II

Se non che, appunto allora lo stato delle cose mutava, perché s'incominciò a sentire in Toscana l'azione di Federico I Barbarossa. Avvistosi che il duca Guelfo non riusciva a farsi rispettare, mandò (1162-3) l'arcivescovo Rainaldo di Colonia, uomo accorto ed energico, col titolo di Italiae archicancellarius et imperatoriae maiestatis legatus, e l'incarico di riordinare l'amministrazione imperiale, secondo un nuovo concetto. Federico accettava, come fatto inevitabile, la dissoluzione del Margraviato, e voleva direttamente assumere il governo delle varie parti di esso, per mezzo di Conti o Podestà tedeschi, come già aveva fatto in Lombardia. E Rainaldo si mise con ardore all'opera, ponendoli, con presidî tedeschi, nei principali castelli del contado: dove i castelli mancavano, ne furono costruiti dei nuovi. S. Miniato, con la sua torre in cima del colle, col borgo di S. Genesio in basso, fu il centro di questa nuova amministrazione. Ivi Rainaldo pose Everardo d'Amern, col titolo di Comes et Federici imperatoris legatus. Il concetto politico di Federico era chiaro e preciso; ma ad attuarlo, contro il volere dei Comuni già liberi, contro l'interesse di molti dei conti indigeni, sarebbero occorsi gran tempo ed un grosso esercito, cose che allora mancavano ambedue. Rainaldo dové ben presto partire per altre imprese, e quantunque gli succedesse l'arcivescovo Cristiano di Magonza, anch'esso uomo di valore, i risultati pratici dell'opera loro furono assai scarsi. Riuscirono solo a cavar danari, smungendo le popolazioni: «come buoni pescatori, cosí dice un cronista, stesero abilmente le loro reti per tutto». Ma politicamente nulla di stabile fondarono.

Si videro, è vero, per tutto sorgere i nuovi Podestà tedeschi, i Teutonici, come li chiamavano. Troviamo infatti ora di continuo menzionati il Potestas Florentiae o Florentinorum, e cosí quelli di Siena, Arezzo, ed altri molti. Dentro le mura, però, delle grosse città, poco o nulla potevano, perché in esse continuavano a governare i Consoli, i quali nel contado contrastavano l'autorità dei Teutonici. Era uno stato di cose che non poteva durare a lungo. Ad alcune città amiche, l'Imperatore stesso concedeva, che, per mezzo dei loro Consoli, ma in suo nome, esercitassero la giurisdizione dentro le mura, qualche volta anche in una parte del contado, esentandone però sempre i nobili, spesso le chiese e conventi, che riteneva sotto la sua autorità. In tutto il resto dell'Italia centrale dovevano i suoi Podestà comandare senz'altro, non avendo egli alcun dubbio sul pieno e assoluto diritto dell'Impero. Ma la questione era adesso piú di fatto che di diritto, e poteva essere risoluta solo dalla forza, che l'Impero non aveva in Toscana. E però quello che ne seguí, fu una gran confusione. Le grosse città, e piú specialmente Firenze, continuarono a reggersi come prima; nel contado invece Podestà imperiali, Conti toscani, signori feudali, grossi e piccoli. Consoli od altri ufficiali del Comune si disputavano ogni giorno l'esercizio dell'autorità; e le popolazioni non sapevano piú a chi obbedire. Le stesse città, gli stessi nobili che si dichiaravano per l'Impero, non si adattavano ai disegni di Federico, anzi li combattevano, perché in sostanza a tutti puzzava questa signoria teutonica, esercitata da avidi e prepotenti ufficiali dell'Impero.

Una pittura abbastanza fedele di tale stato di cose possiamo cavarla dalle antiche deposizioni di testimoni, che furono, in diverse occasioni, chiamati a dare autentici ragguagli sulle condizioni del paese. Coloro che andarono a deporre sul monastero di Rosano, ce lo descrivono come dipendente dal conte Guido, che era continuamente costretto a difenderlo «dal castellano di Montegrossoli, da altri Teutonici e dai Consoli fiorentini», che tutti presumevano esercitarvi la loro autorità. Essi ci fanno vedere a Monte di Croce, Consoli di quella terra e vice-comiti, i quali comandano nello stesso tempo, e sono costretti a difendersi dai Teutonici, dalle pretese dei Consoli e di altri ufficiali del Comune fiorentino. Né minore confusione descrivono quelli che furono, in altra occasione, chiamati a deporre sul castello e sulla valle di Paterno, il cui dominio veniva disputato tra Fiorentini e Sanesi. Un testimone dice, che ai suoi tempi vide comandare colà, come in tutto il contado fiorentino, un tal Pipino, Potestas Florentiae. Un altro ricorda di aver percorso la Valle di Paterno e tutto il contado fiorentino, in compagnia dei Consoli del Comune e di un Teutonico. Parecchi affermano di esservi andati ora con Pipino, ora con altri Teutonici, ora coi Consoli, i quali tutti erano obbediti del pari, e riscotevano tasse. Singolare è la deposizione d'un Giovanni de Citinaia, che fece lungo racconto delle vicende seguite colà, negli ultimi tempi. Narrò d'un prete, che svelse dal suolo un grosso pilastro, di cui, non sapendo a quale scopo vi fosse posto, voleva servirsi per la costruzione della sua chiesa. Ma pesava tanto che, con un carro e due buoi, non riuscí a portarlo via. Laonde i contadini ivi presenti, esclamavano: Domine sacerdos, male fecisti, quia est terminus inter Florentinos et Senenses. Dopo di ciò, cosí continuava il teste, due individui andarono dal castellano di Montegrossoli, dicendogli che se li secondava nel far ricostruire il castello di Paterno, gli avrebbero fornito le prove dei diritti che aveva sopra di esso. Il castellano corse lieto a Firenze per ottenerne l'assenso; ma tornò in fretta, dicendo che smettessero di lavorare, avendo i Fiorentini ricusato, perché veniva in Toscana l'arcivescovo Cristiano di Magonza, il quale già era in Lombardia. Allora i Senesi, profittando della occasione propizia, demolirono i lavori abbandonati, e spadroneggiarono essi. Di certo non è possibile immaginare una moltiplicità maggiore, una maggior confusione e contrasto di autorità e di diritti.

