IV.

Gli effetti di tanta rigidezza schematica inducente a tanta servitù volontaria, voglio anzitutto considerare nel loro lato negativo.

È certo, per esempio, che nelle tragedie di Vittorio Alfieri voi sentite sempre e solo le voci degli uomini, quelle delle cose e dell'ambiente quasi mai. Nei teatri degli altri poeti noi non possiamo disgiungere questi due elementi, i quali potranno essere distribuiti in diversa misura, ma stanno pure fra loro in una certa utile proporzione. Se noi, caso per caso, tragedia per tragedia, raccogliamo dentro il nostro spirito l'azione complessa e concorde di questi due diversi coefficienti, i grandi effetti saltano agli occhi. Basterà ricordare l'esempio di alcune tragedie di Shakespeare ove è manifesto che gli animi degli spettatori rimangono sempre divisi tra l'azione dei singoli personaggi e quella dell'ambiente. Come, ad esempio, potreste spartire nella vostra mente gli effetti che vi produce l'Amleto, senza distinguere la parte dovuta a ciò che vi ha di fantasticamente [329] suggestivo nella rappresentazione dei luoghi, dalla azione pura e semplice dei personaggi? Come non tenerne conto nella scena della piattaforma di Elsinora in quell'alto silenzio della notte, colla voce delle guardie che si rispondono, prima che appaia lo spettro di Amleto? Poi la vita interiore di quella corte danese, con quel teatro dov'è combinata dallo spirito vendicativo del giovane principe la scena che farà confessare al delinquente il suo delitto; e poi il cimitero dove echeggiano le lepidezze dei becchini; poi, mentre suona la voce malinconica di Amleto, i suoni della lugubre sinfonia che accompagna al sepolcro il corpo della povera Ofelia.... Tutta questa eloquenza de' luoghi e delle circostanze concorre moltissimo all'effetto dell'azione; toglietela e molta parte del sentimento tragico sfumerà.

Invece l'Alfieri dal suo alto coturno rinunzia con gesto sprezzante a tutto ciò. Egli vi pianta i suoi personaggi dinanzi ad un freddo colonnato dorico; e lì, nello spazio di poche ore, debbono vivere, soffrire, morire. Egli arriva a sottilizzare, a spiritualizzare talmente i suoi caratteri che talora egli è costretto a disumanizzarli. Io non so trovare altra parola per esprimere il mio concetto. E come si compiace egli di tutto questo sfrondare, condensare, scheletrizzare! Si direbbe che se anche di quel piccolo apparato esteriore egli [330] potesse far getto, lo farebbe tanto volentieri onde così richiamare e concentrare tutto lo spirito e tutta l'azione tragica nel mero e invisibile teatro dell'umana fantasia.

Ma quando colla vigoria scultoria del verso, colla veemenza delle passioni, nel dialogo serrato, nella successione delle scene correnti verso la catastrofe, egli arriva a rapirci e a portarci in quel mero e invisibile teatro della umana fantasia, o signore, allora come ci avvediamo che Alfieri è davvero grande! E ci vengono spontanei alla memoria i versi che a lui volgeva il Parini:

Come dal cupo, ove gli affetti han regno,

Trai del vero e del grande accesi lampi,

E le poste a' tuoi strali anime segno

Pien d'inusato ardir scuoti ed avvampi!

Giorgio Hegel, investigando la essenza del componimento tragico, dice che bisogna istituire una certa equazione estetica fra la tragedia e la statuaria. Leggendo questo passo del filosofo tedesco, la mente corre subito all'Alfieri, e la comparazione assume un carattere tanto individuale che pare fatta pensando a lui. Quel marmo nudo, quelle linee austere e semplici, senza vaghezza di fondo, senza ambiente, senza policromia, mute, fredde; ecco veramente la tragedia d'Alfieri! Questa somiglianza colla scultura non ha solo, o signore, un carattere figurativo e superficiale ma [331] qualche cosa di intimo e di profondo. Dinanzi alle più perfette tragedie dell'Alfieri si prova un sentimento assai somigliante a quello che ci fanno provare alcune delle opere più celebrate della statuaria antica.

Di lui si potrebbe dire quello che il Wielland disse di Cristoforo Glück, il fondatore del melodramma moderno. Anche Vittorio Alfieri “preferì le Muse alle Sirene.„ Peccato che più d'una volta egli siasi dimenticato che le Muse pretendono d'avere una voce non meno melodiosa e non meno piacevole di quella delle Sirene!

I critici restringono i difetti dell'Alfieri principalmente alla durezza e all'oscurità. E notate che l'autore stesso non osava molto difendersi; dirò anzi che alcune volte accoglieva con compiacenza queste censure. Non si ricordò egli dell'aurea sentenza di Quintiliano, che la brevità non consiste nel dire poco, ma nel dire nè più nè meno di quanto occorra perchè le forme del nostro pensiero e i moti dell'anima siano resi evidenti e forti in chi ci legge e in chi ci ascolta. Vittorio Alfieri invece fece della brevità una cosa sola colla sostanza e col contenuto delle sue concezioni tragiche. È così invasato (questa parola s'incontra spessissimo nella Vita e nelle lettere) è così invasato dal furore che lo incalza verso la catastrofe, che accoglie con trasporto [332] tutto quello che accorcia in qualunque modo la strada che ha dinanzi. E questo lo persuade a riprender sempre la sua materia letteraria fra le mani inquiete, e a tormentarla in tutti i sensi, pur di spremere sempre qualche sacrifizio di possibile superfluità, pur di aggiungere sempre qualche spizzico di laconismo. Di ciò arriva egli a compiacersi quasi puerilmente; e allora allinea le cifre dei versi di cui si compongono le sue tragedie, dimostrando con orgoglio che, per esempio, nella elaborazione di quella tale sua tragedia i versi erano da prima 1400, ma nella seconda prova diventarono 1350, nella terza scesero fino a 1320. E mostra di non dubitare un momento che questi 50, questi 80 versi strappati alla prima fattura siano sempre una legittima conquista dell'arte, un passo di più verso la perfezione!

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