L'ABATE GALIANI (1728-1787)

CONFERENZA

DI

Vittorio Pica.

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Nei parecchi volumi della corrispondenza di Federico-Melchiorre Grimm e di quella di Dionigi Diderot con madamigella Voland, nei quali così bene rispecchiasi la fisonomia originalissima di quella società parigina della fine del Settecento, in seno a cui andavasi maturando uno dei maggiori rivolgimenti della storia dell'umanità, il nome di un Italiano viene assai di sovente ripetuto ed esso è sempre accompagnato dalle più lusinghiere espressioni di simpatia e dalle più enfatiche frasi laudative; e questo nome lo si ritrova non meno magnificato in alcune lettere di Caterina di Russia ed in varie pagine di Voltaire, di Marmontel, dell'abate Morellet e di altri illustri scrittori della medesima epoca.

Chi era mai quest'uomo eccezionale per aver saputo accaparrarsi tante autorevoli simpatie in un centro così altamente intellettuale quale ci appare, nel secolo scorso, Parigi, verso cui rivolgevansi le menti dell'Europa intera; chi mai era quest'uomo, che, nei salotti parigini, i quali con le brillanti ed insieme profonde conversazioni sur [132] ogni argomento politico, letterario, morale, contribuivano forse molto più di ogni libro al grande movimento filosofico e sociale, era riuscito ad occupare uno dei posti più importanti, tanto che, siccome afferma il Marmontel, tutti tacevano per starlo ad ascoltare durante ore intere; chi era mai quest'uomo, che con gli acuti ed originali suoi apprezzamenti sulle più svariate questioni sapeva tenere sempre desta la perspicace attenzione degli Enciclopedisti e, nell'istesso tempo, sapeva, con le inesauribili sue barzellette, coi suoi amenissimi aneddoti, con la sua esilarante mimica meridionale, affascinare le dame, e che, nella capitale dello spirito, faceva sfoggio di tanta arguzia, e di tale instancabile brio da fare esclamare alla leggiadra ed intelligente Duchessa de Choiseul: “In Francia lo spirito trovasi in moneta spicciola, in Italia in verghe d'oro„?

Egli era un abate napoletano, poco più che trentenne, ed aveva nome Ferdinando Galiani. A Parigi l'aveva mandato, nell'anno 1759, quel sapiente conoscitore d'uomini che fu il celebre ministro Bernardo Tanucci, come segretario d'ambasciata presso il conte de Cantillana, un gentiluomo spagnuolo borioso e d'intelligenza meno che mediocre, a cui era affidato l'incarico di rappresentare il Re di Napoli presso la Corte di Francia.

La prima impressione prodotta dal Galiani a [133] Parigi era stata affatto grottesca: egli era alto poco più d'un metro, sicchè, quando il conte de Cantillana lo presentò, nella grande sala delle udienze di Versailles, a Luigi XV, i cortigiani, al veder la sua personcina di pigmeo vestita da abate, non potettero trattenersi dal ridere ed il monarca istesso non seppe nascondere un sorriso; ma l'abatino napoletano, senza punto turbarsi e con la maggiore serietà, fatto il profondo inchino di rito, disse: “Sire, vous ne voyez à present que l'échantillon du sécretaire, le sécretaire vient après.„ Tale arguta prontezza sorprese e piacque immensamente e può dirsi che fin da quel momento il Galiani conquistasse quella preziosa riputazione di persona di spirito, che doveva raffermarsi ed accrescersi sempre più durante i dieci anni di sua dimora a Parigi.

La suscettibilità del suo amor proprio era però fin d'allora eccessiva e quasi morbosa, sicchè egli, per quell'incidente, da cui pure era uscito vittorioso, prese in odio la Francia e mandò lettere su lettere al Tanucci, supplicandolo di richiamarlo a Napoli. “Io mi sono disingannato„ - egli gli scriveva - “e riconosco di non essere punto fatto per Parigi. Il mio abito, la mia figura, il mio modo di pensare e tutti i miei difetti naturali mi renderanno qui insopportabile sempre ai Francesi ed a me stesso.„

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Il Tanucci, a cui premeva molto di avere un fido amico ed un intelligente collaboratore della sua opera politica a Parigi, non gli dette ascolto e, ben presto, l'abate napoletano, stretta amicizia col Grimm e col barone Gleichen e presentato da costoro nei salotti della signora Geoffrin, della duchessa de Choiseul, della signora d'Épinay, del barone d'Holbach, cangiò in tal modo d'opinione che il dover lasciare Parigi, di lì a parecchi anni, fu forse il maggior dolore della sua vita.

Per potersi spiegare la primitiva impressione ostile così acutamente risentita in Francia dal troppo suscettibile abate, non bisogna dimenticare che egli, trovatosi d'un tratto balzato in mezzo ad una società, per cui non era che uno sconosciuto dall'apparenza abbastanza comica, godeva invece, malgrado l'ancora giovanile età, non soltanto a Napoli, ma in tutta l'Italia, di una non comune celebrità e come erudito, e come economista, e come letterato.

Nato a Chieti nel decembre 1728 da un magistrato e gentiluomo foggiano, Ferdinando Galiani erasi recato, ancor fanciullo, a Napoli e vi era stato educato ed istruito, insieme col fratello maggiore Bernardo, da un savio e colto prelato, lo zio suo Celestino Galiani, che, per varii anni, coprì l'onorifica carica di Prefetto dell'Università degli Studii.

Fin da ragazzo, il Galiani fece mostra d'ingegno [135] pronto e vivacissimo, che andò sempre più ringagliardendosi nella compagnia degli illustri uomini, quali G. B. Vico, Jacopo Martorelli, Cerillo, Intieri e Rinuccini, che frequentavano la casa del Prefetto dell'Università e che, interessati dalla precoce intelligenza dei due suoi nipoti, assai volentieri intrattenevansi a conversare ed a discutere con loro. Spinto verso le discipline economiche dalla particolare benevolenza addimostratagli dai dotti toscani marchese Rinuccini e Bartolommeo Intieri, il giovane Ferdinando aveva già tradotto dall'inglese due trattati del Locke ed aveva intrapresa un'opera sull'antichissima storia delle navigazioni nel Mediterraneo, allorchè un curioso episodio lo persuase a scrivere un opuscolo satirico, che doveva richiamare su lui l'attenzione del pubblico napoletano.

Da una delle tante accademie, che in quel tempo gareggiavano in Napoli di enfasi retorica e di vaniloquenza, era stato dato incarico a Bernardo Galiani di comporre un'orazione in lode dell'Immacolata; ma, essendosi egli dovuto recare, per affari di famiglia, a Chieti, commise di scrivere e di recitare l'orazione al fratello Ferdinando, il quale, avendo accettato molto volentieri, vi lavorò attorno con grande amore alcuni giorni ed alcune notti e, la mattina fissata, si recò all'accademia, col suo scartafaccio [136] in tasca. Ma quando egli, fra orgoglioso e trepidante, presentossi al presidente, certo avvocato Giannantonio Sergio, costui veggendolo così mingherlino, così sbarbatello e di così minuscola persona, burbanzosamente si rifiutò, pel decoro dell'accademia, di fargli leggere l'elaborata orazione ed invece lesse egli medesimo un pomposo discorso, che teneva già pronto.

