IV

Da per tutto noi vediamo del resto, in modo diverso, un lungo periodo d'incubazione, che precedette la formazione del Comune, il quale nacque, come era naturale, dagli elementi preesistenti. La celebre Concordia che il vescovo Daiberto fece a Pisa, circa il 1090, forse anche qualche anno prima, dimostra che i nobili erano organizzati e fieramente si combattevano fra loro colle torri, che egli indusse a demolire in parte, con solenne giuramento di non oltrepassare mai l'altezza di 36 braccia, la quale era stata già prima determinata nel diploma di Enrico IV (1081). E colui, cosí proseguiva la Concordia, che crederà essere ingiustamente danneggiato nelle sue case, dovrà querelarsene ad commune Colloquium Civitatis; né la casa del disturbatore potrà essere demolita, senza l'approvazione della cittadinanza intera.

Da tutto questo documento si vede non solo che i nobili pisani erano già organizzati; ma che avevano dentro la Città una importanza non mai avuta a Firenze. Ancora non troviamo i Consoli, e se ci fossero stati, il documento li avrebbe certo nominati. Vi sono però tutti gli elementi che costituiranno quel Comune assai piú aristocratico del fiorentino. Si vede in fatti già un commune Consilium di Sapientes o Boni homines, che è una specie di Senato, ed il commune Colloquium di tutti i cittadini, che sarà poi il Parlamento o Arrengo. Cinque Sapientes, di cui si danno i nomi, si trovano accanto al Vescovo. Essi sono gl'immediati precursori, i Vorbilder, (come dice giustamente il Pawinski) dei Consoli, che poco dopo, nel 1094, troviamo finalmente nominati in un'altra Concordia dello stesso Daiberto. Alla loro autorità (huius civitatis Consulibus) egli esplicitamente se ne appella, ordinando che fossero lasciati in pace i fabbri, i quali attendevano ai lavori che eran tenuti fare al Duomo. Il Comune pisano adunque è preceduto da una lotta di nobili armati ed ordinati intorno alle loro torri, ed i suoi Consoli sono nominati la prima volta a difesa dei fabbri.

L'esistenza delle Arti fin dal secolo ix in Venezia viene accertata dalla cronaca Altinate, la quale ci prova che sin d'allora esistevano alcune maggiori industrie, esercitate da determinate famiglie, ed i mestieri propriamente detti o ministeria, assai piú umili, costituiti già come consorzî di persone, che esercitavano l'arte loro, con regole tradizionali, definite. Questi mestieri o ministeria indicavano una condizione non perfettamente libera, giacché coloro che vi appartenevano erano tenuti a prestare allo Stato alcuni servizî gratuiti. Le industrie maggiori, invece, come quelle del mosaico, dell'architettura e simili, che richiedevano piú coltura ed ingegno, esercitate dalle principali famiglie, erano conciliabili con gli ufficî politici dello Stato. Un documento del secolo xi ci dimostra che allora l'Arte dei fabbri era costituita con a capo un Gastaldo, contro il quale uno dei membri ricorse al Doge, per aver giustizia, secondo le consuetudini non ancora scritte. Tutto ciò costringe a credere che l'esistenza delle Arti e delle associazioni in genere, nelle quali la cittadinanza dei Comuni si trova piú tardi divisa, era antichissima, e che a Firenze come altrove erano costituite già prima che il Comune avesse proclamato la sua indipendenza. Altrimenti sarebbe impossibile spiegarsi l'esistenza d'una città che, senza quasi avere un governo visibile, già prosperava nel commercio, e faceva guerre per proprio conto. Tutti i fatti che seguono e dei quali non si può dubitare, resterebbero inesplicabili.

