V.

Non resta se non vedere brevemente perché l'arte civile del Parini divenendo arte politica con l'Alfieri tenne il modulo della tragedia quale l'avevano fermato i Francesi.

Quando l'Alfieri cominciò a tentare le scene, il melodramma si era aperto oltre la massima fioritura, e, come accade anche ne' generi letterarii, decadeva. “L'opera è una bella cosa (aveva scritto il Voltaire al Paradisi): ella è figlia della tragedia; ma la figlia ha svenata la madre.„ E veramente, per lo Zeno e pel Metastasio, già lo spettacolo musicato del Seicento aveva cedute le scene a drammi di ordinata e simmetrica compagine, di eletta verseggiatura, dove la musica e la parola e la pittura e la danza concordi gareggiavano a un unico intento estetico. Ma presto il modello di sì fatta fusione si era, da prepotente, imposto al musicista, ai cantanti, ai ballerini, e, più che agli altri tutti, al poeta. Tre atti, ne' quali si svolgesse un'azione di lieto [204] fine; ogni scena doveva terminare in un'aria, detta sempre da un personaggio diverso, e sempre diversa d'intonazione sì che le liete si alternassero con le meste; sulla fine del primo e del secondo atto, le grandi arie d'impegno; nel secondo e terzo, un recitativo romoroso e un duetto o terzetto tra eroi ed eroine. Eppure il Metastasio, seguace sempre dello Zeno, ma seguace incomparabilmente più elegante, facile, corretto, aveva fatto, anche in quelle strettoie, miracoli di equilibrio, di virtuosità, d'arte, e perchè no? di poesia! Quasi maggiore di sè, a forza di sentimentalità fantastica, si era talvolta levato fino a scene d'un alto sentimento eroico, come nel dialogo tra Temistocle e Serse, e nell'addio di Regolo ai Romani. Nulla più, nell'antico melodramma, restava da fare dopo lui: conveniva ora, finchè non venisse il romanticismo innovatore, che si movesse innanzi e si facesse perfetto il melodramma giocoso.

La tragedia, invece, la figlia svenata dalla madre, aspettava intanto chi la rinsanguasse. Nella forma neoclassica de' Francesi l'aveva tradotta fra noi Pier Jacopo Martelli anche nel metro; ai Greci l'aveva indotta Scipione Maffei, consacrandole l'endecasillabo sciolto. Fece tragedie romane, con quel tantino d'anima shakesperiana che era assimilabile allora traverso gli [205] imitatori, Antonio Conti. Romani e Giudei rappresentò nell'orrendo assedio di Gerusalemme, pel suo Giovanni di Giscala, tragedia forte, Alfonso Varano. Quindi, i tragici Gesuiti pe' teatrini de' collegi loro, e i tragici che direi officiali ne' concorsi pubblici di Parma, avevano consolidato lo stampo della tragedia; sì che a romperlo occorreva ormai braccio di ferro. Tale la natura lo diede all'Alfieri; ma troppo tardi ei si pose a studiare. L'ignoranza sua, l'ignoranza di quando cominciò a scrivere tragedie, lo costrinse subito a quel tipo che solo conosceva pei teatri francesi e nostri; l'amore pe' classici glielo fe' poi rispettare. Lo sforzò e piegò, ma non volle infrangerlo.... e gettò da parte lo Shakespeare. Per l'arte fu un danno; per gli effetti immediati sul pubblico, forse no: delle novità il pubblico avrebbe diffidato; la forma consueta gli lasciava invece piena agevolezza di succhiarne gli spiriti nuovi che vi erano infusi. Fin dalla prima Cleopatra, che è del '74, l'Alfieri imprecava ai tiranni:

Tu se' la prima fra li re superbi

Che pieghi alla ragion l'altera fronte,

Alla ragione, ai vostri pari ignota,

O non ben dalla forza ancor distinta.

La tragedia, ch'era stata fin a lui un sollazzo aristocratico, divenne, per lui aristocratico, educazione [206] del popolo a liberi sensi. Lo dissero duro, oscuro, stentato; ma riusciva a far pensare, nè altro egli voleva.

“Son duro, lo so, son duro, ma parlo a gente che ha l'anima così molle e flaccida che è cosa da stupirne.... Tutti imparano il Metastasio a mente, e se ne foderano le orecchie, il cuore, gli occhi; gli eroi li vogliono vedere, ma castrati; il tragico lo vogliono, ma impotente.„ A questo modo, nel suo aspro piemontese. Sono io di ferro, chiedeva, o gl'Italiani son di melma? E più amaramente nella palinodia sè riconosceva di ferro dolce, gl'Italiani di melma rappresa. Torino, che intitolò del suo nome una strada nel 1797, e lo tolse via nel 1815, ve lo restituì quando i tempi furon maturi, quando sentì i fati novelli, che la traevano ad essere guida di tutta l'Italia. Oggi l'Italia tutta sento quanto debba a quel grande.

Grande; e sebbene l'arte sua sia meno spontanea, meno elegante, meno ingegnosa anche, se si vuole, di quella del Metastasio, assai più grande del Metastasio. Perchè l'anima del conte astigiano fu assai più grande di quella dell'abate romano; e le opere dell'arte, come gli organismi tutti, non vivono tanto per la loro esterna bellezza quanto per la potenza della vita che le empie di sè; la potenza della vita che, correndovi per entro a onde piene, le agita e muove. Che [207] più, se l'opera d'arte, non solo viva per sè, ma si faccia suscitatrice di bene, e infonda altrui l'anima sua generosa, e imponga agli inerti: Surge et ambula?

Tale fu, o signori, tanto ottenne, la tragedia dell'Alfieri; opera grande, perchè fu opera d'una grande coscienza.[209]

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