V.

Purtroppo a noi non è giunta che l'eco degli applausi; poichè il meglio della Commedia dell'arte, ciò che veramente deliziava gli ascoltatori, è stato portato via, com'un mondan rumore, da un fiato di vento! Del dramma non era tracciata che la sceneggiatura, lo scenario; il resto era affidato all'improvvisazione dei comici. E il resto era tutto. Gl'intrecci per lo più si desumevan da novelle, o addirittura dalle commedie sostenute e perfin dalle classiche; e invece il dialogo ogni attore lo improvvisava ogni volta, così che riusciva necessariamente diverso pur da una replica all'altra della stessa commedia. Una parola, un accento, un gesto dell'interlocutore poteva suggerire un motto o un'uscita nuova ed inaspettata; un avvenimento della giornata, la presenza in teatro d'un signore amico o d'una dama.... che non fosse una dama, poteva ispirare lì per lì un'allusione piccante; l'esser di buono o di cattivo umore poteva all'attore accendere o smorzare l'estro. Ogni attore era un poeta estemporaneo; anzi, soggiunge il comico [442] Beltrame, al secolo Nicolò Barbieri, “i comici italiani partecipano del compositore e del rappresentante, poi che inventano favole, e molti le adornano con discorsi partoriti da' loro talenti„. Perciò la Commedia dell'arte non fu possibile che in Italia. E in verità non fu chiamata dell'arte per significare che la fosse la perfetta tra le commedie, il nec plus ultra dell'arte, come affermò Maurice Sand, bensì perchè, a differenza della commedia scritta, essa non era e non poteva esser rappresentata che da attori di mestiere.

Non ce ne restano che gli scenari, lo scheletro: “il più divin s'invola!„ E innanzi a quelle mute liste di attori, a quelle scarne indicazioni d'un'azione che s'intreccia e si snoda, proviamo quel senso di malinconia che faceva esclamare al poeta contemplante l'effigie sepolcrale d'una bella donna:

Tal fosti: or qui sotterra

Polve e scheletro sei!

Ascoltate, per saggio, il primo atto d'uno dei migliori scenari del repertorio dei Gelosi. È intitolato Il Cavadenti.

Atto primo. - Pantalone dice a Pedrolino (servo) l'amor che porta ad Isabella vedova, e dubitar che Oratio suo figlio non gli sia rivale, e che di ciò dubitando haver risoluto di mandarlo allo studio. - Pedrol. lo riprende, tenendo da quella d'Oratio; s'attaccano di parole e di fatti. Pant. dà a Pedrol., et egli le morde un [443] braccio, mostrando d'haverlo morduto forte. Pant., minacciando, parte, dicendo che per suo conto parli con Franceschina (serva). Via. - Pedrol., di vendicarsi del morso che gli ha dato Pant. - In quello, Franc. va per cercar Oratio per ordine della sua padrona; vede Pedrol. e da lui intende la cagione del suo dolor del braccio; s'accordano di fingere che a Pant. puzzi il fiato, per vendicarsi. - Franc. in casa, Pedrol. rimane. - In quello Flavio (fratello d'Isabella) scopre a Pedrol. l'amor suo, urtandolo nel braccio. Pedrol. grida; poi s'accordano di finger che a Pant. puzzi il fiato. Flavio via, Pedrol. rimane. - In quello, Dottore che ha d'haver d. 25 da Pant., piglia Pedrol. per lo braccio, e gli grida, e seco fa l'istesso accordo del fiato puzzolente, promettendoli farli havere i suoi d. 25. Dott. via, Pedrol. va per trovar Oratio. Via.

Capitano Spavento, l'amor d'Isab. e le sue bravure. - In quello, Arlecchino servo d'Isab. fa seco scena ridicolosa, et entra per far venir fuora Isab. - Cap. aspetta.

