VI

Certo dal 1196 al 1199 c'era stato un ritorno ai Consoli. Ma in questo tempo seguí anche un fatto assai importante, che mutò profondamente la politica generale di tutta la Toscana, e sul quale perciò dobbiamo ora fermarci. Il 27 settembre 1197 moriva l'imperatore Arrigo VI, e questa morte portò prima l'abbandono, poi la totale caduta di quel sistema imperiale, con tanta cura e persistenza iniziato da Federico I nell'Italia centrale. I Samminiatesi distrussero la rocca, che era in mano dei Tedeschi; poi le mura di S. Genesio. I Fiorentini ripresero per denaro Montegrossoli, che era stato rioccupato e fortificato da nobili, che davano noia continua. E dopo di ciò Firenze si pose ad un'assai maggiore impresa, iniziando una lega delle città toscane contro l'Impero. Essa fu conclusa il dí 11 novembre 1197, a S. Genesio, dove giurarono primi i Lucchesi, poi i Fiorentini, i Senesi, i Samminiatesi, il vescovo di Volterra, presenti, per maggiore solennità, due cardinali di Santa Chiesa. I patti principali erano: alleanza a comune difesa contro chiunque attaccasse la Lega; non far pace o tregua cum aliquo Imperatore vel Rege seu Principe, Duce vel Marchione, senza il consenso dei Rettori della Lega stessa; muover guerra contro le città, conti, vescovi o borghi, che, invitati ad entrarvi, si ricusassero. Ma dove era il pericolo imminente? Perché questa alleanza contro l'Impero, ora appunto che esso piú non minacciava? Uno dei patti ci spiega, meglio d'ogni altro, lo scopo vero cui si mirava. I castelli, i borghi, le piccole terre, cosí esso diceva, possono essere ammessi solo come dipendenti da coloro, che sono legittimi possessori del territorio in cui queste terre o castelli si trovano. Unica eccezione era fatta per Poggibonsi, perché di esso molti si disputavano il dominio. Montepulciano sarebbe stato ammesso come dipendente da Siena, appena che questa fosse riuscita a provare il suo diritto di dominio su di esso.

Da tutto ciò adunque par chiaro che, in sostanza, quello che veramente si voleva era: profittare della morte dell'Imperatore, per assicurare alle città il pieno dominio dei propri territori. A questo fine occorreva essere in Toscana uniti, e però si voleva che la Lega fosse, per quanto era possibile, obbligatoria. Gli atti posteriori di essa non lasciano alcun dubbio sul vero suo fine; provano anzi assai ampiamente che Firenze l'aveva promossa, perché tutta Toscana l'aiutasse ora ad impadronirsi subito del suo contado. Se però la Lega era contro l'Impero, non per questo essa era a difesa del Papa, delle cui pretese, come erede di Matilde, non teneva anzi conto nessuno. Si dichiarava, è vero, di non riconoscere imperatore, re, duca o margravio, senza l'approvazione della Romana Chiesa; ma si aggiungeva che se il Papa voleva entrare nella Lega, doveva accettarne i patti, altrimenti ne sarebbe restato fuori. Se chiedeva aiuto, per riconquistare le proprie terre, si doveva far solo ciò che i Rettori della Lega avrebbero ordinato. Non si sarebbe però, in nessun caso, tenuti ad aiutarlo, se le terre da lui richieste fossero già tenute in possesso di qualcuno dei Comuni o città alleate. Piú chiaro non si poteva parlare. E però quando ai primi del 1198 fu eletto papa Innocenzo III, questi, sebbene avverso all'Impero, e fautore dello spirito nazionale in Italia, si dimostrò, come vedremo, assai scontento di un tal modo di procedere.

