Però, dopo avere enumerati tanti difetti, non si può negare al Marino di aver portato qualche cosa di suo e di buono nella poesia italiana; ed è, a mio creder, una seducente musicalità, per cui fu detto che egli deve considerarsi come il vero ispiratore di Pietro Metastasio, che trovò poi modi e forme così confacenti allo svolgersi della melodia italiana nel secolo passato. Veramente io questo particolare merito al Marino non mi pare [309] che con giustizia possa esser fatto. Maestri di Metastasio furono piuttosto i greci e Torquato Tasso, della cui indole tanto egli risentiva, della cui più sobria e più nitida musicalità tanto hanno impronta i suoi versi, massime dove, lasciato il movimento degli sciolti, si riassumono e si condensano in quelle eleganti strofette, le quali così a ragione ci sorprendono per quella che il poeta chiamava “la sua difficile facilità.„
Ad ogni modo nel poetare di Gian Battista Marini c'è veramente qualche cosa di nuovo; c'è una gamma musicale che la poesia italiana può vantare come una nuova conquista:
Io chiamo te, per cui si volle e muove
La più benigna e mansueta sfera,
Santa madre d'amor figlia di Giove,
Bella Dea d'Amatunta e di Citera
Te la cui stella, onde ogni grazia piove,
De la notte e del giorno è messaggera,
Te lo cui raggio limpido e profondo
Serena il cielo ed innamora il mondo.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Dettami tu del giovinetto amato
Le venture e le glorie alte e superbe;
Qual teco in prima vissi, indi qual fato
L'estinse e tinse del suo sangue l'erbe,
E tu m'insegna del tuo cor piagato
A dir le pene dolcemente acerbe,
E le dolci parole e il dolce pianto;
E tu de' cigni tuoi m'impetra il canto.
E tutta quella pròtasi del poema è veramente [310] una magnifica sinfonia. A quest'onda melodiosa il senso del lettore si lascia trascinare e volentieri oblia.... Tante cose oblia!
Oblia per esempio la finezza più riposta, ma tanto più pregevole dei variati e melodici atteggiamenti che i poeti avevano saputo indurre nei loro versi. Non c'è più quella indefinita, varia, libera accentuazione che tanto piace nei trecentisti e nei quattrocentisti. Si direbbe che il Marino è come il precursore di certi musicisti superficiali del suo paese, e che con un mezzo solo, al par di essi, egli vuol trascinare e conquidere il sentimento del suo lettore.
Un altro pregio è certo la affettività, la esuberanza del sentimento tutta meridionale che trabocca dall'animo del Marino, massime quando descrive certi affetti e certe commozioni di un'indole, a dir vero, non nobilissima. Talvolta egli ha realmente una foga di sensualità che nessun poeta italiano aveva ancora raggiunto. E qui vi chiedo, o signore, che mi crediate sulla parola anzichè indurmi a citarvi degli esempi!
Dopo avere emulate le pagine soavissime, seducentissime del suo conterraneo il Pantano che, per dir vero, aveva stracciato quasi tutti i veli che cuoprivano l'amore, Giovan Battista Marini, volendo mantenere il primato fra i poeti del suo tempo, non poteva mancare ad un assunto, che [311] era ancora, pur troppo, obbligatorio dinanzi al pubblico italiano. Anch'egli, il poeta lirico che tutti i paesi acclamavano ed invidiavano all'Italia, non si sentiva completo se non impugnando l'epica tromba, dando all'Italia il suo poema epico.
Tutti già da tempo l'aspettavano. Ed egli lasciava dire promettendolo; e di mano in mano faceva vedere con molta diplomazia qualche saggio di quello che sarebbe stato il suo lavoro, enunciandolo come il coronamento dell'edificio. E venne l'Adone. Ed è appunto in questo poema, o signore, che appare manifesta la grande deficenza di questo poeta; e la grande sproporzione che esistè fra la sua fortuna e il suo merito.
La macchina dell'Adone è tuttociò che si può pensare di più frivolo e di più meschino. Tutto si riduce alle peripezie ed alle avventure amorose della Dea del piacere col giovinetto figlio di Mirra. E poichè da questo magro idillio non si poteva cavare un poema, se non gonfiandolo ed imbottendolo in tutti i sensi, così la macchina è ingrandita ed allargata introducendo le più strane e futili immaginazioni che mai si possano escogitare dalla mente di un poeta perdigiorni.
E non crediate che per questo il Marino declinasse da nessuna pretesa degli epici suoi contemporanei e predecessori. Egli crede di aver fatto un vero poema epico in tutta la serietà [312] della sostanza e con tutte le grazie della forma. A nulla egli rinuncia; nemmeno al concetto dell'allegoria. Voi sapete che al Tasso, fatta la Gerusalemme Liberata, i suoi critici dicevano: non c'è poema epico perfetto, se non ha la sua allegoria, che dia ragione dell'insieme e di tutte le sue parti. Dov'è la allegoria della Gerusalemme? E il povero Torquato dovette stillarsi il cervello e contentarli!
Al suo poema il Marino diede dunque un'allegoria; e la diede eminentemente morale. Ci voleva davvero tutta quanta la sua sfacciataggine! Il poema è tessuto di scene tutt'altro che eccellenti per morale austerità, come potete immaginare; ma egli sa così bene trar partito dalla disinvoltura del suo ingegno che riesce a cavar fuori delle formule morali da quel soggetto.