Flaminia (figlia di Pant.), che dalla finestra ha veduto il Cap. da lei amato, lo prega all'amor suo. - In quello, Isab. fuora credendosi di trovar Oratio. Cap. la prega all'amor suo; ella lo scaccia, et egli fa il simile con Flam., facendo scena interzata. Alla fine Isab. entra in casa scacciando il Cap. Egli fa il simile con Flam., e parte. Ella riman dolente. - In quello, Pedrol., che in disparte ha sentito il tutto, minaccia dirlo a suo padre; poi s'accordano della cosa del fiato con suo padre. Ella se n'entra. Pedrol., che li duole il braccio più che mai, se bene s'è fatto medicare, e di volersi vendicare a tutte le vie. - In quello, Arlecch. arriva. Pedrol. con dinari l'induce a fingersi cavadenti; lo manda a vestirsi; Arlecch. via. Pedrol. si ferma. - In quello, Oratio intende da Pedrol. come Pant. suo padre concorre seco nell'amar Isab., e che lo vuol mandar allo studio. Oratio, dolente di cotai nuove, si raccomanda a Pedrol., il qual le promette [444] aiuto, e s'accordano della cosa del fiato. Oratio, che vorrebbe ragionar con Isab. Pedrol. la chiama.

Isab. intende dell'amor suo e della sua dura dipartenza. Ella se ne attrista. - In quello, Pant. parlando forte. Isab., sentendolo, se n'entra. Pedrol. brava con Oratio perchè non vuole andare a Perugia. Pant. vede il figlio, al quale ordina che si vada a metter all'ordine subito subito, perchè vuole che vada a Perugia. Oratio, tutto timoroso, entra per mettersi all'ordine, guardando Pedrol. - Pant. intende come Pedrol. ha parlato con Franc.; poi sente Pedrol. che dice: ohibò, padrone, il fiato vi puzza fuor di modo! Pant. se ne ride. - In quello, Franc. fa il simile, dicendo che se il fiato non le puzzasse, che Isab. l'amerebbe; et entra. Pant. si maraviglia. - In quello, Flavio passa et, a' cenni di Pedrol., fa il simile con Pant., e via. Pant. si maraviglia di tal mancamento. - In quello, Dott. arriva. Pedrol. li fa cenno della cosa del fiato. Dott. fa il simile, et via. Pant., di voler domandar a sua figlia s'è vero di quel puzzore. La chiama. - Flam. confessa a suo padre come li puzza il fiato fuor di modo; et entra. Essi rimangono. - In quello, Oratio, di casa, conferma l'istesso, poi ritorna in casa. - Pant. si risolve farsi cavar quel dente che cagiona il fetore. Ordina a Pedrol. che li conduca un cavadenti, et entra. Pedrol. rimane.

Arlecch. vestito da cavadenti. Pedrol. ordina ad Arlecch. che cavi tutti i denti a Pant., dicendoli che sono guasti. Si ritira. Arlecch. sotto le fenestre grida: chi ha denti guasti? - In quello, Pant. dalla fenestra lo chiama. Poi esce fuora. Arlecch. cava fuora i suoi ferri, i quali sono tutti ferri da magnano, nominandoli ridicolosamente. Lo fa sedere, e con la tenaglia li cava quattro denti buoni. Pant., dal dolore, s'attacca alla barba del cavadenti, la quale, essendo posticcia, li rimane in mano. Arlecch. fugge. Pant. li tira dietro la sedia. Poi, lamentandosi del dolore dei denti, entra in casa.

E qui finisce l'atto primo.„

[445]