Il 4 dicembre 1197, a Castel Fiorentino, giurarono i Rettori della Lega, fra cui primi il vescovo di Volterra ed il Console fiorentino Acerbo, che ne fu il capo effettivo, sebbene il titolo venisse dato al Vescovo, a cagione della sua ecclesiastica dignità. Pisa e Pistoia per ora ne restarono fuori; ma ad esse, come ad altre città toscane, era serbato libero l'aderire, cosa che Arezzo aveva già fatto il 2 dicembre. Il 5 febbraio 1198 giurò il conte Guido, ed il 7 giurò il conte Alberto. I Fiorentini però espressamente dichiaravano nel secondo di questi due trattati, che essi si serbavano liberi d'assalire Semifonte, e di sottoporre anche colla forza Certaldo e Mangona, terre degli Alberti. E cosí continuarono a procurare una quantità di altre adesioni alla Lega, con atti che erano piuttosto di sottomissione a Firenze.

Fu questo il momento in cui papa Innocenzo, da poco eletto, nel mese stesso di febbraio in cui fu consacrato, scriveva ai due cardinali stati presenti alla Lega, che in molte cose essa nec utilitatem contineat, nec sapiat honestatem, non essendosi tenuto conto alcuno che il Ducato di Toscana apparteneva alla Chiesa, ad ius et dominium Ecclesiae Romanae pertineat. Egli intendeva perciò far valere i suoi diritti. Se i collegati a lui si sottomettevano, avrebbe colla minaccia d'interdetto obbligato anche i Pisani ad unirsi a loro, contro l'Impero; altrimenti li avrebbe lasciati liberi di fare quel che volevano. Non gli fu però dato ascolto, e gli convenne fare di necessità virtú, moderando non poco il suo linguaggio. Pare nondimeno che alcune concessioni di forma gli fossero fatte (sebbene non sappiamo quali), perché, scrivendo poi ai Pisani, si dimostrava piú contento, e li spingeva ad entrare nella Lega. Certo è però che essi ne restarono sempre fuori, e che se egli, fatto accorto dagli eventi, si dichiarò piú tardi fautore energico degl'interessi nazionali, e promotore della Lega contro l'Impero, poté cosí riuscir solo ad aumentare la sua autorità morale e politica, non a guadagnare un sol palmo di terra, né a far valere alcuno de' suoi pretesi diritti sulla Toscana.

Chi ogni giorno ne cavava invece vantaggio erano i Fiorentini. Il 10 aprile 1198 Figline entrava nella Lega, sottomettendosi a Firenze, pagando anche un annuo tributo; ed il dí 11 maggio Certaldo faceva lo stesso. La Repubblica continuava a procedere non solo con energia, ma con grande accortezza per la via intrapresa. Lasciava che i nobili pigliassero sempre maggior parte al governo, perché cooperassero di buona voglia al compimento della deliberata impresa. Quel conte Arrigo da Capraia, che nel 1193 trovammo fra i Consiglieri del podestà Caponsacchi, lo troviamo ora, nel 1199, addirittura fra i Consoli. Nell'anno 1200 si eleggeva finalmente a Podestà uno straniero, Paganello Porcari da Lucca, cosa a cui, come già notammo, da un pezzo miravano i nobili. Ed egli venne confermato nel 1201, perché condusse la guerra con energia e valore. Infatti, nel febbraio del 1201, il conte Alberto giurò di cedere ai Fiorentini il poggio di Semifonte col castello e le mura; di aiutarli, ogni volta che fosse necessario, ad impadronirsi di Colle, Certaldo, Semifonte. Il vescovo di Volterra giurò anche esso di aiutarli nelle medesime guerre. E tutto ciò si faceva come se fosse conseguenza e parte degli obblighi della Lega, il che incominciava naturalmente a stancare ed insospettire gli alleati, che si vedevano ridotti cosí a fare il solo interesse di Firenze. La quale, non curandosi d'altro, era pronta a cominciare la guerra contro Semifonte, a ciò essendosi andata spianando la via con tutti questi trattati.

