II.

Per comprendere il grande significato che ha nella letteratura e nella storia d'Italia Vittorio Alfieri bisogna, si capisce, riportarsi ai tempi.

In quel periodo di lunghissima pace che ebbe l'Italia dal 1749 (l'anno appunto in cui l'Alfieri è nato) al 1796, sarebbe grave ingiustizia il dire che tutto fu ignavia, inedia e peggioramento nella penisola.

I costumi seguitarono ad ammollirsi, ma bisogna pur anche riconoscere che l'orizzonte delle idee cominciò ad allargarsi e rischiararsi. Persino in quei vecchi e logori organismi dei governi d'allora si fa sentire una certa inquietudine di nuovo, una certa velleità di riforme. Nel pensiero poi il risveglio è evidentissimo. Giovan Battista Vico e Giannone sono morti, ma intanto l'Italia meridionale vanta il marchese Filangeri, Melchiorre Delfico, Mario Pagano e l'abate Galliani, il quale, recatosi a Parigi, prese, a confessione degli stessi francesi, lo scettro dell'arguzia pronta e dello spirito scintillante, caduto per morte dalle mani del signor di Voltaire. Nell'Italia superiore abbiamo i due Verri, il Beccaria, il [315] Palmieri, il Ricci, l'Ortis, il Genovesi. Però, v'ho detto che il Vico e il Giannone erano morti. La pura tradizione del pensiero italico pare, in qualche guisa, interrotta; ma non è senza un grande compenso; poichè è grande e benefico il movimento delle idee che vengono d'oltremonte. In sostanza, o signore, non dobbiamo dolercene poichè l'Italia non poteva isolarsi e sequestrarsi da quella impetuosa corrente di rigenerazione intellettuale che agitava le più civili nazioni d'Europa. Possiamo anche aggiungere, a nostro conforto, che se la tradizione scientifica della nazione in qualche guisa declinò, la virtù del genio paesano ebbe campo di vigorosamente esprimersi e affermarsi nel campo letterario. Gli influssi francesi anche qui non mancano, e così quelli inglesi; nel teatro e nel romanzo siamo, si può dire, soffocati dalle sovrabbondanti imitazioni che vengono dalla Francia e dall'Inghilterra; ma intanto il Baretti rialza il tono della critica e fa conoscere Guglielmo Shakespeare; il Cesarotti scrive libri sopra la filosofia delle lingue e traduce l'Ossian; mentre da ogni parte, anche quegli scrittori che paiono più ligi alle tradizioni arcadiche e frugoniane di tanto in tanto sono rialzati e rianimati da un soffio di vita nuova. Fatto è che tutto questo apparecchio e tutto questo movimento noi vediamo metter capo a tre scrittori, che sono tre [316] artisti di primo ordine: il Goldoni, il Parini e l'Alfieri. Il Goldoni con intuito meraviglioso riconduce l'arte alle fonti del naturale; Giuseppe Parini le ricompone la dignità morale e riprende la sua missione civile; in quest'arringo entra tempestando Vittorio Alfieri e vi porta un fuoco di combattimento e una forza di sdegni di cui non avevamo idea, forse, in Italia dopo che Dante Alighieri era disceso nel sepolcro. E non è uno sfolgorio di forze sregolate e inconsapevoli; si tratta invece di una vera e ordinata potenza d'apostolato civile e politico che domina lo spirito di Vittorio Alfieri; e per trovare qualche cosa di simile dobbiamo risalire a Nicolò Macchiavelli.

Però io mi affretto ad affermare, o signore, che la grande potenza di Vittorio Alfieri è espressa nelle sue 19 tragedie. Le Rime, le Commedie, le Satire, gli Epigrammi, l'Etruria liberata, il Misogallo, il volume Della Tirannide, e la stessa sua Vita, quantunque sia un documento preziosissimo di sincerità umana e d'un animo cavalleresco, generoso e sotto la scorza un po' ruvida, inclinato ai sentimenti più gentili, tutte quest'opere, io dico, non avrebbero avuto grande presa sullo spirito del pubblico italiano, se dietro la figura del fiero conte astigiano la fantasia del pubblico non avesse visto grandeggiare la Musa della tragedia alfieriana, che ha agitato dintorno a noi [317] tante ombre insanguinate e dolenti. Alla vena satirica dell'Alfieri mancano doni troppo necessari; manca quella bonaria semplicità e quella arguta spontaneità che sono gran parte della forza del poeta satirico. E quantunque alcuni suoi epigrammi abbiano continuato a circolare per tutte le classi del popolo italiano, e uno di essi sia rimasto come uno schema programmatico della nostra rivoluzione civile e politica per oltre mezzo secolo (Vescovi e preti - Sien pochi e queti, etc.) io non credo di essere irriverente verso la sua memoria affermando che, se altro l'Alfieri non avesse composto che le opere minori, poco si parlerebbe oggi di lui.