Indicibili furono la mortificazione e la rabbia del Galiani per un simile affronto, ed egli, nel segreto dell'anima, decise di farne aspra vendetta. E l'occasione di burlarsi dei componenti dell'Accademia presieduta dall'abborrito Sergio gliela porse di lì a poco l'improvvisa morte del boia della città. Costumanza assai frequente delle accademie, che allora infierivano in tutta l'Italia, era di pubblicare raccolte di scritti in morte di personaggi più o meno illustri; or bene il nostro Ferdinando compose, in collaborazione col suo intimo amico Pasquale Carcani, tutta una serie di poesie e di prose secondo lo stile gonfio ed artefatto dei varii accademici e li raccolse in un volumino che portava il titolo di “Componimenti varj - per la morte di Domenico Jannacone - carnefice della G. C. della Vicaria - Raccolti e dati in luce da Giannantonio Sergio - avvocato napoletano„ e che era preceduto da una dedica di un Pastore Arcade al Tirapiede, aiutante del defunto Boia.

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La parodia - la quale doveva venir imitata, dieci anni dopo, da Federigo il Grande col suo panegirico di un calzolaio, che fingevasi scritto da un diacono della cattedrale, - anche oggi, a distanza di un secolo e mezzo, appare assai graziosa.

Del resto a darvene un'idea approssimativa varrà la seguente nota apposta a piè di un sonetto: “Della giustezza di questi versi nessuno può dubitare essendo tutti misurati collo spago„, e quest'altro sonetto, in cui un arcade, che aveva incominciata una sua lirica sulla Concezione così:

Se mai non fosse Iddio Santo in Natura,

E sia per mera ipotesi ciò detto, ecc....

viene messo argutamente in burletta:

S'io fossi mai un asino in Natura

(E sia per mera ipotesi ciò detto),

Quantunque irrazionale creatura

Ragghiando loderei quest'uom perfetto.

Anzi, se tutto il mondo per ventura

Di trovar dato avesse un vero e schietto

Ministro di Giustizia a me la cura,

L'avrei per Boia universale eletto.

Poichè con arte tal, con tal destrezza

Domenico il suo officio far sapea

Che il morir per sua mano era dolcezza.

Onde talor tra me dicea: se il fato

Mi riducesse a dover questa rea

Morte soffrire, io morirei beato.

Il volumetto satirico ebbe un successo clamoroso [138] e per varie settimane in tutti i salotti, in tutti i caffè di Napoli e per fino a Corte si rise sulle spalle del povero avvocato Giannantonio Sergio e dei suoi accademici, tanto che costoro, adiratissimi, ricorsero al Re. Allora il Galiani ed il Carcani, temendo di venire scoverti, nulla trovarono di meglio da fare che di presentarsi al Tanucci e di confessarglisi autori del libriccino incriminato, ed il buon ministro, che aveva anche lui riso alla lettura della gustosa parodia e che di lì a qualche anno dei due mordaci giovanotti doveva fare due dei più fidi coadiutori della sua politica, si accontentò di imporre loro, per tutta punizione, dieci giorni di esercizii spirituali, da farsi in non so più quale monastero.

Compiuta questa vendettuccia letteraria, il Galiani ritornò subito agli studi serii e l'anno seguente pubblicava, senza nome di autore, un trattato in cinque libri “Della moneta„, il quale levò a rumore il mondo dei dotti e degli statisti e per la novità e per l'importanza e, sopratutto, per l'attualità del tema prescelto. In quel tempo, difatti, la straordinaria affluenza dei forestieri in Napoli ed il denaro in oro ed in argento mandatovi in gran copia dalla Spagna avevano prodotto eccesso e deprezzamento del numerario ed in conseguenza carezza delle derrate, del che il Governo impensierito aveva proposto varii rimedi [139] l'uno più inefficace dell'altro. Quest'opera del Galiani, composta con mirabile lucidità d'idee, con superiore larghezza e novità di criterii e con prezioso senso pratico, è diventata classica nell'economia politica e varie delle sue definizioni hanno avuto l'onore di venire accolte perfino da Carlo Marx, il poderoso apostolo del moderno socialismo. Ed è davvero da stupire che sia stata concepita e scritta da un giovane poco più che ventenne, anche ammettendo ch'egli si sia giovato non poco delle conversazioni avute sull'argomento con l'Intieri, con Antonio Genovesi e con gli altri valorosi economisti che frequentavano la casa di suo zio.

Il trattato della moneta levò dunque rumore grandissimo e venne entusiasticamente encomiato non soltanto a Napoli, ma eziandio nel resto d'Italia; vivo era quindi in tutti il desiderio di sapere chi ne fosse l'autore, giacchè il Galiani non si svelò che quando fu ben sicuro dello schietto successo dell'opera sua. Anzi, a tal proposito, il diligente suo biografo, Luigi Diodati, racconta che avendo Ferdinando dovuto farne lettura a monsignore Galiani, come soleva degli altri libri nuovi nelle ore di riposo, costui ogni tanto, preso da ammirazione, lo rimproverava dolcemente: “Ecco ciò che significa lavorare con serietà; ecco l'esempio da seguire, invece di sprecare il [140] tempo scribacchiando satire e poesiole!„ Lascio immaginare a voi la gioia provata dal buon vecchio quando seppe che l'autore del tanto ammirato e lodato volume era proprio il nipote.

Da quel momento Ferdinando Galiani, tenuto in alta stima da tutti gli studiosi d'Italia, acquistò tale celebrità che, allorquando l'anno seguente, lo zio lo indusse a fare un viaggio attraverso la nostra penisola, egli fu dovunque festeggiatissimo e colmato d'onori. A Roma, Papa Lambertini lo riceve e gli parla con la maggiore benevolenza e simpatia, mostrando di aver letto così il suo opuscoletto satirico come il suo trattato economico; a Firenze vien nominato socio dell'Accademia della Crusca; a Padova è accolto a braccia aperte dal Morgagni; a Torino, Carlo Emanuele III e suo figlio Vittorio Amedeo intrattengonsi a lungo con lui a discutere sulla questione della moneta.

Di ritorno a Napoli, il Galiani scrisse alcuni altri opuscoli, quali serii, quali giocosi, ma su di essi credo invero superfluo soffermarmi, accontentandomi di osservare che essi contribuirono a confermare sempre più la sua fama di uomo dotto e di persona di spirito ed a procurargli la protezione ed i preziosi favori di principi e ministri dentro e fuori del regno di Napoli.

Voglio soltanto ricordare che avendo egli, pel primo, raccolto 141 differenti specie di pietre [141] vesuviane, le spedì, accompagnate da una elegante dissertazione, a Benedetto XIV, in sei cassette, sulla prima delle quali scrisse a grossi caratteri le seguenti parole del Vangelo: “Beatissime Pater, fac ut lapides isti panes fiant.„ Il Pontefice ammirò molto la collezione, di cui fece dono al Museo di Bologna, e, per mostrare di aver compreso il suggestivo latino galianesco, conferì al giovine ed accorto abatino napoletano il beneficio della Canonica di Amalfi, che dava la rendita di 400 ducati all'anno, favore di cui tre anni dopo il Galiani disobbligavasi scrivendo per la morte del suo protettore un'eloquente ed affettuosa orazione funebre.