V

Noi abbiamo dunque sin da' tempi di Matilde, una cittadinanza divisa e costituita in gruppi. Da una parte sono le antiche Scholae, trasformate in associazioni d'arti e mestieri, il germe delle future Arti maggiori e minori; da un'altra le parentele, le consorterie dei Grandi, il germe delle future Società delle Torri. Tutte queste associazioni formavano già il governo effettivo della Città, nella quale i Grandi avevano i principali ufficî, affidati ad essi da Matilde. È assai probabile che quello di Preside, secondo l'usanza del Medio Evo, rimanesse in una medesima famiglia o consorteria, forse quella degli Uberti, i quali, come vedremo, già erano tra i piú potenti, e vantavano un'origine germanica. Però Grandi e popolo non erano allora nemici e divisi, ma uniti da vincoli e da interessi comuni. Infatti, come dicemmo, ben presto i documenti ci mostreranno che alcuni dei Grandi pigliano parte al commercio, si trovano alla testa delle Arti, e già ora combattono, uniti al popolo, contro i nobili del contado. Essi erano, è vero, i possessori della terra e degli armenti, ma tutto ciò formava allora la sorgente principale dell'industria e del commercio fiorentino, a difesa del quale furon intraprese le prime guerre. I castelli che circondavano la Città, chiudevano le vie del commercio; da essi usciva di continuo gente armata, che assaliva, batteva coloro che dalla Città portavano i prodotti del suolo o dell'industria nei vicini paesi. La contessa Matilde, occupata nelle sue continue guerre, di rado poteva dare aiuto, e quindi i Fiorentini, che combattevano in nome di lei, dovevano di fatto difendersi colle proprie armi. Questa unione di tutta la cittadinanza, stretta dai medesimi interessi, in un solo pensiero, contro un comune nemico, fu ciò che costituí allora la forza del popolo di Firenze, del quale Dante ed i cronisti esaltarono con tanto calore la lealtà, la purità dei costumi ed il valore. È il momento in cui si pongono, con la virtú, le basi della futura indipendenza e prosperità del Comune.

Il Villani certo esagera, ma dice pure una cosa che in fondo è vera, quando all'anno 1107 (IV, 25) afferma, che «la Città, essendo molto montata e cresciuta di popolo, di genti e di podere, ordinarono i Fiorentini di distendere il loro contado di fuori, e allargare la loro signoria, e qualunque castello non gli ubbidisse, di fargli guerra». In questo anno infatti essi cominciarono le loro guerre, assalendo il castello di Monte Orlando, presso la Lastra a Signa, che i cronisti chiamano anche da Gangalandi o Gualandi, e che dipendeva dai conti Cadolingi, famiglia allora potentissima, ben presto nemica acerrima di Firenze. Nello stesso anno assalirono e distrussero il castello di Prato, che apparteneva ai conti Alberti, altri nemici potentissimi. Qui però troviamo presente in campo la Contessa, e cosí si spiega piú facilmente la vittoria.

Nel 1110 abbiamo notizia di un'altra guerra. Florentini iuxsta Pesa Comites vicerunt, dicono gli Annales I, i quali incominciano appunto con questo avvenimento, che fanno seguire il 26 maggio. I Comites qui non possono essere i conti Guidi, amici allora di Matilde e di Firenze, contro la quale combatterono assai piú tardi, quando vennero per antonomasia chiamati i Conti. In Val di Pesa furono nel 1110 combattuti e vinti i Cadolingi, chiamati anche Cattani lombardi, che possedevano da Pistoia, per la Val di Nievole, fin verso Lucca, e pel Val d'Arno inferiore, fin verso Firenze. Se questa poté dar loro una rotta, bisogna concluderne che già aveva acquistato una gran forza, quantunque si debba supporre che anche ora sia stata aiutata dalle genti di Matilde.

Nel 1113 seguono altre due imprese militari, che dettero luogo a dispute infinite fra gli eruditi, perché narrate in modo diversissimo dai cronisti. Abbiamo prima di tutto l'assalto e distruzione di Monte Cascioli, che alcuni pongono nel 1113, alcuni nel 1114, altri nel 1119, quando sarebbe stato difeso da un Tedesco, Rempoctus o Rabodo, vicario imperiale, che vi morí. Altri cronisti ripetono la distruzione del castello nei tre diversi anni, e finalmente il Villani mette il colmo alla confusione, riunendo in uno i vari assalti, ponendoli tutti nel 1113, e dicendo che il castello era stato ribellato da Roberto tedesco vicario dell'Imperio, il quale risedeva in S. Miniato al Tedesco (IV, 29). Ma nel 1113, prima cioè che morisse la Contessa, non v'era un vicario imperiale in Toscana, e però non poteva risiedere a S. Miniato, che ancora non aveva l'appellativo al Tedesco. La confusione però secondo noi cessa del tutto, i cronisti si pongono d'accordo, e le diverse narrazioni si spiegano facilmente, se si ritiene che nel 1113 vi fu solo un primo assalto a Monte Cascioli, che poté difendersi con vigore. Non si riuscí allora che a distruggere una parte sola delle mura, e fu perciò necessario rinnovare l'assalto nel 1114, quando esse furono demolite. Piú tardi vennero ricostruite, e però nel 1119, quando Firenze già era indipendente, tornò ben due volte all'assalto, nel quale uccise il messo dell'Impero, che ne aiutava la difesa: il castello allora venne finalmente demolito e bruciato. Ma senza anticipare i fatti, possiamo qui concludere che, prima della morte di Matilde, i Fiorentini colle guerre di Monte Orlando, di Prato, di Val di Pesa, di Monte Cascioli, si erano aperte al commercio le vie di Signa, Prato e Val d'Elsa.