Per esempio, al canto VIII vi descrive le più intime scene d'amore tra i due eroi del poema. Immaginate voi di che possa trattarsi. Ebbene: anche il canto VIII ha in testa la sua brava allegoria, così spiegata dal Marino:
Il Piacere, che nel giardino del Tatto sta in compagnia della Licenza, allude alla scellerata opinione di coloro che danno al Senso una indebita signoria sulla Ragione.
Il che ci fa pensare a quel gesuitismo artistico tanto di moda a quel tempo, in virtù del quale si dipingevano, per esempio, delle Veneri licenziosette [313] anzi che no e poi, messoci accanto un teschio di morto, si facevano passare per Maddalene pentite e penitenti. A che non s'arriva sottilizzando e distinguendo? Ricordiamoci di quel frate che trovandosi di venerdì con avanti un cappone arrosto sclamava: baptipzo te carpam! E battezzatolo per pesce se lo mangiava con la coscienza tranquilla.
Il fatto è che viene un senso di profondo dolore a pensare come la materia epica, così nobilmente materiata di spiriti cavallereschi dall'anima di Torquato Tasso, potesse cadere tanto in basso. Veramente fa pena il doverlo dire, ma bisogna pur dirlo. Ogni paese, ha il poema che si merita; e se l'Adone è il poema delle classi colte dalla società italiana del Seicento, è forza convincersi che queste classi erano troppo scadute e meritavano e doveano aspettarsi ogni peggior castigo.
Vi basti sapere, o signore, che quest'eroe, di cui nella protasi il poeta si propone di cantare le gesta “alte e superbe„ in sostanza non ha che due sentimenti che in lui prevalgono: la cupidità e la paura.
La paura di Adone è descritta dal Marino con termini che fanno stupore veramente, perchè non si intende come mai il poeta non abbia avuto l'accorgimento di dissimularla per quel naturale [314] e pietoso amore che doveva professare al proprio eroe.
Sopraggiunge Marte geloso. Sentite come l'eroe s'atteggia dinanzi al suo rivale, sotto gli occhi della donna amata.
Pallido più che marmo, è freddo e muto
Mentre ch'apre le braccia e parlar vuole,
In quella guisa che talor, veduto
Dalla lupa del bosco il pastor suole!
Ed è sì oppresso dal dolor che l'ange
Che al pianto della Dea punto non piange!
Miserabile vigliacco! Vi ricordate in Omero Paride sfuggito al telo d'Aiace e piangente al cospetto di Elena? Ma Paride è un vero eroe di fronte a questo Adone che non sa che piagnucolare all'appressarsi del suo rivale; ed è tanto preoccupato della sua paura che nemmeno lo tocca il pianto della Dea che egli ama!
Vi ripeto: se il poema Adone dovesse essere simbolo dell'Italia del proprio tempo, bisognerebbe spiegare un altro grande miracolo; cioè come un popolo caduto così in basso abbia potuto trovare delle vie recondite e meravigliose per rialzarsi.
Fatto è, o signore, che l'Italia si rialzò dal suo grande decadimento politico, morale ed artistico. Come questo sia avvenuto non è assunto mio il dimostrare. Il miracolo avvenne; e noi dobbiamo [315] compiacerci che sia avvenuto, e tanto più quanto la nostra caduta era stata più miserevole e profonda.
La poesia apparve rinvigorita dalla cultura dell'umanesimo, quando dietro ad esso vi era il nerbo di una vita forte nazionale consapevole di sè e degna di un grande avvenire. La poesia mancò completamente a sè stessa quando non rimasero avanti a lei che dei modelli freddi, non più animati dai forti spiriti di una vita attuale.
Noi avevamo profusi i tesori della nostra vita arricchendone le altre nazioni; avevamo comunicate ad esse tutte le forze del nostro risorgimento; e quella che seguì al di là delle Alpi fu una resurrezione in molta parte aiutata dall'opera degl'Italiani. Ma le altri nazioni, accanto e sotto alle spoglie del vecchio umanismo, sentivano vigoreggiare una giovane vita, e seppero innestare gagliardamente il nuovo sull'antico.
La Spagna, l'Inghilterra, la Francia, ebbero la loro vita nuova. Noi, pur troppo, l'avevamo avuta. Nessuna meraviglia quindi che delle fiorenti letterature sorgessero in quei paesi; e la nostra declinasse e quasi si spegnesse. Ma quelle nazioni non dovevano troppo inorgoglirsi e non dovevano dimenticare l'Italia. Noi avevamo dato, per così dire, l'olio della nostra lampada per illuminare le lampade altrui, rimanendo quasi al buio. Ma per [316] vie provvidenziali a poco a poco la coscienza nazionale si rifece anche in noi; si rifece dapprima in forma effimera ed appena osservabile, poi, a poco a poco, si venne determinando e rafforzando. La vita tornò ad avere uno scopo civile per l'Italia, e la sua coscienza si rinnovò.
Ed allora vedemmo insieme alla coscienza della nazione risorgere la poesia vera. Il marinismo rimase un fenomeno patologico degno d'essere studiato dagli storici. La poesia italica riprese le sue grandi tradizioni con Vittorio Alfieri, con Giuseppe Parini, con Vincenzo Monti. E dico appositamente, anche con Vincenzo Monti, poichè, per opera sua e del suo gruppo, riannodandosi agli spiriti dell'antico umanesimo, mostrò come l'anima moderna di tutti i gloriosi ricordi dell'antico anzichè indebolirsi si fortifichi e trovi in essi un aiuto alle nuove energie che le abbisognano per dare origine ad un'arte veramente nuova e vitale.
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