Dopo tali soddisfazioni di amor proprio, dopo tali trionfi di scrittore, dopo tali lusinghiere acclamazioni al precoce suo ingegno, comprendesi di leggieri che il Galiani dovesse sentirsi a disagio in un paese nuovo, dove la sua fama non era ancor giunta e dove sembravagli sempre di scorgere un sorrisetto scherzoso sulle labbra di tutti coloro che, per la prima volta, contemplavano la sua persona ridicolmente piccina ed alquanto deforme; ma, appena il suo spirito brillante, la colorita sua loquela, le sue riflessioni impreviste, profonde e paradossali gli ebbero procurato nei salotti parigini tutta una fitta schiera di ammiratori e di ammiratrici, egli comprese che la sua [142] vera patria intellettuale era Parigi. La sua intelligenza, al contatto con quelle di Grimm, di Marmontel, dell'abate Raynal, di Diderot, del barone d'Holbach, di D'Alembert, di Helvetius e degli altri Enciclopedisti, si ampliava e si rinvigoriva sempre più, senza nulla perdere della propria originalità, e, d'altra parte, il suo spirito, in mezzo alle quotidiane giostre di frizzi con tante gentili ed argute dame, spogliavasi delle primitive scorie grossolane e diventava sempre più acuto, più vario, più squisito, pur nulla perdendo della sua spontaneità e della sua arditezza.

Rileggendo ciò che di lui scrivevano gli ammaliati suoi contemporanei, tutta una scena si ricostruisce nella nostra mente, e ci par di vedere entrare il lillipuziano abate napoletano, ce charmant abbé, siccome carezzosamente solevano chiamarlo le numerose sue amiche francesi, nell'immensa sala bianco ed oro, illuminata da non meno di 72 candele, in cui il duca e la duchessa de Choiseul ricevevano, in cinque sui sette giorni della settimana, uno scelto stuolo d'invitati; ci pare di vederlo avanzare a piccoli passi, col nero tricorno sotto il braccio, fra i tavolini di giuoco, dispensando a destra ed a sinistra sorrisi ed inchini, salutare la padrona di casa, che lo accoglie sorridendo, e poi, circondato da una briosa schiera di dame e di damigelle, addossarsi ad uno dei [143] maestosi camini marmorei, che dispensavano il calore alla sala, accettar subito il soggetto che gli viene proposto e ricamarvi attorno una di quelle maravigliose improvvisazioni, che tenevano tutti sospesi alle sue labbra e durante le quali, con l'esilarante mimica del suo volto mobilissimo e dell'intera personcina, entusiasmava il suo pubblico, e, dopo averlo fatto ridere sino alle lagrime con prodigiose lepidezze, lo faceva lungamente meditare, perchè, quasi sempre, sotto la frase giocosa e dietro l'aneddoto comico, ascondevasi un pensiero profondo ed ardito.

Altre volte è invece nel salotto della casa di campagna al Grand-Val del barone d'Holbach od in quello, in cui la società era anche più intima e cordialmente simpatica, del villino alla Chevrette della signora d'Épinay che ci pare di rivedere il Galiani: il sole tramonta e le ombre della sera già invadono la camera; gl'invitati, poichè la melanconia dell'ora fa languire ogni conversazione, si raccolgono intorno all'abate, che, seduto sur una poltrona, con le gambe incrocicchiate alla turca, secondo la sua abitudine, e con la parrucca di traverso, racconta loro, senza farsi molto pregare, mille follie, accende uno di quei fuochi di fila di lazzi, di bizzarrie, di novellucce gioconde, a cui nessuna tristezza resiste.

“L'abate Galiani entrò„ - scrive Diderot in [144] una sua lettera - “e col gentile abate entrarono la gaiezza, l'immaginazione, lo spirito, la follia, lo scherzo, tutto ciò che fa dimenticare i fastidii della vita.„ E subito dopo aggiunge: “L'abate è inesauribile in fatto di motti di spirito, di frasi argute; è un vero tesoro nelle giornate piovose: se si fabbricassero degli abati Galiani presso gli ebanisti, tutti ne vorrebbero possedere uno in villeggiatura.„ E Marmontel dice: “L'abate Galiani era come fattezze il più grazioso piccolo Arlecchino che abbia prodotto l'Italia, ma sulle spalle di quest'Arlecchino vi era la testa di Machiavelli. Epicureo nella sua filosofia, era, pur possedendo un'anima melanconica, abituato a contemplar tutto dal lato ridicolo. Non v'era nulla, nè in politica, nè in morale, a proposito di cui non avesse qualche piacevole racconto da narrare, e questi racconti avevano sempre il senso giusto dell'opportunità ed il sale d'un'allusione imprevista ed ingegnosa.„ Infine il Grimm scriveva: “Questo piccolo essere, nato alle falde del Vesuvio, è un vero fenomeno. Egli unisce ad un colpo d'occhio lucido e profondo una vasta e solida erudizione, alla chiaroveggenza d'un uomo di genio la piacevolezza ed il brio d'un uomo che altro non cerca che divertire e piacere. Egli è Platone con la vivacità ed i gesti d'Arlecchino.„

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Il piccolo e spiritoso abate Galiani era, come evidentemente appare da queste e da varie altre simili autorevoli testimonianze, il ricercato beniamino della società parigina: i suoi aneddoti, le sue risposte maliziose, le sue riflessioni originali, i suoi sarcastici motti di spirito, appena pronunciati, facevano il giro della città, passando di bocca in bocca, e poi, mercè i carteggi dei letterati, giungevano ai più importanti centri intellettuali d'Europa.

Di questi fortunati motti galianeschi, parecchi sono giunti fino a noi.

Un giorno, una scimmia, che il Galiani aveva portato con sè e che amava moltissimo, essendosi sospesa alla catena di ferro che reggeva la lampada destinata ad illuminare lo scalone del palazzo dell'ambasciata, la fece dondolare così a lungo ed in siffatto modo che tutto l'olio ne cadde sull'abito di gala del conte di Cantillana, mentre costui preparavasi ad uscire per recarsi ad un pranzo a cui era stato invitato. L'ambasciatore furibondo ordinò che la bestia venisse subito uccisa. “Guardatevene bene, Eccellenza, - esclamò freddo freddo l'abate, - l'anima di Leibnitz alberga nel suo corpo ed essa cerca risolvere il problema dell'oscillazione del pendolo.„

Un altro giorno, ad un pranzo, un ufficiale, indispettito da un frizzo del Galiani gli disse, [146] facendo la voce grossa: “Signor abate, voi siete un insolente; e se vi fossi vicino vi darei uno schiaffo, anzi potete far conto di averlo già ricevuto.„ Ed il Galiani di rimando: “Se io vi fossi vicino, poichè il mio stato non mi permette di cingere spada, caverei fuori quella di chi mi siede a lato e vi trapasserei da parte a parte; anzi fate conto di aver già ricevuto il colpo e consideratevi come morto.„ Tutti risero e l'ufficiale rimase assai male.

