversissime da queste nel medioevo italiano. È vero che il Vasari consiglia allo scultore di valersi di modelli grandi quanto le statue che si propone di fare. Ma il consiglio stesso, fatto per scansare i calcoli sbagliati, che spesso rovinano il marmo, fa vedere che prevaleva l'abitudine di sbozzare la pietra senza tener conto di questo pericolo; che anzi, se l'uso dei modelli grandi fosse stato universale, Agostino di Duccio non poteva avere storpiato, come dice il Vasari, il marmo da cui Michelangelo cavò più tardi il suo David. Ma questi modelli di cui parla il Vasari più distesamente nella vita di Jacopo della Quercia, erano fatti “di pezzi di legno e di piani confitti insieme, e fasciati poi di fieno [302] e di stoppa, e con funi legato ogni cosa strettamente insieme, e sopra messo terra mescolata con cimatura di pannolano, pasta e colla„ onde potevano bensì servire a tenere “innanzi agli scultori l'esempio e le giuste misure„, ma era impossibile che servissero mai, come i modelli di gesso puntati del giorno d'oggi, a francare l'artista dallo sbozzamento del marmo. Anzi, tutto ciò che scrive il Vasari dimostra chiaramente che il modello vero - quello cioè che veniva copiato non nelle sole misure - era piccolissimo e fatto in cera; e che l'abitudine di sbozzare le figure nel marmo, che a noi sembra cosa maravigliosa nel Buonarroti, era generale fra gli scultori del '400. È frequente il caso di uno scultore che intraprenda, coll'aiuto di un solo uomo, lavori di vastissima mole, porte, archi, mausolei. Nè pare che il Vasari stupisca quando Jacopo della Quercia si mette, solo solo, alla facciata di San Petronio; lavoro che gli costò dodici anni, in cui un Greco avrebbe fatto chi sa quanti bronzi magnifici ed un moderno chi sa quante meccaniche copie di un gesso. Infatti non rimane nulla d'inverosimile in questo sistema di lavorare il marmo interamente e direttamente da sè, quando si rifletta che tra gli scultori del Rinascimento una metà aveva esercitato la professione dell'orafo, e l'altra l'arte dello scarpellino o squadratore di pietre; e a tali artefici doveva riuscire facile e naturale egualmente qualunque parte - sì rozza che finissima - dell'arte loro.

Gli scultori del '400 avevano adunque dello scarpello una sicurissima pratica, quale non ebbero, nè sognarono pur d'averla, gli antichi.

Nelle mani loro lo scarpello non era semplicemente un secondo stecco da modellare, riproducente nel marmo i delicati piani, le sottili concavità e convessità trovate prima nella creta.

Per questi tagliapietre della collina fiesolana, per questi [303] orafi di Ponte Vecchio, lo scarpello era l'emulo della matita o del pennello; e con esso, a seconda della direzione che gli si dava, potevansi così imprimere nelle forme vigorosi tratteggi, come lasciarle svanire in impercettibili sfumature. O, per meglio dire, lo scarpello era per essi un pennello tuffato nelle varie tinte del bianco e del nero, con cui, secondo che versava nel marmo le luci e le ombre, o variava a guisa di spennellate le ruvidezze e le spuliture e ogni altro modo d'intaglio, potevansi riprodurre nella pietra la sostanza delle carni, dei capelli e delle stoffe - le carni e i capelli biondi e lisci dei bambini - le carni vizze o ruvide dei vecchi - le stoffe di lana, di tela e di broccato.

Nell'antichità greca lo scultore soleva prendere il bel modello - l'adolescente nel fiore dai quindici ai diciott'anni, dalle membra sviluppate armoniosamente nella palestra, all'aria aperta; e, correggendo colla esperienza giornaliera di simili bellezze tuttociò che v'era d'imperfetto nell'individuo, ne copiava quel tanto che la creta si prestava a riprodurne. Ne riproduceva le squisite proporzioni, la maestosa ampiezza delle masse, la delicata finitezza delle membra, l'armonioso gioco di muscoli, il sereno candore del volto e del gesto; ponendolo in atteggiamento tale da essere inteso e ammirato egualmente da lontano e da vicino, e dal maggior numero di punti di vista. E cotesta fedele copia nella creta di un originale perfettamente bello, veniva poi tradotta e trasmessa ai posteri dal fedele copiatore in marmo, dalla fedeltà inesorabile del bronzo, che riempie ogni minimissimo vuoto lasciato dalla creta. Essendo bellissimo in sè stesso, quest'uomo di bronzo o di marmo era necessariamente bello ovunque venisse posto e sotto qualunque rispetto venisse contemplato; sia che si mostrasse in iscorcio sul frontone di un tempio, o al livello dell'occhio, [304] ombreggiato dagli aggruppati allori, o splendente al sole in mezzo alla piazza. La bellezza di esso viene apprezzata ed amata come s'apprezza e si ama la bellezza vivente di una creatura umana, poichè egli non è che la riproduzione più esatta che l'arte ci abbia mai data della bellissima realtà, posta in mezzo al suo vero ambiente e sotto la vera luce del cielo. E siccome prende nuovo aspetto la bella realtà umana secondo che si muovono il sole e le nuvole, secondo che le giriamo noi intorno, così cambia anche esso; ma così pure esso rimane sempre, nonostante tutti i cambiamenti, la personificazione della forza, della purezza, della inalterata serenità dell'adolescenza.

