VIII.

Martirio, che può dirsi incominciato segretamente fin da quando tutto nell'ordine e nel progresso mirabile de' suoi studi lo portava a confermare e proclamare le verità Copernicane; e tutto, nel triste ambiente che lo avvolgeva, contrastava e ricacciava indietro questa libera espansione della sua coscienza scientifica. A Pisa, nella degna conversazione del filosofo e letterato Iacopo Mazzoni, a Padova nella altrettanto degna corrispondenza col Keplero, questo sentimento avea sempre pesato su lui: “non oso„ scriveva al Keplero “non oso pubblicare quanto potrei su tale argomento; la sorte di quel nostro maestro mi sgomenta.„ Ma la vittoria del Nunzio Sidereo gli dette animo, lo sospinse, gl'impose: quel suo prospero viaggio a Roma lo confortò: il consenso e l'affetto de' suoi seguaci, fra' quali [265] uomini di Chiesa rispettabilissimi, il favore del giovine Principe e della madre sua Cristina di Lorena, parvero quasi dischiudergli la via. E mentre dal pulpito volgari cerretani della pietà profanavano essi la parola di Dio che accusavano lui d'impugnare, e contro di lui la appuntavano, vociando “Uomini Galilei, che state voi a guardare nel cielo?,„ e contro di lui eccitavano la falange de' semplici, de' timorati e degli ignoranti; egli in lettere, che erano manifesti e programmi della sua dottrina stupendi, in lettere al padre Castelli suo benaffetto discepolo, a monsignore Piero Dini, alla granduchessa Cristina, designava con mano sicura i limiti fra la scienza e la fede: - rivendicava “ai sensi, al discorso, all'intelletto„ il diritto e il dover loro di strumenti datici da Dio per conoscere il vero; alla scienza astronomica il privilegio di essere la libera dimostratrice de' misteri (sono sue parole) di quella “gloria e grandezza del Creatore, che mirabilmente si scorge in tutte le sue fatture, e divinamente si legge nell'aperto libro del cielo„: avere lo Spirito Santo, per comune sentenza de' Padri e Dottori, raccolta in un'arguta frase dal dottissimo cardinale Baronio, voluto ammaestrarci “come si vada al cielo, e non come vada il cielo„: doversi ben guardare dall'erigere “ad articoli di fede le conclusioni naturali che sono in balía del [266] senso e delle ragioni dimostrative„; - e protestandosi cattolico migliore e più provvido che non i suoi detrattori, scongiurava, come atto malaugurato e funesto, la minacciata condanna del libro di Copernico. La quale infatti può dirsi avere, nella storia del pensiero, inaugurato formalmente il dissidio tra la fede e la scienza; tardi, e inefficacemente riparato dai condannatori stessi, ne' primi lustri del secolo che ora volge al suo termine, con la cancellazione di quel marchio inconsulto dai libri e di Copernico e di Galileo.

