VII.

E poichè parlo del Molière tocchiamo di un altro requisito che nel nostro è, secondo me, maggiore che in lui: la prontezza. Non dico già la prontezza nel concepire, pur nel Goldoni mirabile; gli basta un nonnulla, un aneddoto, una passeggiata, uno sguardo insomma intorno a sè, per comporre tutto quanto l'intreccio di una commedia; [229] e comporlo, badiamo, non di eventi straordinari, ma di fatti consueti: chè s'io non vo errato ci vuol molta più fantasia a immaginare il Ventaglio (stupenda, inimitabile commedia!) che un di que' drammoni miracolosi i quali portano sulla scena, per dirla con un improvvisatore fiorentino,

Tornei, voli, cariaggi,

Cinquantotto personaggi,

Trentasei divinità.

Non di questa prontezza intendo: chè si potrebbe obiettarmi dover essere nel Molière, come la fecondità, di tanto minore di quanto erano più alti e gravi i concepimenti di lui; intendo della prontezza nel distendere le fila da intrecciare poi, e - ciò che è meraviglioso ancor più - nell'impostare i caratteri. Il Molière quasi sempre, in sul principio, procede a passi stenti ed incerti: e basti citare, che è vecchia osservazione, i due primi atti del Tartuffo. Vedete invece il Goldoni: leggete il primo atto della Famiglia dell'antiquario e poi ditemi se protasi fu mai più sollecita, più svelta, più completa; e perchè qui le mie parole non servono, e il primo atto della Famiglia dell'antiquario è troppo lungo, pigliamo la prima brevissima scena della Locandiera, prova anche più valida, e consentitemi ch'io ve la rilegga:

[230]

ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Il Marchese di Forlimpopoli e il Conte d' Albafiorita.

Mar. Fra voi e me vi è qualche differenza.

Conte. Sulla locanda tanto vale il vostro denaro quanto vale il mio.

Mar. Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.

Conte. Per qual ragione?

Mar. Io sono il Marchese di Forlimpopoli.

Conte. E io sono il Conte di Albafiorita.

Mar. Sì, conte. Contea comprata.

Conte. Io ho comprata la Contea quando voi avete venduto il Marchesato.

Mar. Oh! basta: son chi sono: e mi si deve portar rispetto.

Conte. Chi ve lo perde il rispetto? Siete voi che parlando con troppa libertà....

Mar. Io sono in questa locanda, perchè amo la locandiera. Tutti lo sanno e tutti devono rispettare una giovane che piace a me.

Conte. Oh! questa è bella. Voi mi vorreste impedire che io amassi Mirandolina? O perchè credete ch'io sia in Firenze? Perchè credete ch'io sia in questa locanda?

Mar. Bene, bene.... non ne farete niente.

Conte. Ah! io no e voi sì eh?

Mar. Io sì e voi no. Son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.

Conte. Mirandolina ha bisogno di danari e non di protezione.

Mar. Danari? Eh.... non ne mancano.

Conte. Io spendo un zecchino il giorno, signor Marchese, e le fo continuamente regali.

[231]

Mar. Ed io quello che fo non lo dico.

Conte. Voi non lo dite, ma già si sa.

Mar. Non si sa tutto.

Conte. Sì, caro signor Marchese.... si sa.... I camerieri parlano. Tre paoletti al giorno.

Mar. A proposito di camerieri, vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio: mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.

Conte. Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che le è morto il padre. Una giovane sola alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me se si marita le ho promesso trecento scudi.

Mar. Se si mariterà, io sono il suo protettore e farò io.... E so io quello che farò.

Conte. Venite qui finiamola, facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.

Mar. Quel ch'io faccio lo faccio segretamente e non me ne vanto. Sono chi sono. Chi è di là?

Conte. (Spiantato e superbo!).

Con questa scena che non dura più di tre minuti il Goldoni porta di lancio il pubblico in medias res. I due gentiluomini sono innamorati della locandiera e se la contendono non a buon fine, perocchè loro non spiaccia ch'ella si mariti: anzi il matrimonio aiuteranno quegli spendendo e spandendo, questi, con signorile ma parsimoniosa alterezza, ricoverando i coniugi sotto le ali della sua protezione; e dietro a loro spunta quel Fabrizio che già s'immagina entri anch'egli in lizza a contendere, se non palesemente accetto, certo non disprezzato. Ancora una scena breve [232] altrettanto col cavaliere di Ripafratta, e il Goldoni avrà già steso le fila che poi aggomitolerà e scioglierà con disinvolta maestria.

E ciò, che è pur tanto, è ancor poco. In quella scena brevissima egli ha disegnato e colorito due figure, così vive e vere che non vi usciran più dalla mente, come non usciranno per un secolo dal teatro:

Il nobile guitto

Che senza un quattrino

Ostenta il diritto

D'andare al Casino

e l'arricchito che tuttavia acerbo alle alterigie blasoniche paga a furia di scudi la sodisfazione di altre albagie. - E poi vengano a dirci che il Goldoni non è un artista; se non è arte questa, io non so più arte che sia.

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