E non dubito parimenti di affermare che anche sul suo teatro tragico il tempo ha esercitato l'opera sua di distruzione. Ma questo è un fatto d'un ordine molto differente. Sì, è vero: il teatro di Vittorio Alfieri non ha più da lunga pezza la notorietà e la popolarità che ebbe un tempo. Se non è il caso che qualche attore meraviglioso evochi le figure di Saul o di Filippo, esse non compaiono più sulle nostre scene. Anche il buon popolo, questo strato profondo nel quale pareva così durevolmente penetrato lo spirito tragico di Vittorio Alfieri, anche questo ultimo suo cliente domenicale dei teatri diurni, a poco a poco lo ha abbandonato. Oggi il popolino [318] nostro preferisce di commuoversi alle peripezie di Nanà e di piangere tutte le sue lagrime ai dolori della Signora dalle Camelie! Ma questo, o signore, è fato comune. L'opera teatrale ha in sè stessa uno spirito d'arte che può renderla eterna; ma ha nello stesso tempo una ragione di caducità, che, dopo un breve periodo, la toglie irremissibilmente alle pubbliche scene. Chi pensa oggi a rappresentare i capolavori di Eschilo, di Sofocle e di Euripide? E del grande teatro francese non è avvenuto lo stesso? Se non ci fosse a Parigi un'istituzione fondata apposta per tener vive le rappresentazioni di certi capolavori, quante volte credete voi che a Parigi si rappresenterebbero il Cid, la Fedra, il Misantropo? Rimane, meravigliosa eccezione, il teatro di Guglielmo Shakespeare. Ma anche sul conto del sommo tragico inglese ho un'idea che voglio manifestarvi. Suol dirsi che lo Shakespeare non passa sulla scena perchè solo ne' suoi personaggi è espresso l'uomo eterno. Esagerazione! L'uomo eterno è anche in Filottete, in Rodrigo, in Alceste. Io credo che il tragico inglese stia ora beneficiando il lungo e immeritatissimo oblio nel quale l'Europa l'ha tenuto per più di due secoli. Ma venendo al fatto, quanti drammi di Shakespeare tengono ancora la scena, fra i tanti che ne compose? Cinque o sei a dir molto; e per giunta ridotti; ed è tutt'altro [319] che improbabile che anche questi pochi col tempo vengano messi in disparte. Questo non toglierà naturalmente nè al Re Lear, nè all'Amleto, nè al Macbeth di essere dei meravigliosi capolavori e di venire per tali ammirati da quanti con animo capace li leggeranno.

Ma venendo un poco più presso al nostro argomento, io mi son domandato più volte: Le critiche fatte al teatro di Vittorio Alfieri in quale categoria dobbiamo noi collocarle? Hanno ragione per esempio i due Schlegel e Madama di Staël che lo considerano come un autore tragico convenzionale, freddo, fuori della vita? Ebbe ragione il Lamartine quando con quella sua consueta superficialità di critica lo chiamò “un Seneca senza Roma?„

Per essere almeno fortemente dubitosi che questi signori avessero ragione, bisognerebbe che fossimo certi che, leggendo l'Alfieri, essi lo hanno ben capito. Ora, essendochè anche per noi italiani l'Alfieri è circondato di molta oscurità ed è anzi a ragione censurato di questo; e considerando che, se vi è autore drammatico che sfugga gli apparati esteriori e che tutto il valor suo concentri nell'intima significazione del soggetto per virtù dello stile è appunto l'Alfieri, e che quindi per arrivare fino a lui fa d'uopo possedere tutte le più sincere e più complete ragioni [320] della critica, permettetemi, o signore, di non credermi irriverente se dubito che i due Schlegel e madame di Staël e il Lamartine conoscessero abbastanza l'Alfieri per poterlo sicuramente giudicare.

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