Il marchio fu impresso sul libro di Copernico; e Galileo, generosamente accorso a Roma alla difesa, ben si può dire oggi, non solamente della scienza ma anche della religione, fu dal cardinale Bellarmino, per commissione del Sant'Ufizio, ammonito che abbandonasse quella dottrina: come a dire, che abbandonasse la coscienza del proprio pensiero. Era il 26 febbraio del 1616; e Galileo si trattenne ancora alcuni mesi, non per altro forse se non perchè la personale benevolenza che papa Paolo gli addimostrava lo illudesse a credere di poter egli, restando qua, favorito anche come si vedeva dai possenti Barberini, attenuare le conseguenze del fatto ormai consumato, ad impedire il quale anche Tommaso Campanella, il filosofo prigioniero, aveva assunto volonteroso, ma senza alcun pro, l'apologia e di Copernico e [267] di Galileo. Nè tornò in Roma (poichè tali stazioni segnano ormai la sua via dolorosa) che nel 1624, per rendere omaggio al nuovo Pontefice Maffeo Barberini, asceso l'anno innanzi sulla cattedra di San Pietro col nome di Urbano VIII. Quel suo ritorno avveniva dopo pubblicato, in occasione della disputa sulle Comete, il Saggiatore, cioè dopo perduta la grazia de' Gesuiti, uno de' quali, il padre Grassi, era in quel capolavoro di dialettica e d'ironia staffilato fieramente: e cotesta conversione di animi ne' filosofi del Collegio Romano, i quali Galileo riconosceva “sapere assai sopra le comuni lettere de' frati,„ cotesta mutazione d'aura in queste sale che risonavano ancora delle festose accoglienze al Nunzio Sidereo, doveva pur troppo, volgendo “i lieti onori in tristi lutti„, ridondare in maligni influssi sull'ardimentoso censore. Tenne sospesi tali influssi l'amicizia che Maffeo Barberini conservava da papa per l'uomo che da cardinale avea favorito, da poeta aveva esaltato, e che, attestata a Galileo dalla continuazione di non scarsi favori, pe' quali egli forse s'illuse oltre il ragionevole, gli giovò tuttavia ad ottenere nel 1630, tornato a Roma la quinta volta, la licenza di stampa al Dialogo de' Massimi Sistemi. Ma quando nel 1632 il Dialogo fatale fu pubblicato; e che in esso, di sotto al tormento del trattarsi come mere ipotesi, accompagnate [268] da epifonemi di esteriore disapprovazione, le conchiusioni più evidenti che logica umana abbia mai elaborate dai fatti; di sotto allo strazio di quella pressione indegna; la povera angustiata verità balzava fuori più intera e gagliarda che mai, e circondata altresì dalla possente attrattiva della patita violenza; e con altrettanto disdoro per la caparbietà de' violentatori; - e peggio poi, dopo che una pia calunnia ebbe insinuato a papa Urbano, come l'antica sua affettuosa ammirazione verso il filosofo fiorentino fosse ricambiata nel modo più sleale ed abietto, perchè fra i personaggi del Dialogo l'interlocutore dalle opposizioni per lo più inconcludenti e dalle inani sottigliezze scolastiche, l'uomo di paglia della conversazione, il “buon peripatetico„ Simplicio, era proprio lui Maffeo Barberini; - e badasse bene Sua Santità, che “quel libro di Galileo era più esecrando e più pernicioso a Santa Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino„; - allora il Pontefice, nel cui animo (non volgare nè cattivo, fiero bensì quanto di qualsivoglia altro de' Pontefici più tempestosi) facevano magnifica e pericolosa alleanza tutto il fastoso orgoglio d'un Principe del secolo XVII, e l'irritabile vanità d'un letterato..... di tutti i secoli; e che si sentiva parlare a nome sì de' suoi doveri spirituali e sì delle sue passioncelle [269] mortali; trapassò dall'affezione reverente al più fiero risentimento: e da quel giorno la rovina di Galileo fu irrevocabile. Perocchè la questione era addivenuta, non tanto della condanna o assoluzione, quanto della esemplarità del gastigo su quest'uomo, che sapeva il modo di vincere anche disarmato, e che dai decreti del tribunale Romano si appellava tacitamente, e trionfalmente, a quelli della umana coscienza.