Un'altra volta, egli si era recato da un ministro di Stato, famoso per la sua pigrizia e da cui si aspettava già da tempo non so quale atto che non riusciva mai a venire alla luce; il ministro, accortosi che l'abate portava sotto il braccio un cappello abbastanza vecchio, pensò di punzecchiarlo dicendogli: “Parmi che sia tempo di riformare il vostro cappello.„ Ed egli di botto: “Aspetto il disegno di Sua Eccellenza.„

Appassionato per la musica di Pergolese e di Paisiello, il nostro abate giudicava troppo fragorosa quella francese, sicchè, avendo qualcuno osservato dinanzi a lui che la nuova sala delle Tuileries, nella quale era stato trasportato il teatro di musica, in seguito all'incendio del Palazzo Reale, era sorda, egli esclamò con un sospiro: “Felice lei!„

Non bisogna però credere che, durante i dieci anni circa che il Galiani rimase in Francia, ad altro [147] egli non pensasse che a menare vita brillante e che sperperasse il ricco capitale della sua intelligenza spendendolo tutto nella picciola moneta della conversazione. No, egli, oltre ad avere incominciato un originale commento delle Odi di Orazio, di cui alcuni brani assai caratteristici furono pubblicati dall'abate Arnaud sulla sua Gazette littéraire d'Europe, ed aver scritto un libro di economia politica, che suscitò furiose polemiche e di cui vi parlerò di qui a poco, si mostrò abile diplomatico e fedele rappresentante dell'accorta e patriottica politica del marchese Tanucci.

Il carteggio, pubblicato alcuni anni fa dall'Archivio Storico per le provincie Napoletane, dimostra l'alta stima che l'illustre ministro di Ferdinando I nutriva pel Galiani, a cui scriveva settimanalmente di affari di stato, a cui a volta chiedeva anche consiglio e che considerava come il suo uomo di fiducia a Parigi; e ciò è tanto vero che, non soltanto gli affidò varie delicate missioni, ma, allorquando nel 1760 l'ambasciatore De Cantillana prese una licenza dì sei mesi, lo nominò incaricato d'affari con la paga mensile di 300 ducati.

Però Ferdinando Galiani dovette alla sua lingua, a cui pure è da attribuirsi lo straordinario suo successo parigino, quell'inatteso richiamo dalla Francia, che così profondamente lo addolorò.

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L'Inghilterra, in quell'epoca, impensierita dal famoso patto di famiglia tra la Francia e la Spagna, erasi alleata con la Russia e con la Danimarca, e quindi una lotta diplomatica s'ingaggiò fra i due gruppi di alleati, una lotta, che prendeva le mosse dalle contese dei due partiti svedesi soprannominati dei Cappelli e dei Berretti, dei quali l'uno era fautore delle regie prerogative e dell'alleanza francese e l'altro del governo oligarchico e degli Anglo-Russi. Avendo i Cappelli alla perfine ottenuta la prevalenza, l'Inghilterra riuscì a persuadere la Danimarca ad armare una flotta in favore dei Berretti; ma, saputolo il ministro francese Choiseul, costui protestò con grande energia contro tale armamento, e poco mancò che non iscoppiasse una guerra, la quale, secondo le parole dell'ambasciatore di Napoli in Ispagna, “si poteva sapere dove cominciava, ma non prevedere dove andrebbe a finire.„

Ora, mentre maggiormente ferveva il lavorìo diplomatico, il nostro abate commise la leggerezza di rivelare al barone Gleichen, ministro di Danimarca a Parigi, il secreto pensiero del Tanucci, il quale, non soltanto non approvava il patto di famiglia, ma, pur non negando l'utilità di un accordo fra la Spagna e Napoli, non credeva si dovessero accomunare in tutto e per tutto gl'interessi dei due paesi. L'imprudente discorso [149] venne riferito al duca di Choiseul, che già da qualche tempo non vedeva di buon occhio il troppo linguacciuto segretario d'ambasciata napoletano, e, in seguito ad un carteggio fra la Corte di Francia e quella di Spagna e di Napoli, il Tanucci, convintosi di non poter salvare il suo favorito, scrisse la seguente laconica missiva, che piombò sul povero abate come un fulmine a ciel sereno: “È volontà del Re che V. S. Illustrissima fra quattro giorni da questo dispaccio esca da Parigi per ritornare in Napoli al suo destino di Consigliere del Magistrato di Commercio. Glielo prevengo nel Real nome perchè così eseguisca.„

Prima di partire, il Galiani lasciò al Diderot il manoscritto di un libro intorno a cui già da qualche tempo lavorava e di cui il suo fido amico curò la stampa, facendolo pubblicare, l'anno seguente alla partenza di lui, con la data di Londra, senza nome di autore e col titolo di “Dialogues sur le commerce des bleds.„ Questo lavoro del Galiani, che suscitò uno straordinario brusìo nel campo degli Economisti, che vi erano vivacissimamente attaccati e che della loro difesa e della confutazione incaricarono l'abate Morellet, discuteva, in forma dialogica e con un brio affatto insolito in tali trattazioni, di una delle più importanti questioni del momento.

In seguito ad una carestia che aveva generati [150] gravi tumulti popolari, Luigi XV, persuaso di giovare all'agricoltura, aveva nel 1764 emanato un editto, col quale permettevasi a tutte le province del regno la libera esportazione dei grani. Sopravvenne un'annata sterile, ed i mali ai quali erasi coll'editto inteso di porre rimedio, nonchè cessare, si aggravarono sempre più. Il Galiani prese da ciò occasione per combattere l'opportunità della libera esportazione, intendendo dimostrare che in fatto di commercio di grani ogni sistema assoluto riesce nocivo e che variando le circostanze degli Stati conviene variare eziandio le norme di tale commercio. A provare il suo assunto egli immaginò una serie di conversazioni prima e dopo il pranzo fra un motteggiatore cavalier Zanobi, in cui incarnò sè stesso, ed un marchese di Roquemaure, che sostiene la tesi opposta, ma che si lascia trascinare a tali concessioni ed a tali confessioni su materie che, in apparenza, non hanno coi grani alcun rapporto, da rimanere poi stupefatto di aver dato egli medesimo, con le sue parole, le armi all'avversario per incalzarlo e debellarlo.

Questi dialoghi erano così brillanti e così ameni che vennero letti con vivo piacere perfino dal pubblico femminile e che il Voltaire ne scriveva con enfatico entusiasmo al Diderot. “Sembra che Platone e Molière si siano uniti insieme per [151] comporre tale opera„ e nel suo dizionario enciclopedico, alla parola blé, ne dava il seguente lusinghiero giudizio: “Il signor abate Galiani, napoletano, rallegrò la nazione francese sulla questione dell'esportazione; giacchè egli trovò il segreto di fare, anche in lingua francese, dei dialoghi divertenti quanto i migliori nostri romanzi, ed istruttivi quanto i migliori nostri libri serii. Se quest'opera non fece diminuire il prezzo del pane, procurò molto diletto alla nazione, ciò che per essa vale assai meglio.„

Ho detto che questo volume venne pubblicato senza nome di autore e l'istesso ho detto antecedentemente del trattato della moneta e si potrebbe dire della maggior parte delle opere del Galiani. Ora l'abate napoletano non faceva certo ciò per modestia, perchè la modestia non fu mai tra le sue virtù; quale dunque ne era il motivo? Ecco la graziosa ragione che egli medesimo ne dà in uno degli ultimi suoi opuscoli: “Un abbominevole abuso invalso fa che tutti vogliono avere i libri in dono dal loro autore. Chi dona un libro lo perde, chi lo nega perde un amico, quindi per salvare i libri e gli amici li stampavo senza il mio nome. Così potevo anche dallo spaccio inferire in qualche modo il merito del libro, essendo certissimo che quell'edizione che si sarà tutta venduta si avrebbe potuto tutta [152] donarla, mentre non è sicuro del pari che quella che si è donata si avrebbe potuto venderla tutta.„ Il vero motivo però era che il Galiani sapeva di possedere, così in Italia come in Francia, molti amici, ma anche molti nemici, e che, soltanto col celare il proprio nome egli sperava di poter ottenere il suo intento. E non ingannavasi, giacchè, siccome afferma uno scrittore del principio del secolo, l'Ugoni, fintanto che le opere di lui furono giudicate secondo il valore intrinseco la fama ne fu grande, ma non appena fu squarciato il velo dell'anonimo cominciò la fama ad intorbidarsene: non potendosi negare il merito dell'opera, si negò che fosse o che ne fosse egli solo l'autore, diceria del resto non risparmiata nè a Beccaria, nè a Filangieri.

