VI

L'anno 1115 morí la contessa Matilde, e ne seguí un pericolo di tanto disordine, che incominciò addirittura un'èra novella per tutta l'Italia centrale, e specialmente per Firenze. La Contessa, come è noto, aveva lasciato in testamento alla Chiesa i suoi beni; ma una tale donazione poteva avere effetto solamente pei beni allodiali, perché i feudali tornavano di diritto all'Impero. Distinguere con precisione gli uni dagli altri, non era sempre facile, spesso non era possibile: quindi una serie interminabile di liti. E queste venivano sempre piú complicate per l'ambizione del Papa e dell'Imperatore, ognuno dei quali pretendeva avere diritto a tutto, l'uno perché erede universale di Matilde, l'altro perché autorità suprema del Margraviato. Si aggiungeva poi, come vedemmo, che molti si ritenevano ingiustamente spogliati dei loro beni, dati invece a chi non vi aveva diritto alcuno. E ne seguí quindi una vera crisi politico-sociale, che portò il disordine al colmo. L'imperatore Arrigo IV mandò allora in Toscana un suo rappresentante, col titolo di Marchio, Iudex, Praeses, ad assumerne in suo nome il governo. Legalmente nessuno poteva certo contestargli questo diritto; ma l'opposizione del Papa; l'attitudine delle città, che ormai si ritenevano indipendenti; il disordine universale mandarono in fascio il Margraviato. I rappresentanti dell'Impero non poterono perciò far altro che mettersi alla testa della nobiltà feudale del contado, e raccoglierla intorno a loro, per formare un partito germanico avverso alle città. Nei documenti del tempo, i membri di questo partito sono di continuo chiamati addirittura Teutonici .

Firenze, circondata dai nobili incastellati nel suo territorio, non aveva adesso che due partiti dinanzi a sé. O cedere a coloro che, stati sempre suoi mortali nemici, erano insuperbiti del favore che dava loro Arrigo, o, per combatterli a viso aperto, dichiararsi nemica anche dell'Impero, il che, nello stato presente delle cose, equivaleva ad una dichiarazione d'indipendenza. E fu quello che fece. Ormai aveva acquistato coscienza delle proprie forze, ed in sostanza poi non aveva altro scampo che nelle armi. Il fatto avvenne in modo semplicissimo, quasi senza parere. Quegli stessi Grandi, che avevano amministrato la giustizia, guidato il popolo, comandato il presidio in nome di Matilde, ora, che ella piú non non c'era, né altri ne aveva preso il posto, continuarono a governare in nome del popolo, che nelle occasioni piú solenni consultarono. Cosí essi divennero i Consoli del Comune, che si può dir nato, senza che alcuno se ne avvedesse. Ed è perciò che i cronisti non ne parlano, che i documenti ne tacciono del pari, e che sembra quindi oscurissimo e complicato un fatto chiarissimo e per sé stesso evidente. A forza di volere scoprire avvenimenti ignoti, e documenti smarriti, che non sono mai esistiti, si rese difficilissima la soluzione d'un problema assai facile, e si perderono di vista perfino i particolari piú evidenti e noti, che meglio valevano a spiegarlo.

Non bisogna però credere che tutto ciò avvenisse addirittura senza alcuna scossa, perché un mutamento assai notevole vi fu. Il governo, è vero, rimaneva quasi lo stesso; ma se ne cambiava la base, giacché veniva assunto, non piú in nome di Matilde, ma del popolo. E neppure questa sarebbe stata gran cosa, perché già da un pezzo la Città era, non legalmente, ma di fatto, padrona di sé, ed il popolo sentiva e faceva sentire la sua propria personalità. Ma le conseguenze sociali e politiche non furono poche né piccole. Come era naturale, sotto Matilde, coloro che governavano venivano scelti da lei, e per quanto nei tribunali e negli uffici le persone di tanto in tanto mutassero, si restringevano però sempre in un piccolissimo numero di famiglie, a capo delle quali, come già dicemmo, assai probabilmente si trovavano gli Uberti e i loro consorti. Ora, invece, che l'elezione doveva esser fatta dal popolo, essa cadeva di necessità sopra un numero piú largo, sebbene pur sempre limitato, di famiglie. Si mutava quindi piú spesso, e si andava a turno dall'una all'altra. Questo era l'uso che già prevaleva negli altri Comuni, ed anche a Firenze nelle associazioni del popolo e dei Grandi. Dovette quindi inevitabilmente prevalere adesso nella formazione del nuovo governo.