Un altro avvenimento, seguito pure negli anni 1113-15, e ricordato invece dai cronisti nel 1117, l'impresa cioè dei Pisani alle Baleari, dette anch'esso origine ad una disputa abbastanza intricata. Come già dicemmo, i Pisani guerreggiavano i Musulmani fin dalla metà del decimo secolo, e la guerra infierí piú che mai nella seconda metà dell'undecimo. Nel 1087, uniti ai Genovesi, essi schierarono una flottiglia di quaranta navi dinanzi a Mehdia; nel 1113 partirono per la piú grossa impresa delle Baleari. Con essi andarono molti conti e marchesi lombardi e dell'Italia centrale, fra cui anche alcuni del contado fiorentino. Unitisi poi ai conti di Barcellona, di Montpellier, al visconte di Narbona e ad altri, assalirono le Baleari, e, dopo ostinatissima difesa, presero il castello di Maiorca, menando secoloro un giovane Burabe, ultimo rampollo della dinastia che ivi governava. Il Villani accennando a questa guerra (1113-15), la fa seguire, al pari di altri cronisti, nel 1117, ed aggiunge che i Pisani, temendo, nel partire, che i Lucchesi, come già altra volta avevano fatto, assalissero la loro città, ne affidarono la guardia ai Fiorentini. Questi s'accamparono subito a due miglia dalle mura, e severamente ordinarono che nessuno del campo osasse entrare in Pisa, pena la vita, perché non volevano che, trovandosi essa quasi vuota di uomini, venisse fatta qualche ingiuria all'onore delle donne, con grave discredito della lealtà fiorentina. E l'ordine dato fu mantenuto. Un solo che osò violare le leggi della disciplina venne condannato a morte, né a salvarlo valsero punto le preghiere dei Pisani, i quali, non potendo altro, protestarono di non volere che sul loro territorio si eseguisse dai Fiorentini una sentenza capitale. E questi, per dimostrarsi anche in ciò scrupolosi degli altrui diritti, avrebbero, secondo il cronista, comperato un pezzo di terra, sul quale misero a morte il colpevole.

Tornati intanto dalle Baleari i Pisani carichi di preda, offrirono, in segno di loro riconoscenza agli amici fedeli, o due porte di metallo o due colonne di porfido, a libera scelta. I Fiorentini preferirono le colonne, che furon consegnate, come cosa preziosa, ricoperte di drappo scarlatto, e son quelle che si trovano ora sulla porta principale di S. Giovanni. Quando però le ebbero scoperte, s'avvidero che, per invidia, erano state sciupate col fuoco. È chiaro che in tutto ciò la leggenda ha avuto la sua parte, e vi si scorge almeno una giunta posteriore, fatta quando tra Pisa e Firenze nacque un lungo ed inestinguibile odio. Ma l'errore di data che troviamo ripetuto nel Villani ed in altri non pochi cronisti, a proposito d'una guerra durata piú anni, e che nel 1117 pareva dovesse solo ricominciare, non può essere una ragione per negare quello che da tanti è costantemente affermato. L'impresa delle Baleari è certa, come è certo che fu condotta dai Pisani, con l'aiuto di parecchi amici ed alleati. Il timore che la Città potesse essere, nella loro assenza, aggredita dai Lucchesi, era giustificato, essendosi il fatto già in altri tempi avverato. I Pisani erano ora nemici dei Lucchesi ed amici dei Fiorentini, la cui lealtà, in quei primi tempi, veniva assai generalmente riconosciuta. Perché non si deve credere, che ad essi gli amici pisani affidassero, in sul partire, la guardia della propria città, e che essi rispondessero degnamente alla fiducia in loro riposta? Paolino Pieri non solo ripete il fatto narrato da tutti gli altri cronisti, ma aggiunge, che la terra su cui venne eseguita la condanna del soldato violatore della disciplina, fu comprata per mezzo di Bello sindaco, e che egli la vide ai giorni suoi tenuta sempre senza lavorarla, in memoria del fatto: «ciò fu a di quattro di luglio, anni trecento due piú di mille, allora ch'io la viddi soda». Il che dimostra almeno come la tradizione del fatto continuasse nel secolo xiv, e come tutti vi prestassero piena fede.

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