Fu proprio col cuore trafitto che l'abate Galiani abbandonò quella Parigi, in cui egli menava una così gioconda esistenza e dove aveva tanti cari amici e tante soavi amiche; quella Parigi, in cui aveva ritrovato l'ambiente elevatamente spirituale adatto alla sua intelligenza; quella Parigi che lo aveva così bene apprezzato e che egli con immagine felice, aveva definita le café de l'Europe.

A dimostrarlo, più di ogni mia parola, varrà il biglietto sconsolato, che egli scrisse al D'Alembert nel momento della partenza: “Vi fo, mio caro D'Alembert, [153] i miei addii; non ho il coraggio di congedarmi da voi, sono questi istanti terribili per un cuore sensibile, quando ci si deve separare per sempre dagli amici e dalle persone che si amano e si stimano e si onorano e che hanno formato la felicità della mia vita durante la mia dimora in questo paese. Addio, mio caro amico, io vi scriverò, e spero che voi mi darete qualche volta notizie della vostra salute, e così potrò credere ancora di non essere uscito dal mondo.„

Dopo aver lasciato Parigi, egli si fermò alcuni mesi a Genova, sperando forse che il suo richiamo non fosse definitivo, ma dovette pure decidersi alla fine a ritornare a Napoli, dove dalla benevolenza del Tanucci, nonchè da quella dei Sovrani, gli furono attribuiti i più onorifici e lucrosi incarichi, senza però che egli mai si consolasse e senza che mai nel suo cuore si cicatrizzasse la nostalgica ferita per l'obbligatorio abbandono di Parigi, dove, malgrado l'ardente suo desiderio, non doveva mai più ritornare.

Nelle lettere da lui scritte dopo il non desiderato ritorno in patria, si trovano di continuo rimpianti per la dolce terra di Francia e, al contrario, disdegni e sarcasmi contro la città di provincia, in cui era costretto a vivere. Alla signora Necker egli scrive: “Ma è proprio vero che io sia partito? È possibile che io abbia potuto [154] uscire da Parigi? Per dove, come, per quale barriera, in qual modo è accaduto? Io non ci capisco nulla. No, non è possibile.„ Ed alla signora d'Épinay: “Parigi è la mia patria; per quanto si faccia per esiliarmi da essa io vi ricadrò.„ E poi: “Vedete come sono allegro: non ne credete niente. Io sono triste ed infelice e mi rincresce molto di farvelo sapere. Cerco di distrarmi e cado in eccessi di pazza allegria. Qui diverto tutti, fuorchè me medesimo. Se ritorno un momento sull'idea di Parigi e dei miei amici, eccomi perduto. Io non ci sono e voi ci siete, ecco i due punti della mia melanconica e desolante meditazione.„ Ed ancora: “Sapete che oggi è l'anniversario del giorno della mia partenza da Parigi? Posso essere allegro con siffatto ricordo?„ Ed infine alla signora Geoffrin scrive: “Eccolo dunque, come sempre, l'abate, il vostro piccolo abate, votre petite chose. Io sono seduto sur una soffice poltrona, ed agito piedi e mani come un energumeno, colla parrucca di traverso, parlando molto e dicendo cose che erano giudicate sublimi e che mi venivano attribuite. Ah! signora quale errore! non ero io che dicevo di così belle cose. Le vostre poltrone sono tripodi apollinei ed io era la Sibilla. Siate pur sicura che, sulle seggiole di paglia napoletane, non dico che sciocchezze.„

[155]

Napoli, al povero abate così festeggiato nei brillanti salotti parigini, non appare semplicemente come una città di provincia, poco colta e molto pettegola, ma quale un crudele esilio, in cui non trova chi sappia comprenderlo ed apprezzarlo come a Parigi. E le lamentanze ed i rimpianti riempiono le sue lettere e si esprimono nelle forme più colorite, più liriche e più graziosamente satiriche. “Qui non ho nulla che mi tormenti, tranne che non ho nè divertimenti, nè piaceri, nè amici, nè discepoli, nè pranzi, nè cene, nè denaro, nè salute, nè allegria, nè affari giocondi, nè amore; ma, viceversa ho l'amicizia del ministro, la rabbia degli invidiosi, il pericolo delle calunnie, seccatori a non finire, i processi, il Tribunale, la Corte, le zampogne per le vie ed i calli ai piedi.„ - “In quanto a me mi annoio mortalmente qui; non veggo nessun'altro che due o tre francesi che sono qui. Parmi d'essere Gulliver, ritornato dal paese degli Huyhuhums, il quale non ricerca altra società che quella dei due suoi cavalli. Vado a fare visite di dovere alle mogli dei due ministri di Stato e delle Finanze e poi dormo o sogno. Quale vita! nulla qui mi diverte. La vita vi è di un'uniformità mortale. Non vi si disputa di niente, neppure di religione. Ah, mia cara Parigi, quanto ti rimpiango!„ Ed allorquando, per [156] una salute deteriorata anzitempo, perde gran parte dei denti, egli prima se ne lamenta; “Se non avessi perduto che il piacere di mangiare, non lo rimpiangerei troppo; ma è assai peggio. Io non parlo più; ecco ciò che è spaventevole. Balbetto nel voler parlare, sovra tutto in italiano: tra i miei denti formasi una specie di zufolio molto sgradevole e di cui mi accorgo io stesso e subito taccio per tema di annoiare gli altri. Ora immaginate cosa sia l'abate Galiani muto. No, non vi ha nulla di più crudele e di più lamentevole; credete pure che non esagero„; e poi trova una consolazione assai più triste del male: “I miei denti mi hanno lasciato; ma non ho più bisogno di parlare; qui nessuno m'intende e nessuno ha la tentazione di ascoltarmi.„

