VI.

Gli anni che corsero dal 1670 al 1715, anno in cui finalmente si spense la funesta luce del roi-soleil, son gli anni più lugubri, i più pesanti, i più inumani, perchè i più artificiosi, che ci presenti la storia. Una cupa, severa e monotona etichetta sembra dirigere tutte le azioni umane. Un mostruoso barocchismo invade la letteratura, [405] l'arte, il teatro, le mode, il mobiliare.... persino i sepolcri. Uno sbadiglio enorme va da un capo all'altro d'Europa. Guerre freddamente sterminatrici, senza il pittoresco movimento e la passione dell'epoche precedenti; lotte di casuisti e di teologi; una religione diventata una idolatrica superstizione, imposta e mantenuta col nerbo, la galera, le dragonnades e gli auto-da-fè; conventi-prigione e terribili in pace soffoganti i gemiti di lunghe agonie; amori galanti ed equivoci, Gomorra rivivente tra le dorate alcove di Versailles e del Buen Retiro, tra i veleni della Voisin e il confessionale della Maintenon: tale è la seconda metà del Secento.

Tutto quell'odioso secolo decimosettimo, anche prima di precipitare al mostruoso suo fine, è un secolo falso e barocco. I suoi più illustri uomini di guerra, eccetto Gustavo Adolfo, hanno tutti un non so che di sinistro nella calcolata ferocia, dal demonio Wallenstein al lupo Louvois. Nessuno fra i grandi scrittori di Luigi XIV si avvicina alla sublime altezza di un Eschilo, di un Dante, di uno Shakespeare, di un Cervantes. In tutti sembra pesare l'incubo del proprio tempo. Come son tristi tutti quei grandi! Molière e Pascal muoiono di nera malinconia: nessuno ha la gioia serena e il riso divino degli eroi del Rinascimento, dei veri inventori e creatori. Hobbes [406] e Molinos, la paralisi ed il fatalismo in politica ed in morale, sono i veri rappresentanti di quell'epoca tenebrosa.

E da noi, che contraccolpo continuo di miserie inaudite e di ridicole e pompose vanità! Che cosa sia stata l'Italia nel primo quarto di quel secolo, lo ha descritto in modo sovrano, e immortalmente inciso nella memoria degl'Italiani, Alessandro Manzoni: ma l'Italia della fine del secolo XVII, aspetta ancora la sua resurrezione; e verrà lo storico, il romanziere, il poeta che la dipinga. I materiali non mancano.

Entrate nella galleria di un principe Romano. Fra i tanti ritratti di famiglia, tra le belle e nobili, fiere e minacciose, franche ed ardite figure dipinte dal Tiziano e dal Veronese, guardate là in fondo quei quadri buî, dove la sola cosa visibile a primo aspetto sono due grandi facciole di un bianco sudicio. Osservate meglio, e vedrete che quelle tenebre sono una toga, e una parrucca enorme, sotto cui apparisce il viso cachettico di un magistrato, che appoggia il gomito a una catasta di libroni, e nella destra tiene un foglio che non legge, benchè lo guardi con due occhi, spenti di pesce morto.... Ecco il Secento.

E avete notato quei libroni? Li potete rivedere se volete, alla Casanatense o alla Magliabechiana, [407] fra i libri di Legge e di Teologia di quel secolo. Son volumi che per levarli dallo scaffale ci vuole un facchino, e fanno scricchiolare la sedia o la tavola su cui si depongono. Scritti per lo più in un barocco latino, irti di testi, corazzati di argomenti, velenosi di invettive, sono di mille pagine l'uno....

Vi siete mai trovati per caso, in certi quartieri di Roma, di Napoli, o di Milano, dove la strada è come incassata fra una doppia linea di enormi edifizi grigi, con poche finestre mezze murate, e da cui sembra colarvi addosso una nebbia di tedio? Sono i muraglioni dei conventi del Secento, dove annualmente si seppellivano migliaia di ardenti giovinette, a benefizio del giovin signore, l'orgoglioso e spesso stupido erede dei titoli e della fortuna. Quei cupi casoni hanno tutti l'aspetto di spedale o di carcere. Non un segno d'arte, non un fiore del Rinascimento, ne interrompe e consola la spietata monotonia; e vi sentite mancare il respiro, attraversando quei deserti e desolati quartieri.

E finalmente, se volete avere un'idea complessiva di quell'epoca odiosamente barocca, guardate di quali immagini, di quali simboli, di quali forme, circondavano il luogo dell'ultimo riposo; di quale immenso catafalco di pesanti vanità e di dorate menzogne volevan coperti i loro [408] nobili scheletri! Non vi è grande chiesa di Roma, di Napoli, di Venezia, di Milano e di Firenze, che non sia profanata (è la vera parola) da uno di questi monumenti pomposi della vanità impotente, e della ridicola adulazione. Sono ammassi di marmo e di stucco dorato, cariatidi di Mori orribili in marmo nero, draghi impossibili che sorreggono un barocco sarcofago, e sopra, in alto, l'eroe guerriero o magistrato o erudito, in armi o in toga, ma sempre in parrucca, stendente il braccio con un gesto di attore applaudito, sotto un gran tendone di marmo giallo o sanguigno. Ai suoi lati, figure allegoriche vestite alla Romana, la Virtù, il Valore, la Vittoria, la Giustizia con le solite bilancie da droghiere, la Fama con la solita tromba di saltimbanco, gesticolano e si contorcono come prese da un attacco di epilessia. La iscrizione in pomposo latino, incisa a lettere cubitali, è anche più barocca del monumento.

E quali i quadri, quali le statue, di quella grottesca fin de siècle! Una decrepita galanteria, che vorrebbe sorridere, e fa dei versacci; delle occhiate ridicole, dei gesti da manicomio. Artisti senza ideale, grossolanamente carnali, e che non sanno più rappresentare la carne: le loro opere sono la loro condanna. Grazie al cielo, [409] l'arte almeno è inaccessibile alla menzogna. Figlia del cuore e della ispirazione, l'arte non si lascia violentare e violare dal falso; e quando questo trionfa, essa muore.

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