Il 1632 è, nella vita di Galileo, l'anno che segna, insieme con la pubblicazione del Dialogo immortale, il suo ammalarsi in quello de' sensi che gli avevan partecipate le meraviglie del cielo, e sul declinare dell'anno l'intimazione del Commissario generale del Sant'Ufizio a comparire in Roma dinanzi a lui, ripetuta, poichè egli indugiava a muoversi, con la minaccia di esservi condotto prigioniero e in catene. Inutili le pratiche e le rimostranze del suo Principe, che era il novello Granduca Ferdinando II: nè, del resto, dal Granduca di Toscana poteva Galileo attendersi quella più efficace difesa di resistenza, che sola forse degli Stati italiani la Repubblica Veneta avrebbe potuta e voluta; la Repubblica, che l'anno innanzi ovviava volonterosa alle difficoltà da lui incontrate per la stampa del Dialogo, offrendoglisi per tale pubblicazione e per ricondurlo Lettore nel mal abbandonato Studio [270] di Padova. Nel cuor del verno, fra i disagi del crudo gennaio e i sospetti vessatorii della moría, infermo e prostrato, Galileo per la sesta ed ultima volta era in cammino verso Roma: non più apportatore di nuovi trovati e di scoperte celesti, maestro di osservazione e di metodo; non più gratulante al Pontefice, e dai pontificali favori animato ad alte speranze per l'intento supremo della sua vita: ma in qualità di colpevole, contravventore alle ammonizioni del 1616, divulgatore di dottrina ormai condannata, esposto ai rigori del tribunale più universalmente temuto. De' quali se fu mitigata sulle membra cadenti del misero vecchio l'applicazione materiale, consentendogli, nei cinque mesi che qua dimorò, il più lungo soggiorno nel palazzo dell'Ambasciata toscana a Villa Medici, e a sola una ventina di giorni, in due volte, riducendo la sua stanza a modo di prigioniero nel palazzo stesso dell'Inquisizione; e risparmiandogli la tortura, che quasi certamente lo avrebbe ucciso; - se, evidentemente, la sodisfazione di vederselo a' piedi, dovuto dal suo stesso Principe a malincuore commettere alla mercè della onnipotenza teocratica, portò nel successivo procedimento, più miti consigli; - rimane poi sempre, che questa menomissima parte di giustizia salvatagli fu congiunta e subordinata all'atroce tortura, che [271] egli da sè medesimo dovesse infliggersi, di ritrattare le verità conquistate, mentire a sè medesimo, sconfessare l'opera sua rivelatrice dell'universo. Fra quelle mani inflessibili, il venerando settuagenario discese tutta la china dolorosa delle proteste sulla sua retta “intenzione„, che la logica autoritaria e grossolana de' giudicatori convertiva in altrettante rinnegazioni del suo pensiero scientifico; fino alla profferta, discese pur troppo, di profanare il Dialogo, con l'apposizione d'una quinta e una sesta giornata, nelle quali avrebbe ripigliato gli argomenti già recati a favore della opinione falsa e dannata, per confutargli “in quel più efficace modo che da Dio benedetto mi verrà somministrato.„ La sciagurata profferta non fu (sia detto, imparzialmente, a lode di coloro) non fu raccolta; e il Dialogo non patì l'indegna profanazione: ma se questa si adempiva, non Dio benedetto, che è fonte di luce, l'avrebbe “somministrato„, sì lo spirito delle tenebre che in quella ora nefasta vinceva. E quando in altro interrogatorio, e fu il terzo, di pochi giorni appresso, dalla bocca di Galileo, dopo fatto presente il peso degli anni e delle infermità, i disagi del viaggio, la vita da quelle amarezze scorciatagli, uscirono parole come queste - “aver egli fede nella clemenza e benignità degli Eminentissimi giudici; con speranza che quello che potesse [272] “parere alla loro intera giustizia, che mancasse a tanti patimenti per adeguato gastigo de' miei delitti, lo siano, da me pregati, per condonare alla cadente vecchiezza, che pur anch'essa umilmente se gli raccomanda„; - queste parole, da quella bocca, le riceveva, cancelliere invisibile, l'Angelo di giustizia e di misericordia, che