Ma quasi a vendicarsi dei suoi concittadini, la sua vena satirica si risveglia ed egli scrive tutta una serie di opuscoli epigrammatici, che poi pubblica sotto il nome di don Onofrio Galeota, un bizzarro tipo di grafomane e di bohèmien, che viveva in Napoli ai suoi tempi e vi era popolarissimo. Fra questi opuscoli giocosi, in cui il Galiani piacevolmente imita lo stile pomposo, spropositato e tutto intessuto di grossolani napoletanismi di don Onofrio, il più caratteristico è, senza dubbio alcuno, quello pubblicato in occasione di un'eruzione del Vesuvio e che porta per titolo: [157]Spaventosissima descrizione - dello spaventoso spavento - che ci spaventò tutti coll'eruzione del Vesuvio la sera degli otto d'agosto 1779, ma (per grazia di Dio) durò poco - di D. Onofrio Galeota - poeta e filosofo all'impronta.„ A dare un'idea di questa parodia piena di spirito basterà che io ve ne legga una mezza pagina; udite: “La prima meraviglia fu vedere quella gran colonna di lava infocata, che usciva dalla bocca e andava tanto alta. Veramente alzava assai; ma non tanto poi quanto hanno detto. Mi è stato avvisato che, quando fu l'eruzione del 1631, li libri d'allora, stampati tutti con licenza dei superiori, hanno detto che la colonna di fuoco s'alzò diciassette miglia. Ora, io dico, una delle due, o l'eruzioni che si facevano in quelli tempi erano più grandi di quelle che si fanno adesso, o li spropositi, che si dicevano allora, erano più grandi di quelli che si dicono adesso. Veramente diciassette miglia sono miglia. Adesso hanno detto che s'alzò tre miglia, e io manco lo credo, e dico che fu meno assai, e forse non fu nemmeno mezzo miglio; però mi rimetto a chi l'ha misurata, perchè io non ci voglio rimettere di coscienza, e queste cose di pesi e misure sono materie delicate, e per la mezza canna, o quanti vanno all'inferno, che il Signore ce ne liberi!„

[158]

Qualche anno prima della pubblicazione di questo opuscolo era stato rappresentato il famoso “Socrate immaginario„, ad ascoltare il quale, a quanto almeno afferma il Ranieri, tanto dilettavasi Giacomo Leopardi e di cui lo Scherillo ha potuto dire, non interamente a torto, che esso onora la letteratura drammatica italiana quanto la migliore delle commedie di Goldoni.

Molto si è disputato per sapere chi fosse il vero autore di questo capolavoro del teatro napoletano, ma ora sembra assodato che l'idea prima l'abbia avuta il Galiani, che egli n'abbia dato il canovaccio a G. B. Lorenzi, noto autore di molti libretti di opere buffe napoletane, e che inoltre, dopo che costui l'ebbe verseggiato, vi abbia aggiunto parecchi sali, e qualche scena più delle altre originale. La musica poi ne fu scritta dal Paisiello. Eccone l'argomento, secondo vien raccontato dal Galiani medesimo in una delle sue lettere: “È un'imitazione del Don Chisciotte. S'immagina un buon borghese di provincia, che si è fitto in capo di ristabilire l'antica filosofia, l'antica musica, la ginnastica, ecc. Egli si crede Socrate. Ha preso il suo barbiere e ne ha fatto Platone (è il Sancio-Panza). Sua moglie è bisbetica, e continuamente lo bastona: così è una Santippe. Va nel suo giardino a consultare il suo demone, alla fine gli si fa bere [159] un sonnifero dandogli a credere che sia la cicuta, e, mercè l'oppio, allorquando risvegliasi, si trova guarito della sua follia„.

Rappresentata nell'ottobre del 1775, la giocondissima commedia del Galiani e del Lorenzi ottenne uno strepitoso successo d'ilarità, ma, essendosi scoverto che sotto i panni del protagonista si nascondeva una caricatura di don Saverio Mattei, professore di lingue orientali nell'Università di Napoli, poeta metastasiano, cultore fervente di musica, appassionato della letteratura e della filosofia greca e pazientissimo nel sopportare gli scoppii di gelosia e l'umore irascibile della sua consorte, donna Giulia Capece-Piscicelli, si ricorse dagli interessati al Re, che, ad evitare un più lungo scandalo, proibì ogni ulteriore rappresentazione del “Socrate immaginario„, veto che non doveva venir tolto che cinque anni dopo.

Ma diciamolo pure, il buon don Saverio, non aveva avuto tutti i torti di adirarsi, giacchè la satira era davvero spietata.

Alla moglie che gli chiede:

Ma dimmi, arcipazzissimo,

Tu come insegni ad altri

Filosofia, se appena sai di leggere?

don Tammaro, il protagonista della commedia galianesca, risponde:

[160]

Appunto perchè sono

Una bestia solenne, io son filosofo.

Chi fu Socrate? un asino

E te lo proverò. Mai non parlava

Costui da sè, ma domandava sempre,

Chiaro segno evidente

Ch'era una bestia e non sapeva niente....

Ed io maggior mi stimo

Filosofo di lui, per la ragione

Che, ogni qual volta vogliolo imitare,

Nemmeno so che cosa domandare!

Ed ecco come egli narra la trasformazione fatta subire al suo barbiere:

Sta sottoterra ascoso

Il tartufo odoroso: il porco immondo

Lo scava col suo grugno, e quello poi

Si fa cibo di dame e di alti eroi.

Stava così sepolto

Mastro Antonio Tartufo:

Il porco io fui, che lo scavai. Lo tenni

Alla mia scuola, e in men di sette giorni

Filosofo divenne Mastro Antonio;

Gittò ranno e sapone,

Vestì la toga e diventò Platone.

Ed infine don Tammaro riassume il programma della sua nuova esistenza così:

In casa mia

Voglio che tutto sia grecismo e voglio

che sin' il can, che ho meco,

Dimeni la sua coda all'uso greco.

Il nostro abate non impiegava però tutte le ore di libertà che gli lasciava l'importante sua [161] carica ad architettare tali lepidi componimenti, giacchè egli, ritornato a Napoli, compose eziandio varie opere affatto serie e di molta dottrina. Basterà che io rammenti l'importante memoria: “Dei doveri de' Principi neutrali verso i Principi guerreggianti, e di questi verso i neutrali„, in cui, con grande efficacia, sostenne una tesi, che, dopo circa mezzo secolo, doveva venire accolta, in seguito a lunga discussione, dalla Camera legislativa francese; basterà che rammenti la monografia sul “Dialetto napoletano„, che suscitò assai vivaci polemiche, e quella “Vita di Orazio cavata dalle sue poesie„ e quel volume “Degl'istinti e delle abitudini dell'uomo, o sia Principii del diritto di Natura e delle genti, tratti da Orazio„, che sono rimasti sempre inediti, perchè rinchiusi, insieme a varii altri manoscritti galianeschi ed a parecchi carteggi coi più illustri uomini d'Italia e di Francia, nei dieci cassoni, lasciati dall'abate napoletano al suo amico e parente don Francesco Azzariti e da costui alla famiglia Niccolini e poi alla famiglia Santamaria, senza che a nessuno mai venisse concesso di gettarvi uno sguardo, a gran dispetto del povero Ademollo, uno dei più pazienti e scrupolosi studiosi dell'opera galianesca, che non riusciva a darsene pace.

Io, per conto mio, vi confesso, che me ne consolo, leggendo e rileggendo quell'epistolario del [162] Galiani, da cui la figura dell'arguto abate balza fuori così completa e seducente.

A me pare di vederlo il minuscolo abate nel momento che si prepara a scrivere una di quelle sue brillanti lettere alla signora d'Épinay che, appena giunta a Parigi, verrà da lei letta ai suoi fidi, per passare dopo da salotto a salotto e per finire qualche volta in mano di un principe straniero od anche di un nunzio del papa.