E neppure è credibile che coloro i quali avevano in passato primeggiato, cedessero senza alcuna resistenza, non tentassero di mantenere il loro posto col favore dell'Impero e dei Teutonici, né che coloro cui spettava adesso avere nel governo una parte maggiore di prima, non cercassero a loro volta di farsi forti del favor popolare, sostenuto dai piú vitali interessi della Città. Un conflitto fra queste famiglie di Grandi apparisce inevitabile, e dovette esservi in Firenze, come v'era stato in Pisa al tempo di Daiberto, come vi fu in quasi tutti i Comuni italiani. I cronisti in verità non ci parlano qui di un tumulto propriamente detto; ma quello che dicono basta certo a dimostrarne l'esistenza. Il Villani (V, 30), gli Annales, altri non pochi ci dicono che nel 1115 seguí in Firenze un incendio, il quale si ripeté nel 1117, e cosí «ciò che non arse al primo fuoco, arse al secondo». Questa rovina di tutta la Città è certo un'esagerazione, ma l'incendio è universalmente affermato. E noi sappiamo che allora, quando non v'era la polvere da sparo, il fuoco e gl'incendî erano l'arme piú efficace nei tumulti popolari. Lo stesso Villani aggiunge, che «tra i cittadini si combatteva ... armata mano, in piú parti di Firenze». È vero che, secondo lui, si combatté per la fede, essendosi nella Città diffuse l'eresia, la lussuria, la sètta degli Epicurei, e però Iddio la puniva con la pestilenza e con la guerra civile. Ma, sebbene d'una eresia largamente diffusa allora in Firenze non troviamo traccia sicura negli storici, è pur certo che sin dal 1068 noi abbiamo visto i primi albori della libertà fiorentina, mescolati, confusi con un moto religioso, ed è certo ancora che gli Annales I, all'anno 1120, registrano il fatto d'un Petrus Mingardole sottoposto per eresia alla prova del fuoco, ed aggiungono che dal 1138 al 1173 la Città incorse, per ben tre volte, nell'interdetto, cose tutte che sono prova d'una continua agitazione religiosa. Oltre di che Firenze, e sopra tutto il popolo, si mantenne sempre fedele al partito della Chiesa, che gli Uberti ed i loro amici, parteggiando invece per l'Impero, dovevano avversare, e quindi facilmente incorrere allora nella taccia d'eretici. Anche a tempo del Villani si dava il nome generico di Paterini a tutti gli eretici non solo, ma anche ai Ghibellini. Oltre di ciò, avendo egli posto le origini di Firenze, prima ai tempi di Carlo Magno, poi subito dopo la immaginaria distruzione di Fiesole nel 1010, è naturale che non volesse vederle una terza volta ora che il Comune nasceva davvero, e quindi cercasse di esagerare il carattere religioso, che era assai secondario in quel movimento, e non ne vedesse il politico, che era certo principalissimo.

In ogni modo siccome par certo che gli Uberti cercarono l'appoggio dell'Impero, cosí ne segue che dovettero di necessità dimostrarsi ora nemici della Chiesa. Il chiamarli eretici o paterini non avrebbe perciò, specialmente nella bocca del Villani, sempre guelfo dichiarato, nulla d'insolito. Che, al tempo di Matilde, gli Uberti fossero già potenti, apparisce chiaro dai molti documenti che li ricordano. Che avessero avuto allora parte principalissima nel governo, ed il tumulto fosse perciò diretto principalmente contro di loro, trova conferma esplicita nelle parole di un cronista finora poco studiato, in gran parte anzi ignoto, il quale, per avere attinto anche a fonti diverse da quelle del Villani, getta qualche volta nuova luce sugli avvenimenti. Il pseudo Brunetto Latini, infatti, all'anno 1115, narra, al pari degli altri cronisti, il primo incendio, che dice cominciato da Santi Apostoli, e propagatosi fino al vescovado, «ardendo la maggior parte della Cittade, onde molta gente morí di fuogo». Di eresia non parla, ma, quello che è piú, venendo al secondo incendio, seguito nel 1177, aggiunge: «In questo anno s'apprese il fuogo in Firenze, appresso agli Uberti, che reggievano la Cittade, e quasi tutta l'arse, che poco ne campò, e molta gente fu morta per fuoco e per ferro». Qui dunque noi abbiamo chiaramente un vero e proprio tumulto, quasi una rivoluzione col ferro e col fuoco, diretta contro gli Uberti, che reggevano la Città.

E del resto c'è poi da maravigliarsi di quest'odio contro gli Uberti, di questa guerra civile cui essi dettero occasione? La tradizione, noi lo sappiamo, li diceva venuti di Germania cogli Ottoni; ed abbiam visto che anche la leggenda del Libro Fiesolano, respingendo questa origine, li faceva nondimeno discendere dal «sangue nobilissimo di Catilina», il nemico di Firenze. E secondo la storia, non sono essi gli antenati di quei medesimi Uberti, che piú tardi, nel 1117, troviamo primi ad assalire il governo dei Consoli, incominciando quelle guerre civili che per sí lunghi anni lacerarono poi la Città? Non sono essi gli antenati di quello Schiatta Uberti, che nel 1215, insieme con altri, pugnalava il Buondelmonti sul Ponte Vecchio, ai piedi della statua di Marte? Non sono gli antenati del gran Farinata, che diè in Montaperti la rotta ai Guelfi, e si trovò nell'assemblea di Empoli, là dove cosí fieri propositi si meditarono contro Firenze, eterno nido di Guelfi; quel Farinata che Dante pone nella bolgia infernale degli eretici?

Share on Twitter Share on Facebook