III

Questi trionfi esterni si ripercotevano però in modo impreveduto nell'interno della Città. Il governo dei Consoli, con la prevalenza in esso del partito popolare, aveva sempre piú lasciato da parte i potenti, massime la consorteria degli Uberti, i quali ben di rado noi troviamo ora alla testa del Comune, di che, come era naturale, si mostravano assai poco contenti. Invece le continue sottomissioni di castelli e terre avevano in Città aumentato sempre piú il numero dei nobili di contado. I quali, se dapprima, come semplici assidui habitatores o cives salvatichi, non potevano pigliar parte al governo, potevano unirsi agli scontenti, ingrossarne il numero e la forza. Divenuti coll'andare del tempo, veri e proprî cittadini, ebbero modo d'operare piú efficacemente. E cosí ne seguí finalmente, che nel 1177 gli Uberti presero animo a tentare una rivoluzione, la quale fu la prima delle guerre civili in Firenze.

Tutti i cronisti ne parlano, e non dovette esser cosa di poco momento, perché durò due anni circa, con molto spargimento di sangue, con incendi che distrussero gran parte della Città, al che s'aggiunse anche una piena d'Arno, che fece crollare il Ponte Vecchio. Il Villani descrive i due incendî seguíti nel 1177, dal Ponte al Mercato Vecchio, il primo; da San Martino del Vescovo a Santa Maria Ughi ed al Duomo, il secondo; poi descrive la caduta del ponte, ed aggiunge, al solito, che tutto ciò fu giusto giudizio di Dio contro la Città divenuta ingrata, superba e piena di peccati. Della rivoluzione seguita nello stesso tempo, egli discorre come se con gl'incendi non avesse relazione alcuna. Gli Uberti, esso continua, che erano «i piú possenti e maggiori cittadini di Firenze, co' loro seguaci nobili e popolani, cominciarono guerra contro i Consoli, che erano signori e guidatori del Comune, a certo tempo e con certi ordini, per la invidia della Signoria che non era a loro volere. E la guerra fu cosí aspra che si combatteva in piú parti da vicinanza a vicinanza, con le torri armate, le quali erano alte da 100 a 120 braccia. Se ne costruirono anzi delle nuove per le Comunità delle contrade, coi danari delle vicinanze, e le chiamavano Torri delle Compagnie. Si continuò cosí a combattere per due anni, con molte uccisioni; e venne questo perpetuo guerreggiare in tale uso fra i cittadini, che l'un dí si battevano, e l'altro bevevano e mangiavano insieme, novellando l'uno all'altro delle loro imprese e prodezze. Finalmente si pacificarono per stracchezza, e i Consoli restarono in signoria; ma queste cose crearono poi e partorirono le maledette parti, che furono appresso in Firenze».

Il pseudo Brunetto Latini, invece, pone al 4 agosto 1177 il primo incendio da Ponte Vecchio fino a Mercato Vecchio. Ma, continuando, aggiunge subito che nello stesso anno cominciò «discordia e guerra durata ventisette mesi tra i Consoli e gli Uberti, i quali non ubbidivano né Consolato, né Signoria, né eziandio per loro facevano reggimento. Questa battaglia cittadinesca portò gran mortalità, rubamenti ed incendi. In cinque parti diverse della Città fu messo il fuoco, che arse il Sesto d'Oltrarno, e da S. Martino del Vescovo a S. Maria». Il 4 novembre del 1178 sarebbe, secondo lo stesso cronista, caduto il Ponte, e la guerra cittadina sarebbe finita solamente nel 1180, con la vittoria degli Uberti, uno dei quali, Uberto degli Uberti, entrò poi nel consolato. «Da ciò derivò piú tardi la creazione dei Podestà, che furono gentiluomini, possenti e forestieri».

Non ostante alcune apparenti contraddizioni dei due cronisti, risulta pur chiaro da essi e da altri ancora, che nel 1177 vi fu una rivoluzione capitanata dagli Uberti, la quale durò circa due anni, con incendi, uccisioni e rubamenti. La loro vittoria fu parziale, perché il consolato restò; ma essi vi entrarono piú spesso di prima, insieme coi loro amici, e però il pseudo Brunetto Latini li dice vittoriosi. Tutto ciò diede nel governo maggior forza ai nobili, ed apparecchiò la riforma aristocratica, che poi sostituí il Podestà ai Consoli, e seminò il germe delle parti e delle guerre civili, che dovevano cosí lungamente lacerare ed insanguinare la Città. Tale in sostanza è la conclusione dei cronisti: i documenti e i fatti posteriori la confermano pienamente. Nondimeno la pace interna fu ristabilita, e la politica fiorentina non fu punto alterata. Il parziale trionfo dell'aristocrazia, rendendola, per ora almeno, contenta, giovò anzi a fare, col suo efficace aiuto, prosperare sempre piú le cose di tutta la Repubblica. Ne è prova la ricordata sottomissione del 1182, con cui gli Empolesi promisero di pagare un tributo ai Rettori della Città, ed in loro mancanza ai Consoli dei mercanti, obbligandosi a far guerra, secondo il volere dei Fiorentini, salvo però contro i conti Guidi, da cui in parte gli Empolesi dipendevano ancora. Il 4 di marzo si sottomisero gli uomini di Pogna, che dipendeva invece dai conti Alberti. I Pognesi si obbligavano non solo a far guerra, secondo la volontà de' Consoli fiorentini, ma a non costruire nuove mura o fortezze nella loro terra o nella vicina Semifonte: se a ciò altri si provasse, dovevano essi opporvisi ed avvertirne subito i Fiorentini, che dalla loro parte promettevano amicizia e protezione. Nello stesso anno presero anche il castello di Montegrossoli. Il 21 luglio 1184 strinsero alleanza coi Lucchesi, che s'obbligarono ad aiutarli ogni anno, per venti giorni almeno, con 150 militi e 500 fanti, nelle guerre che i Fiorentini farebbero nel proprio contado. Questi nell'ottobre assalirono in Mugello il castello di Mangona, appartenente agli Alberti, i quali fecero perciò ribellare la terra di Pogna, che i Fiorentini allora andarono subito ad assalire. Nel conflitto che ne seguí, par certo che fosse presente il conte Alberto, perché nel novembre noi lo troviamo prigioniero, e costretto ad accettare durissimi patti per sé, per la moglie ed i figli. Dové promettere di distruggere nel prossimo aprile il castello di Pogna, salvo il palazzo e la torre; demolire la torre di Certaldo, né piú ricostruire quella di Semifonte; cedere ai Fiorentini una delle torri di Capraia, a loro scelta; dividere con essi, a metà, un accatto o dazio da porsi in comune sui beni che egli possedeva fra l'Arno e l'Elsa. Finalmente, appena uscito di prigione (postquam exiero de prescione), doveva far giurare obbedienza a tutti i suoi uomini, e pagare 400 libbre di buoni denari pisani. I suoi figli abiterebbero in Firenze due mesi dell'anno in tempo di guerra, uno in tempo di pace. Questa sottomissione ed umiliazione del conte Alberto era per sé stessa un fatto di grande importanza. Ma, se vi si aggiunge che ciò avveniva dopo che Firenze aveva abbattuto i Cadolingi, umiliato i conti Guidi, fatto vantaggiosissima alleanza con Pisa, Siena e Lucca, si capirà facilmente la fortissima e quasi minacciosa posizione, che essa aveva saputo, in cosí breve tempo, prendere.

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