Il vasto appartamento, presso la chiesa di Sant'Anna di Palazzo, dove Ferdinando Galiani abitava, è immerso nel notturno silenzio, giacchè da più ore le tre nipoti, rinchiuse nelle loro camere e coricate nei loro letti, sognano dei fidanzati che il buon zio ha saputo procurar loro, e dormono o sonosi ritirati nelle loro case il maggiordomo e gli altri otto domestici; l'abate, che è ritornato or ora dal teatro, dove ha assistito ad un'opera nuova dell'adorato Piccinni, entra nella sua stanza da studio, accarezza la bambagiosa gatta d'Angora, sua diletta compagna da che un amico gliel'ha mandata da Marsiglia e la cui morte improvvisa di lì a qualche giorno lo costernerà così profondamente, posa sur un polveroso fascio di processi, che domattina dovrà compulsare prima di recarsi al Tribunale di Commercio, la parrucca, che tanto pesa all'irrequieta sua testina, ed incomincia a scrivere sul largo foglio bianco.

[163]

La penna dapprima corre sulla carta rapida e nervosa, poi si arresta, perchè l'abate deve consultare una lettera della d'Épinay o gettare uno sguardo fugace alla pallida miniatura, che, nella sua cornice dorata, gli ricorda la graziosa ed elegante sembianza dell'amica lontana. La penna ricomincia a correre, ma d'un tratto una sonora risata risveglia gli echi della stanza e fa balzare in piedi la gatta i cui rotondi occhi fosforescenti rilucono attoniti nella penombra: è l'abate che, con la penna d'oca poggiata sull'orecchio, ride di cuore di una sua facezia scritta or ora e che poi la rilegge compiaciuto ad alta voce, accompagnandola con le più grottesche boccaccie e con la più vivace mimica di tutta la persona, quasi che intorno a lui si affollassero gli amici dei quali, di lì a venti o trenta giorni, la sua lettera susciterà certo la più schietta ilarità. Il fatto è che, mentre scrive, al buon abate sembra proprio di trovarsi tuttora a Parigi nel salotto della signora d'Épinay od in quello del barone d'Holbach e di discorrervi coi suoi amici; ed è proprio ciò che dà alle sue lettere un incomparabile fascino, il fascino della conversazione, il fascino della parola parlata.

Nelle sue lettere, il Galiani tratta saltuariamente i più svariati soggetti, dai più umili e familiari ai più dotti ed elevati. Ora parla di intricate questioni economiche ed un po' dopo si [164] lagna che il suo editore si faccia troppo pregare per dargli quel che gli deve o che glielo dia a piccole somme staccate, ciò che prova che gli editori sono sempre gli stessi in tutti i tempi ed in tutti i paesi; ora fa profezie sull'avvenire politico dell'Europa per chiedere, un momento dopo, che gli si mandino alcune boccette d'inchiostro perchè quello che vendesi a Napoli è pessimo; ora fa acute osservazioni critiche sul teatro per poi lagnarsi che certa tela per camicie speditagli da Parigi non sia di buona qualità.

Di tanto in tanto poi, egli comunica alla sua amica il titolo e l'argomento di un libro, che ha ideato forse nell'istante stesso che verga la lettera. Un giorno è un trattato d'educazione, in cui intende provare che questa è la medesima sia per gli uomini sia per le bestie e che essa si riduce tutta ai due seguenti punti: Apprendere a sopportare l'ingiustizia, apprendere a soffrire la noia. Un altro giorno, immagina un romanzo epistolare fondato sull'amicizia d'infanzia del celebre arlecchino Carlin con Papa Ganganelli, un romanzo che verrà scritto, più di mezzo secolo dopo, dal letterato francese Henry de Latouche. Un altro giorno concepisce un “Sistema sull'origine delle montagne„ in cui trovasi in germe la moderna teoria dell'evoluzione. Un altro giorno infine progetta un libriccino umoristico [165] di cui il curioso titolo dovrebbe essere: “Instructions morales et politiques d'une chatte à ses petits, traduit du chat en français, par M. d'Egratigny, interprète de la langue chatte à la Bibliothèque du Roi„ e di cui ecco il gustosissimo canevaccio: “La gatta inculca dapprima ai suoi piccini il timore del Dio-uomo. In seguito spiega loro la teologia ed i due principii, il Dio-uomo buono ed il Demonio-cane cattivo; poi detta loro la morale, la guerra cioè ai topi, ai passerotti, ecc.; infine parla loro della vita futura e della Rattopoli celeste, che è una città dalle mura di parmigiano, dai pavimenti di polmone, dalle colonne di anguille, ecc., e che è piena di topi destinati a loro divertimento. Essa ispira loro il rispetto pei gatti castrati, che sono chiamati a tale stato dal Dio-uomo, per essere felici in questo e nell'altro mondo, come lo attesta la loro pinguedine, ed è perciò che essi sono dispensati dal pigliare i topi. Finalmente raccomanda loro la più perfetta rassegnazione, nel caso che il Dio-uomo li chiami a questo stato di perfezione, ecc., ecc.„

Nessuno di questi volumi fu scritto dal Galiani ed essi andarono a raggiungere nel limbo letterario l'infinita legione dei libri progettati e non eseguiti, incominciati e non terminati, la cui istoria oltremodo curiosa ed interessante rimane ancora [166] da farsi in un volume, che porti per epigrafe le rivelatrici parole dei Goncourt: “On ne fait pas les livres qu'on veut.„ Che importa? Sono proprio questi i libri ai quali gli scrittori serbano la maggiore tenerezza ed ai quali ripensano sempre con simpatia, simili un po' a quelle vezzose eroine degli amoretti giovanili appena abbozzati e dovuti lasciare a metà, le cui vaghe fattezze vengono evocate con soave mestizia nelle ore angosciose di scoraggiamento sentimentale, in cui l'anima è annebbiata di tristezza ed il cuore sanguina sotto gli artigli della delusione.

Gli autori amano queste loro opere embrionali perchè esse non hanno dato loro nessun dispiacere e perchè appaiono loro sempre illuminate dalla fiamma purissima e lieta della prima concezione. Ahimè! dopo quella prima ora di sublime gioia cerebrale, incominciano le terribili battaglie di tavolino per fermare sulla carta quella fulgida visione del libro futuro, che nell'attuazione si sforma, si contorce, svaporasi.

Oh! gli spasmodici gridi di sofferenza che trovansi nelle lettere di Flaubert alla Sand, in chi di noi, per quanto modestissimo maneggiatore di penna, non ha trovato un'eco di dolore? Chi di noi potrà mai dimenticare la triste e rassegnata esclamazione di lui: “Ah! je les aurai connues les affres du style?„

[167]

Sì, una grande gioia è anche quella di poter mettere la sospirata parola “Fine„ ad un volume, ma in tale gioia v'è anche un po' del grossolano sollievo per una fatica terminata; ma, dopo quel momento supremo, l'opera quasi più non ci appartiene e ad essa non è già più l'anima dell'artista o del pensatore che s'interessa, ma è la vanità dell'uomo, che sogna un entusiastico coro di lodi.

Ecco perchè io stimo che la gioia più pura, più alta, più serena è quella che ci procura la ideazione di un nuovo libro, il quale, nel fremito giocondo di quel primo istante, ci appare bello e completo come giammai sarà, come giammai potrà essere; ed è naturale per conseguenza che il libro, che è rimasto sempre in tale primo stadio senza mai concretarsi, sia pure il figlio prediletto della nostra anima.