avvolgeva delle sue ali l'augusto imputato, e scriveva sopra un libro che non era quello della Sacra Inquisizione Romana. Per tal modo l'infelicissimo filosofo seguiva le istruzioni ricevute, a sua salvezza, dal pietoso ambasciatore Niccolini; il buono e zelante ambasciatore toscano, che lui confortò, insieme con la gentildonna sua moglie, delle più amorevoli cure, per lui spese presso la Curia e presso il Papa quei più valevoli uffici, che dalla condizion delle cose e dalla qualità delle persone erano consentiti. A Galileo, che, nella onesta baldanza del sovrano intelletto, “si confidava di difender molto bene„ le sue opinioni scientifiche, le quali egli, sinceramente cattolico, non riputava, nè voleva per nulla, contraddicenti alle locuzioni figurate e interpretabilissime della Sacra Scrittura, aveva il Niccolini, con la premura di salvarlo a ogni costo, raccomandato che, “per finirla più presto„, non si curasse di sostener quelle opinioni: “sottomettersi„ gli diceva “a quel che vegga che [273] posson desiderare sia veduto o tenuto da lei.„ Parole non meno piene di intimo dispregio pei tormentatori, che di affannosa pietà pel tormentato. Ma al primo riceverle, al vedersi con esse, inesorabilmente, posta la menzogna prezzo della salvezza, il misero vecchio era precipitato in tale turbamento e abbandono, “che„ avea scritto l'Ambasciatore, “da ieri in qua si dubita grandemente della sua vita.„ Quella notte di supremo strazio, alla quale appartiene la vera tortura di Galileo; e lo aver sopravvissuto a dettare i Dialoghi delle Nuove Scienze; lo assolvono dinanzi ad ogni anima generosa, e il disonore della violenta menzogna fanno cader tutto sopr'altro capo che il suo.

Era il 21 giugno 1633; e in un ultimo interrogatorio, agli assalti dell'“inquirente„, Galileo dichiarava l'opinione sua essere quella de' “Superiori„, cioè stabile la Terra, mobile il Sole: - contestatogli il tenore e il procedimento del Dialogo incriminato, replicava essere in quello, “esplicazion di ragioni„ dall'una e dall'altra parte, non “conchiusione dimostrativa„; questa essere riserbata “a più sublimi dottrine„: cioè alle dottrine di coloro dinanzi ai quali si trovava condotto: - per la terza volta incalzato, aversi forte presunzione del contrario; “e perciò, se non si risolva a confessare la verità, si deverrà [274] “contro di lui agli opportuni rimedi di diritto e di fatto„, risponde: “Io non tengo nè ho tenuta questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla. Del resto son qua nelle loro mani: faccino quello gli piace:„ - e minacciatogli in ultimo, che “dica la verità; se no, si deverrà alla tortura„, il suo rispondere si estingue lamentosamente così: “Io son qua per far l'obedienza, e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto.„ E l'obbrobrioso dramma ha lì fine. Ma la sottoscrizione di Galileo, su quella carta 453 del processo, è questa volta vergata con mano tremante.

Il giorno dipoi, nella gran Sala dei Domenicani alla Minerva, gli era data lettura della sentenza che proibiva il suo libro, e a lui infliggeva il carcere ad arbitrio, nelle prigioni del Tribunale; e ricevevano, stando lui inginocchione, l'abiura impostagli, che egli recitava di parola in parola, e sottoscriveva. Il motto sdegnoso “Eppur si muove!„ è una postuma vendetta della umana coscienza. Galileo non lo pronunziò. Ma il Galileo che abiurava i diritti imprescrittibili del pensiero, non era più lui! Il vero, l'autentico Galileo, che ancora per nove anni sopravvisse a quel povero vecchio conculcato e disfatto, nulla abiurò, nulla [275] rinnegò, non mentì mai a Dio e a sè stesso: e i personaggi del Dialogo maledetto rivissero (proprio lo stesso Sagredo, lo stesso Salviati, lo stessissimo Simplicio) in un altro Dialogo, Le Nuove Scienze; rivissero imagini fedeli e immutate del suo alto pensiero, testimoni per lui e accusatori immortali contro i giudici suoi.

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