Di cotale perfezione, nata dal più raro incontro di circostanze felici, la scultura del '400 non seppe mai nulla.

Arte secondaria in tempi, che davano il primato alla pittura; serva, in gran parte, dell'architettura; turbata dalla vista di corpi cresciuti a caso, e spesso cresciuti male; turbata pure da ideali ascetici e da curiosità scientifiche, la scultura di Donatello e di Mino, di Jacopo della Quercia e di Benedetto da Majano, la scultura dello stesso Buonarroti fu una di quelle fioriture artistiche, che si nutrono degli elementi del terreno rifiutati dalla più fortunata e rigogliosa vegetazione, che l'aveva preceduta. La scultura del '400 riuscì da meno in tutte le cose in cui la scultura antica era riuscita; ma eseguì ciò che l'antichità aveva lasciato ineseguito. Ebbe pochissima intuizione della bella forma umana. Alternava fra la ignoranza del nudo e la insistenza pedantesca sull'anatomia, difetti spesso riuniti nella medesima opera. Paragonato all'antico, il David di Donatello, il San Giovannino di Benedetto da Majano, l'Adamo di Jacopo della Quercia sono addirittura goffi; e lo stesso Bacco di Michelangelo è un bel villano invece che un dio.

[305]

Questa scultura ha di più una vera preferenza pei momenti meno belli della vita fisica: ama i brutti vecchi - spesse volte sfasciati dalla sensualità o rimbecilliti dall'ascetismo, - ed i ragazzi sproporzionati dalla crescenza. Coll'eccezione del San Giorgio di Donatello, il cui corpo però è nascosto sotto la pesante armatura, essa non ci presenta mai la squisita vigoria dell'adolescenza.

Questi particolari si avvertono subito; e chi è avvezzo all'arte antica, si sente subito respingere da quest'arte medioevale.

Ma osserviamo la scultura del '400 quando fa ciò che l'antichità non aveva neppur sognato: l'antichità che collocava le statue sui frontoni l'una accanto all'altra, ad equilibrarvisi come massa, ma non mai ad intrecciarvisi in veri disegni; l'antichità che fece del rilievo la ripetizione d'un lato solo della statua in tondo, l'ombra del gruppo del frontone; l'antichità che nei suoi bei tempi non conobbe nè il patetico della vecchiaia, nè la grottesca bellezza dell'infanzia, nè la graziosa goffaggine della prima adolescenza; l'antichità che non seppe distinguere la consistenza della pelle, la setosa morbidezza dei capelli, il colore dell'occhio.

Passiamo ora a considerare alcuni lavori tipici del '400.

Cominciamo dalle statue e dai busti di bambino. Ecco prima la creaturina i cui piedini escono da una specie di ghetta carnosa, le cui gambine, senz'ossi, appena sorreggono il ventre grassotto, la testolina non bene proporzionata. Notate che in questa testolina il cranio apparisce sempre relativamente morbido, della consistenza d'una mela, sotto le floscie matasse bionde. I fratellini maggiori sono tuttora assorti in vaga contemplazione del mondo e delle cose, cogli occhi largamente aperti, ma facilmente imbambolati. Quelli un po' più grandicelli, [306] invece, hanno già scoperto che il mondo è fatto di gravità da scombussolare: i lineamenti del viso sono appena più sentiti, i capelli sono appena inanellati in vetta, ma gli occhi pare che siano usciti di sotto la tettoia della fronte, l'occhio e la fronte sono già nella vera proporzione: e poi nelle gote ci sono delle fossette venute, si direbbe, dal ridere, e che invitano ai pizzicotti. I ragazzi dai dodici ai quattordici anni, hanno sempre quelle braccia magrissime che contrastano deplorevolmente coi polpacci delle gambine ancora impotenti a sostenere il ventre piccolo, ma grasso, e che accenna agli abbondanti pasti dell'infanzia, continuati nell'adolescenza. Ma hanno, allo stesso tempo, la monelleria (gaminerie) gagliarda del David del Verrocchio, il quale dovette, insieme alla pietra, scagliare qualche canzonatura addosso a quella goffaggine di Golia; oppure hanno, come il San Giovannino del Louvre e quello di Benedetto da Maiano, una certa grazia sentimentale, quasi una civetteria delicata di bella signorina, che fa capire come fra poco smetteranno il baloccarsi per leggere la Vita Nuova, o le Rime del Petrarca. Due San Giovanni, d'altra parte, hanno preso, cogli anni, un andamento diverso. Sono ambedue di Donatello. Quello più giovane, dalla prima, dubbiosa lanugine sul volto, è già scappato inorridito dalla Vita Nuova e dal Decamerone, prima d'averne voltato una pagina. Estenuato dal digiuno, non ha di muscolare che le gambe, diventate di ferro a furia di scorrere i deserti. Del resto, anche nei deserti ha cominciato ad essere infastidito da voci e da visioni, non si sa se d'angeli o di diavoli; e cammina furiosamente, cogli occhi fissi sullo scritto, colla mente distaccata, a quanto pare, da ogni cosa terrestre; si direbbe che facilmente potesse impazzire, questo santo ventenne. Eccolo di nuovo, ritratto nel bronzo che è a Siena, quel San Giovanni, ma oramai maturo; ha la barba e i capelli [307] incolti, è diventato quasi un selvaggio delle foreste, ma colla gravità e la fede in sè del predicatore di professione: è uscito dal deserto, ha domato ogni tentazione; il suo fanatismo è militante, direi quasi sistematico.

