III.

Noi, per giudicare bene l'Alfieri tragico, dobbiamo anzitutto ricercare quale idea egli si fosse formata della tragedia prima di accingersi a comporne; e da quali concetti e sentimenti egli fosse accompagnato nello svolgere la serie delle sue composizioni tragiche. Per intendere questo fa d'uopo tornare alla sua vita.

Abbiamo accennato come egli venne su e quanto poco studiasse nell'infanzia e nella adolescenza. Confessa egli stesso che “sdegnò ogni studio.„ Ma ferveva in lui il bisogno del sapere. Di tanto in tanto gli balenava il fantasma luminoso e attraente della gloria; talvolta anche era preso da un'indicibile vergogna della propria ignoranza; e allora pareva che due uomini lottassero aspramente dentro di lui. In sostanza la sua è una educazione letteraria che comincia tardi e procede malissimo; cioè confusa, interrotta, a sbalzi, per [321] colpi di sorpresa e per impeti di entusiasmi subitanei e fortuiti. Per esempio: oggi gli capita in mano Plutarco, ed ecco che lo investe il desiderio di celebrare gli uomini meravigliosi dei quali ammira le gesta; domani legge la canzone Alla Fortuna di Alessandro Guidi, s'esalta, s'infiamma, si dibatte sul proprio divano, tanto che è costretto ad interrompere la lettura; e giura che ode suonare dentro di sè una voce che gl'impone d'esser poeta.

Così di mano in mano la sua vita passa sempre fra queste scoperte, fra questi subiti entusiasmi. Oggi è Sallustio che lo attrae, domani sarà Tito Livio, che un impiegato gl'impresta nel viaggio interrotto da Sarzana a Firenze; più tardi, a Siena, sarà Macchiavelli quando l'amico Gori gli metterà per la prima volta nelle mani un esemplare delle opere del segretario fiorentino.

Ed ogni volta che fa di queste scoperte, ecco che si rinnovano questi abbandoni completi del suo animo ad un'ammirazione sconfinata, assoluta e del tutto libera da ogni temperamento e da ogni governo della critica. Così sull'ultimo limite della sua vita, a cinquant'anni, quando nessuno di noi oserebbe pensarci, si mette a studiare il greco, ed essendo riuscito colla ferrea forza del volere a superare anche questa volta ogni ostacolo, ne diventa tanto glorioso che fonda [322] l'ordine del divino Omero e crea sè stesso primo cavaliere di quell'ordine.

Insomma, se devo tutto rendere con un immagine, a me Vittorio Alfieri dà l'idea d'un eterno studente di rettorica. Per aver cominciato ad esserlo tardi, egli è costretto ad esserlo per tutta la vita.

Questo singolare e forse unico procedimento educativo doveva avere ed ebbe delle conseguenze gravissime. Vittorio Alfieri - l'eterno studente - della tradizione e della autorità classica non dubita mai. Sotto questo aspetto chi guarda nell'animo suo trova una grande somiglianza con quei primi umanisti del nostro Rinascimento i quali accoglievano con una venerazione incondizionata tutto quello che veniva dalla sacra antichità. Infatti in Alfieri ciò che sorprende anzitutto è la sua assoluta mancanza di ogni senso critico tutte le volte che egli si trova di fronte a un classico. Questo tanto più ci meraviglia se pensiamo ch'egli visse in mezzo a tanta espansione e libertà di critica. In quell'epoca la Francia aveva il suo Diderot, la Germania il suo Lessing, e l'Italia il suo Baretti per tacere di tanti altri. In mezzo a tutti questi uomini che esaminano liberamente l'antichità, la discutono, la negano anche, Vittorio Alfieri non sa che adorare. Egli, così libero in tutto il resto, [323] qui è sempre entusiasticamente devoto e sottomesso; e fa soprattutto meraviglia vedere come a lui manchi quel senso e quel criterio di graduazione, senza del quale è impossibile la verità dei giudizi. Egli dice indifferentemente “il divino Sallustio, il divino Tacito„ come dice “il divino Omero, il divino Dante.„ Quest'ammirazione che io direi monometrica dell'Alfieri ebbe certo una grande influenza sul modo che egli adoperò nel concepire la tragedia. Ricordiamo ancora che Vittorio Alfieri fu un conte democratico, odiatore di tiranni se mai ce ne furono. Ma come fu un patrizio democratico, così io direi che tenne molto ad essere un poeta patrizio. Tutto quello ch'egli aveva conceduto di buon grado, spinto dall'animo suo generoso e filantropico, nel campo dell'araldica, lo voleva riconquistare nel campo delle lettere; e fu, in sostanza, il poeta più rigidamente aristocratico che potesse immaginarsi.

Da questa educazione e da questa indole l'Alfieri fu mosso a cercare la via che ad esse meglio si confaceva per riuscire originale; e vi riuscì spingendo all'ultimo limite, cioè alla sua più rigida espressione, il tipo della tragedia pseudo classica.