Sunt lacrimæ rerum! Codesta non è che la trama, il canavaccio, d'un tessuto che da chi lo vide sentiam celebrare per la squisita varietà, vivezza e contrasto delle tinte; non è che la feccia d'un vino inebriante da cui si sia evaporato lo spirito; non è che la pianta topografica d'una città, famosa nella storia, oramai distrutta. Anzi, uno scenario rispetto alla sua rappresentazione è qualcosa di meno che la moderna Pompei comparata alla deliziosa città che s'adagiava, fidente nei suoi vezzi, ai piedi dell'infido Vesuvio. Là dove, per esempio, è semplicemente detto: Capitano Spavento, l'amor d'Isabella e le sue bravure, nella rappresentazione Francesco Andreini sfoggiava uno di quei suoi monologhi che bastavan da sè soli ad assicurare il successo alla commedia, e che il dotto comico distese per iscritto e tramandò ai posteri col titolo: Le bravure del Capitano Spavento divise in molti ragionamenti in forma di dialogo (Venezia, 1624). Sono stramberie, esagerazioni, goffaggini, inventate ed accozzate insieme da un fanfarone che ha una grande paura, e che mentre si vanta d'avere sfondato l'Inferno, riceve le bastonate da Arlecchino. A leggerle non ci fanno più ridere; anzi ci fa quasi dispetto che un tempo si sia potuto ridere a sentir, per esempio, quest'ordine del Capitano al cartolaio: “per [446] foglio di carta mi mandi la pelle del dragone Hesperio, per penna il corno del rinoceronte, per inchiostro il pianto del coccodrillo, per polvere il mar della sabbia, per cera la schiuma di Cerbero e per sigillo la sassifica testa di Medusa„. Ma non bisogna dimenticare e che i nostri gusti letterari son molto mutati, e che certe allusioni o ci sfuggono o ci arrivan fredde, e che soprattutto quelle goffaggini non ci è dato sentirle della bocca, e accompagnate dagli atti e versacci, di quei comici ch'eran maestri di mimica. Si può ad ogni modo indovinare quanto riuscisse saporito per un pubblico della fine del Cinquecento l'ordine del Capitano al cuoco perchè gli prepari da pranzo tre piatti di carne: “il primo sia di carne d'Hebrei, il secondo di carne di Turchi, ed il terzo di carne di Luterani„; o il racconto che, quante volte si era “trovato a desinare e a cena con Plutone re dell'inferno, tante volte gli era toccato a mangiare qualche Luterano arrosto e qualche Calvinista a guazzetto„.

La Commedia dell'arte è specialmente opera di attori, i quali erano autori ed interpreti della propria parte. Sceglievano quella per cui credevano di aver maggiori attitudini, e con essa s'identificavano così che il dramma doveva adattarsi a loro, non essi al dramma. Ritenevano il [447] nome con cui eran la prima volta riesciti accetti al pubblico; e nello scenario che abbiam letto, come in tutti gli altri dei Gelosi, Flavio indicava Flaminio Scala, il Capitano Spavento Francesco Andreini, Orazio Orazio Nobili, Isabella Isabella Andreini. Poichè spesso il nome scelto pel teatro era quello di battesimo. Quando si diceva che nella commedia prendeva parte Flavio o l'Isabella, non s'indicava solo che ci sarebbero stati quei personaggi ma quegli attori. I quali, anche nella vita privata e nelle loro corrispondenze coi prìncipi e coi loro segretari, finivano con l'adoperare il nomignolo teatrale, spesso da solo, spesso aggiungendolo al proprio casato. E del resto anche ora voi tutti conoscete il nomignolo di Molière, ma non tutti forse il suo nome di famiglia.

Quando la parte assunta non avea nulla di veramente caratteristico, come quella dell'innamorato più o meno smanceroso o ardito o cavalleresco, il nomignolo tramontava con l'attore: e non c'è stato che un Flavio, un Orazio, un'Isabella. Ma spesso il comico sapeva felicemente cogliere una caricatura locale, o il tipo d'una certa classe di persone; e allora il personaggio sopravviveva all'attore, e quel primo nomignolo si perpetuava. E chi, dopo, avesse voluto rappresentare il vecchio veneziano o il servo bergamasco [448] o il pedante bolognese o il contadino napoletano, avea l'obbligo di chiamarsi Pantalone, Brighella o Arlecchino, Dottor Graziano, Pulcinella, di vestirsi nel modo tradizionale, di parlar quello speciale dialetto con quelle speciali inflessioni di voce, di dir perfino certi motti e di far certi movimenti e certe smorfie. Così la Commedia dell'arte veniva a mancare di varietà, e i comici degeneravano in marionette. Un bel giorno, anzi, gli attori di carne e d'ossa non sembreranno più necessari, e saranno sostituiti dai fantocci. Voi lo sapete: è appunto nel casotto dei burattini che oramai agonizza la gloriosa Commedia che dovea rendere immortale il nome dei Gelosi!

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