Un biografo diligente e scrupoloso osservatore della verità storica vi direbbe che ritornato dalla Francia, il Galiani, eccetto un breve viaggio fino a Venezia, visse sempre in Napoli; ebbene io invece sostengo che egli continuò a vivere per molti anni ancora a Parigi, finchè la morte della sua diletta amica Luisa d'Épinay non venne a troncare il suo bel sogno cerebrale. Oh sì, o signori, ciò che sopra tutto vale è la vita dello spirito ed ognuno di noi può eleggersi una patria [168] ideale, e, mentre qui appare sotto il consuetudinario aspetto di professore, d'impiegato, di medico, può con lo spirito viaggiare pel mondo, può con lo spirito vivere in Francia, in America o nell'Estremo Oriente.

Ma io voglio pur fare qualche concessione alla gente positiva, che di queste nostre metafisiche da esteti compassionevolmente sorride, e mi accontenterò di affermare soltanto che nell'abate napoletano vi erano due uomini, come del resto egli stesso scriveva: “Ma ecco come sono, due uomini diversi impastati insieme, e che pure non riescono ad occupare intero il posto di un solo.„ Ebbene sì, vi era un Galiani severo e dotto magistrato, zio tanto premuroso che riuscì a maritare perfino una nipote brutta e gobba, collezionista appassionato di monete e di medaglie, scrittore di opuscoli eruditi o satirici, che viveva a Napoli, e che dal Tribunale di Commercio passava a Corte e dai salotti dei diplomatici esteri passava al teatro, dove eseguivansi le opere giocose dei musicisti napoletani o dove recitava qualche compagnia francese; ma v'era poi un altro Galiani, e quello continuava a vivere a Parigi ed a farvi la corte alle sue eleganti amiche, a lanciarvi epigrammi ed improperii contro gli Economisti, a discutervi calorosamente sui più varii soggetti cogli Enciclopedisti, a far ridere ed [169] a far meditare coi suoi apologhi, coi suoi frizzi, con le sue capricciose fantasie, con le sue originali riflessioni, con le sue ardite massime, tutto un fedele pubblico di ammiratori: e non è forse questo il Galiani affascinante e geniale, non è forse questo il Galiani davvero degno di interessare noi altri posteri?

Venne però un triste giorno del giugno 1783, ed in esso gli giunse la crudele notizia della morte della sua amica: in quel giorno il suo cuore si spezzò. Alla signora du Bocage, che si era offerta a continuare il carteggio, durato per quattordici anni con la d'Épinay egli scrisse: “La signora d'Épinay non è più! io ho dunque cessato di esistere! Voi m'avevate proposto, nell'ultima vostra, di continuare con voi la corrispondenza che io ebbi l'onore d'intrattenere così a lungo con lei; io intendo tutto il valore del sacrificio che voi vi degnate imporvi; ma come potrei io corrispondervi? Il mio cuore non è più tra i vivi, esso è tutto in una tomba. Perdonatemi, signora, se vi scrivo con tanta franchezza, se vi mostro tanta ingratitudine.... In questa età, in cui l'amicizia diviene più necessaria, ho perduto tutti i miei amici! io ho perduto tutto! non si sopravvive ai proprii amici!„

E può ben dirsi che in quel melanconico giorno [170] il Galiani parigino morisse. In quanto al Galiani napoletano, egli gli sopravvisse ancora quattro anni e qualche mese; coprì nuove e sempre più importanti cariche, in modo da raggiungere in emolumenti la rispettabile somma annua di 27 000 lire; ottenne altri onori; entrò sempre più nelle grazie dei Sovrani; si occupò sopra tutto della riedificazione dell'antico porto di Baja e della bonifica del lago Fusaro; e cessò di vivere, coi conforti religiosi, il 30 ottobre 1787 all'età di 58 anni.

Alcuni giorni prima che egli morisse, la regina Maria Carolina scrissegli una lunga lettera per esortarlo, in vista di una prossima ed inevitabile fine, a fare ammenda dei suoi errori e ad implorare dalla misericordia divina il perdono dei suoi molti peccati. A tale esortazione, per lo meno strana sotto la penna di quel modello d'ogni virtù che fu Maria Carolina, il Galiani rispose con una lettera piena di rispettosa gratitudine, ma piena eziandio di nobile dignità, di cui ecco la chiusa caratteristica: “Non vorrei stancare la pazienza di Vostra Maestà sopra tutto con un movimento che potrebbesi tacciare d'orgoglio, ma mi è impossibile non dire che se ho da rimproverarmi numerosi peccati come uomo e come cristiano, non me ne posso rimproverare uno solo nè come magistrato, nè come suddito....„

Chi ha scritto queste parole e quelle più su [171] riferite in occasione della morte della signora d'Épinay non può certo venir giudicato un cinico egoista, siccome lo hanno proclamato molti, che hanno preso troppo alla lettera alcune frasi del suo epistolario. Disgustato dall'umanitarismo enfatico e dal falso e lezioso sentimentalismo, pei quali, sotto l'ispirazione di quel Gian Giacomo Rousseau, che imprecava contro le madri che non allattano esse stesse i loro bambini, ma che poi mandava i suoi figliuoli alla ruota dei trovatelli, sdilinguivasi quella corrottissima aristocrazia francese, la quale, secondo una frase divenuta celebre, danzava sur un vulcano, l'abate Galiani, che teneva molto, ed aveva ragione, all'originalità del proprio cervello, amava invece di posare, anche un po' forse per spirito di contraddizione, a scettico e gridava che egli non credeva nulla, in nulla, su nulla, di nulla, e si scalmanava a persuadere tutti che egli in politica non ammetteva che il Machiavellismo puro, senza miscele, crudo, acerbo, in tutta la sua forza ed in tutta la sua asprezza.

Ebbene se si esamina coscienziosamente l'esistenza oltremodo laboriosa di questo scettico per progetto, si scorge che egli fu buon patriotta, magistrato integerrimo, suddito fedele, che si mostrò amico tenero e premuroso, che, dopo la morte del fratello, tenne luogo di padre alle figlie di lui.

[172]

Difetti certo n'ebbe e parecchi e gravi, ma ebbe pur la schiettezza di non nasconderli mai come ipocritamente fecero tanti altri grandi uomini: pochi, ad esempio, furono più di lui sensibili al successo delle proprie opere, ma nessuno ha più candidamente di lui confessato che non v'è alcuna vanità la cui ebbrezza sia più violenta della vanità letteraria.

Infine quest'uomo, che sotto la fosforescenza dello spirito nascondeva uno straordinario acume ed un profondo e sano buon senso; quest'uomo che è stato non soltanto un brillante e mordace scrittore, ma anche un vero ed ardimentoso novatore in economia politica ed in diritto pubblico; quest'uomo, i cui paradossi, sparsi con opulenta prodigalità nelle sue stupende lettere, fanno ripensare alla definizione di un illustre odierno scrittore, pel quale il paradosso dell'oggi è la verità del dimani; quest'uomo di cui Edmondo de Goncourt, tempo fa, non peritavasi di proclamare che possedesse “une cervelle autrement philosophique que la cervelle à la mince ironie de monsieur de Voltaire„ rimane, checchè ne dica certa maniaca critica iconoclasta, una delle più gloriose personalità, che abbiano, nel secolo scorso, onorata l'Italia Meridionale.

[173]

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