Passiamo ad altro.

Questo vecchio - lo Zuccone di Donatello - non può mai essere stato quel San Giovanni, ma facilmente sarà stato un suo devoto. È un vecchio che non è stato mai cospicuo per intelligenza; ed ora la testa, fatta a cupola, ha ripreso, colle floscie matasse bianche, che richiamano l'infanzia, quell'apparenza di poca sodezza che è propria del cranio infantile; la bocca poi è già tremula, cascante, forse per una prima paralisi; e gli occhi non fissano più; ma in questo deperimento fisico e intellettuale, il vecchio sembra essersi riempito di sempre maggior dolcezza morale: è un Giobbe riconciliato con Dio, perchè fatto indifferente a sè stesso, è il fiore umano sfasciato in terra, per essere poi riseminato in cielo.

Coteste sculture, per quanto destinate ad un determinato posto, nicchia o mensola, sono sempre sculture libere, non legate all'architettura. Rivolgiamoci adesso alle sculture d'intenzione decorativa. Guardiamo prima l'Annunziata di Donatello che è a Santa Croce. La pietra bigia, vilissima, incapace di pigliare un contorno netto, è scolpita in larghe masse quasi grossolanamente, e per supplire le sottigliezze d'intaglio impossibili in quella materia, il fondo, i fregi, gli orli dei vestiti, le ali dell'angelo, sono ritoccati coll'oro: quella cosa ruvida finisce con essere squisita. Del resto, notate l'esterno contegno, l'assenza dell'estasi, della sorpresa, dell'espressione solita in quel soggetto: l'Angelo e la Madonna serbano il decoro, la serietà delle linee architettoniche, dei vicini pilastri. Passiamo a guardare la Cantoria di [308] Donatello, rilievo bassissimo su fondo intarsiato; quei gruppi schiacciati di bambini danzanti formano, colle larghe ombre fra le braccia alzate sopra il capo, una specie di pergolato umano in bianco e nero. Questo lavoro è basato tutto sulle ombre; guardiamone uno in cui l'ombra entra appena: la Madonna coi Santi, di Mino, nel Duomo di Fiesole. Il rilievo è voltato in modo da guardare dalla cappella nel corpo della chiesa; ed in tal modo che la testa della Madonna, ricevendo la luce - come un segno di gloria - sulla purissima lucente fronte, proietta intorno a sè un nimbo d'ombra circolare. Rilievo maraviglioso, cotesto di Mino, per essere composto quasi esclusivamente di luci. Anzi, si direbbe non rilievo, ma mirabile visione di bianche rose del Paradiso, i cui acerbi bocci e le acute spine (nutriti dall'incenso e dal sangue dei martiri) sono diventati poi le sottili labbra, gli occhi lunghi e stretti, l'acerbo virgineo corpo e le dita affilate di Maria.

Questi rilievi sono relativamente semplici. Guardiamo invece le complessità del pulpito di Santa Croce, dove il gruppo è involuto nel gruppo, per svanire nei porticati e nei filari d'alberi appena profilati dello sfondo. Guardiamo le magnifiche composizioni, a razzi, si direbbe, tessuti di luce e d'ombre, ed incorniciate da immortali ghirlande, delle porte del Ghiberti.

Ma non è tutto. L'arte del Rinascimento, non si contentò d'aver messo in marmo l'uomo vero, fatto di carne e d'ossa, dal pelo biondo o scuro, dall'occhio chiaro o cupo; ma volle pure, prima di sparire dal mondo, scolpire nella pietra l'intangibile sogno. Parlo di quelle tombe le cui cime sono trono a fantasmi di guerrieri e i cui ripidi fianchi sono letto inquieto a divinità che sembrano emergere non dal marmo, ma dalla tenebra e da quella luce, come dice il profeta, che è simile alla tenebra.

[309]

Share on Twitter Share on Facebook