Egli avrebbe voluto riuscire poeta più rigidamente classico dei classici stessi. E notate altro contrasto. Mentre nel campo della politica gettava [324] via tutti i vecchi vincoli e saltava tutti i vecchi confini, nel campo delle lettere egli amava studiosamente tutto ciò che vi era di autoritario e di coercitivo. Come certi poeti lirici amano di moltiplicare le difficoltà del ritmo e della rima perchè il cesello dell'opera loro risulti più evidente e più prezioso, Vittorio Alfieri immaginò una tragedia ridotta alla sua più rapida e secca espressione, dove ciò che si intendeva per tradizione classica non era solamente osservato con riverenza ma anche oltrepassato con una specie di zelo feroce. Così, l'orgoglioso poeta, volle circoscrivere il proprio agone e farlo angusto e difficile per meglio mostrarsi in esso gloriosamente; a somiglianza di quell'atleta che volontariamente si carichi di pesi o si leghi un braccio nella lotta perchè meglio appaiano la sua agilità e la sua forza.

Vedete fatto strano! Vittorio Alfieri non discute mai l'autorità degli antichi. Eppure quella autorità è ormai discussa da tutti. Perfino Pietro Metastasio, quel mansueto e mite abate che assai volentieri si genufletteva dinanzi a Maria Teresa, suscitando gli sdegni dell'astigiano, perfino il buon Metastasio paragonato a Vittorio Alfieri nelle concezioni letterarie diventa uno spirito indipendente, quasi un rivoltoso. Infatti egli, commentando la poetica d'Orazio, esprime idee e intendimenti [325] evidentemente più larghi, più sciolti - direi con moderno vocabolo - più liberali di quelli che esprime l'Alfieri. Del Baretti, del Conti, del Gozzi è inutile ch'io parli. L'Alfieri invece mette tutta la sua compiacenza e il suo orgoglio nel restringere sempre più i vincoli che regolano il componimento tragico, e non gli garba e allontana da sè tutto quello che può avere l'aria di una concessione e d'un lenimento, tutto quello che può essere inteso come una facilitazione a conseguire l'effetto. Egli vuole essere solo colle proprie forze e privo d'ogni aiuto; solo a proseguire uno schema di tragedia nuda, inamabile, talvolta persino mostruosa e feroce. Raccolto e fisso in questa idea, vede quanto partito sapessero i tragici cavare dai cori; e bandisce i cori. - Legge i tragici francesi, vede quanti argomenti di facilitazione alle scene e di preparazione alle catastrofi essi traggono dall'intervento delle nutrici e dei confidenti; ed egli bandisce le nutrici e i confidenti. - Legge nella poetica d'Orazio che il quarto personaggio dell'azione non deve incaricarsi di parlare troppo; ed egli prende alla lettera il consiglio, lo muta in precetto, lo esagera e restringe l'azione delle sue tragedie quasi sempre a tre soli personaggi. - L'amore egli sa, egli sente, qual dilettoso e magico coefficente sia per tenere i cuori della folla, per [326] esaltarli, per commuoverli; ebbene, egli bandisce dalle sue tragedie anche l'amore! - Le donne amanti d'Alfieri sono per lo più delle figure secondarie; amano sciaguratamente, e sono sempre vittime d'una potenza superiore che loro toglie perfino la possibilità del contrasto. Una fatalità ineluttabile, una politica feroce invade l'ambiente, ed esse, le povere e deboli vittime, o la subiscono inconscie o sono spazzate via come fiori dal turbine. Una sola volta l'Alfieri si mette di proposito a comporre una tragedia che ha per base un vero amore femminile. Ebbene, anche questa volta egli è sedotto dal suo demone; e in tanta abbondanza di soggetti va proprio a cavar fuori Mirra, documento mirabile del suo ingegno, una delle prove più vittoriose delle sua facoltà tragiche; ma voi ben sapete quanto poco lo aiutasse la scelta dell'argomento. E non basta. Nessuno ignora quale efficacia e quanta facilitazione all'effetto teatrale abbiano derivato gli altri poeti tragici dalla effusione lirica abilmente innestata all'azione e al dialogo serrato delle tragedie. Non la sdegnarono certo i greci, e basterebbe ricordare sopra tutti Euripide. Dei moderni è inutile parlare. Quanta parte, per esempio, non verrebbe diminuita del teatro tedesco e spagnuolo se si volesse sopprimere la lirica? Ebbene: anche di questo elemento il nostro Alfieri si mostra sdegnoso. Egli getta [327] da sè, dal suo bagaglio poetico tutto quello che non è nuda e rigida e laconica espressione dello schema drammatico. Non si ferma mai a cogliere un fiore lungo i margini della sua strada; e corre austero e rapidissimo verso la propria meta.

Tale si formò nella mente di Vittorio Alfieri l'ideale della tragedia e tale volle esprimerlo. Egli lo definì in un passo della sua lettera in risposta a quella di Ranieri Calsabigi, il quale gli aveva scritto una lunghissima tiritera infarcita di erudizione indigesta, sopracarica di lodi e mescolata anche di qualche critica non sempre infondata. Il fiero conte che non rispondeva quasi mai alle critiche, che gli giungevano da ogni parte d'Italia o in senso laudativo o in senso di biasimo, al Calsabigi rispose: “Vorrei la tragedia di cinque atti, piena, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto: dialogizzata dal solo personaggio, attore, non consultore, o spettatore: la tragedia di una sola tela, ordita, per quanto si può, servendo alle passioni: semplice per quanto l'uso d'arte il comporti: tetra e feroce per quanto la natura lo soffra: calda quanto era in me. Ecco la tragedia che io ho concepito. Per questa volli, sempre volli, fortissimamente volli.„

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