Per Firenze e pei Comuni di Toscana in genere, non v'era quindi ora da far altro, che profittare d'ogni occasione opportuna a sostenere, colle armi o coll'astuzia, i proprî diritti. La guerra era già scoppiata tra Pisa e Lucca, con la quale s'era unito il conte Guido, nemico dei Fiorentini, che fecero perciò trattato d'alleanza con Pisa. Ne ottennero molti vantaggi pel loro commercio, impegnandosi però a pigliar parte attiva nella guerra. E lo facevano volentieri, perché si trattava non solo di combattere i Lucchesi, ma anche il conte Guido e Cristiano di Magonza, che li sostenevano. Parve dapprima che Cristiano, ponendo, il 23 marzo 1173, Pisa al bando dell'Impero, e togliendole cosí tutti i privilegi già prima concessi, la inducesse alla pace. Infatti il 23 maggio fu concluso un accordo (cui erano presenti anche i Fiorentini), con obbligo che fra Pisa e Lucca si procedesse allo scambio dei prigionieri. Il bando fu ritirato il 28 del mese stesso, e la pace venne solennemente conclusa in Pisa, il primo di giugno.

Ma dopo due mesi avvenne un fatto inaspettato, che fece correre subito alle armi. Il 4 di agosto l'arcivescovo aveva invitato a San Genesio i Consoli di Pisa e di Firenze; e quando furono colà, li fece improvvisamente prendere e gettare in carcere. Che cosa era seguito di nuovo, per voler rendere inevitabile la guerra, dopo aver tanto cercato la pace? Si sono immaginate molte spiegazioni, ma una cosa sola si sa di certo. Il 5 maggio 1172, mentre cioè che erano già innanzi le trattative di pace, s'era a Firenze stretto un segreto accordo, al quale i Pisani non potevano essere rimasti estranei. Alcuni Samminiatesi, cacciati dalla loro terra come ribelli all'Impero, avevano, nel palazzo del vescovo di Firenze, giurato non solo di far causa comune coi Pisani e coi Fiorentini; ma di dar loro la terra di San Miniato, se riuscivano a riprenderla, anche quando la torre fosse rimasta in mano dei Tedeschi. Il fatto è certo, perchè il documento che stringeva l'accordo è arrivato fino a noi. Non è un vero e proprio trattato, non essendovi stati presenti i Consoli, e mancandovi le formole essenziali alla vera legalità. Ma l'aver giurato e firmato nel palazzo del vescovo; l'avervi preso parte alcuni dei principali cittadini, fra cui uno degli Uberti; l'aver conservato il documento in Archivio, sono prove che i governi delle due città non furono estranei all'accordo, e che si voleva solo nasconderne o mascherarne la vera importanza. Da tutto ciò, dalla mala voglia e lentezza con cui procedeva lo scambio dei prigionieri, Cristiano si persuase che la pace era fittizia, che volevano aggirarlo e tradirlo. Perduta quindi la pazienza, si lasciò andare all'atto imprudente ed inconsiderato, che rese ormai impossibile la pace da lui tanto desiderata.

I Fiorentini erano infatti già nell'agosto a Castel Fiorentino, dove i Pisani, accampati a Pontedera, mandarono loro in aiuto 225 cavalieri, con due dei proprî Consoli. Cristiano s'avanzò subito col conte Guido e coi Lucchesi; ma questi ultimi dovettero abbandonarlo, perché i Pisani, consigliati a ciò dai Fiorentini, erano entrati nel loro territorio e lo devastavano. Tuttavia, sebbene stremato di forze, egli affrontò il nemico, e combatté con valore accanto alla bandiera; ma fu disfatto. Noi ignoriamo il seguito della guerra; certo è però che Cristiano ben presto partí, che nel 1174 i Samminiatesi ribelli tornarono con onore nella propria terra, e che finalmente nell'anno seguente si concluse una pace fra le tre città combattenti.

I Fiorentini intanto continuavano sempre a sottomettere città e castelli nel loro contado. Sin dal 1170 avevano costretto a duri patti gli Aretini, amici del conte Guido, ed ora andarono a combattere sotto le mura d'Asciano, terra vicina ad Arezzo, la quale s'era sottoposta in parte ad essi, in parte ai Senesi, che volevano ora impadronirsene del tutto. Questi furono, il 7 luglio del 1174, disfatti, lasciando al nemico un migliaio di prigionieri, e dovettero quindi, sottomettersi a condizioni di pace assai dure. Le trattative andarono in lungo, ma furon pure concluse nel 1176. I Fiorentini vennero riconosciuti legittimi padroni di tutto il contado fiesolano e fiorentino, ed ebbero una parte di ciò che possedevano in Poggibonsi i Senesi, i quali dovevano aiutarli nelle loro guerre, salvo contro l'Impero ed i suoi messi, che promettevano cercare con ogni opera di rendere amici di Firenze. V'erano anche parecchie altre durissime condizioni. Che i Fiorentini riuscissero ad imporre tali patti, dopo la piccola guerra d'Asciano, è certo una prova della loro cresciuta potenza; ma è certo ancora che, se i Senesi non erano per sempre decaduti, questa non poteva essere che una pace fittizia e, dopo molto esitare, conclusa solamente per ottenere la liberazione dei prigionieri.

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