Da un pezzo essa meditava la presa di quel castello, la cui strategica posizione e la facilità grande che esso aveva di ricevere aiuti da tutti i vicini, lo rendevano come un pruno negli occhi della ormai superba Repubblica, deliberata perciò a disfarsene. Il conte Alberto, sebbene si fosse nel 1184 obbligato a non farlo, come due anni prima s'erano obbligati i Pognesi, aveva, non ostante, poco dopo, costruito sul colle di Petrognano il castello di Semifonte, profittando della venuta di Federico I, e della posizione assai difficile in cui si erano allora trovati i Fiorentini, che mai non glielo perdonarono. Egli aveva in quell'occasione assunto anche il titolo di Comes de Summofonte. Presso il castello s'andò subito formando un borgo, che crebbe rapidamente, perché v'accorrevano molti dalle vicine terre, che Firenze andava via via sottoponendo e tassando. E già si ripeteva nel contado:

Firenze, fatti in là.

Che Semifonte si fa città.

Per queste ragioni la Repubblica aveva insistentemente cercato assicurarsi dei vicini, con i molti trattati già ricordati, e con altri ancora, condotti a termine dal suo operoso Podestà. Rimaneva però sempre Siena, che poteva dar valido aiuto al nemico, il quale si dimostrava già pronto alla difesa. E però il 29 marzo del 1201 i Fiorentini conchiusero con essa un'alleanza, promettendo d'aiutarla contro Montalcino, che aveva di fronte a Siena la stessa minacciosa posizione di Semifonte contro la loro Città. Anche Colle fu obbligato a giurare di non dare aiuto ai Semifontesi. Finalmente la guerra incominciò.

Il cronista Sanzanome, che vi si trovò presente, la fa, con la sua solita esagerazione, durare cinque anni, forse tenendo conto di tutte le precedenti scaramucce. Certo però la lotta fu dura, perché, non ostante i trattati, Semifonte venne d'ogni parte aiutata, essendo la gelosia contro Firenze assai cresciuta. Oltre di che, la forte posizione di quel castello e la condotta del suo valoroso podestà Scoto, fecero sí che potesse resistere con molto vigore all'esercito che d'ogni parte lo circondava, tanto che i Fiorentini, non fidando nella sola forza, ricorsero anche al tradimento. Un tal Gonella, che s'era colà dalle vicine terre rifugiato con altri compagni, aveva insieme con essi avuto la guardia della torre detta di Bagnuolo, di cui si valse invece per tradire la terra al nemico. Quando furono però a compiere il tradimento, trovarono tale resistenza nei terrazzani che vi lasciarono la vita. L'effetto, non ostante, s'ottenne lo stesso, perché, poco dopo, Semifonte dovette arrendersi. E se di ciò non fu causa unica il tradimento, come credé il Villani (V, 30), dovette pure avervi non poco contribuito. Il 20 febbraio 1202, infatti, i Consoli, che allora erano tornati in ufficio a Firenze, esentarono in perpetuo da ogni gravezza i discendenti del Gonella e de' suoi compagni morti per la Repubblica, ed il 3 dell'aprile seguente furono sottoscritti e giurati i patti della resa. I Fiorentini promettevano perdono, protezione e restituzione dei prigionieri ai Semifontesi, i quali però dovettero distruggere la torre e le mura; discendere dal poggio al piano; pagare 26 danari l'anno per ogni focolare, salvo i militi e le chiese.

Il Papa rimproverò vivamente i Fiorentini, per la loro condotta crudele contro Semifonte: ma i Consoli, dopo essersi difesi con una lettera, continuando per la loro via, attaccarono briga coi Senesi. Fu a cagione del castello di Tornano, nella valle di Paterno, che essi volevano, e che i Senesi dicevano di non poter dare, perché in possesso di signori da loro indipendenti. I Fiorentini allora incominciarono, al solito, coll'indurre Montepulciano, grossa terra dei Senesi, a giurare sottomissione, con l'obbligo anche di un annuo tributo. La guerra perciò sarebbe subito necessariamente scoppiata, se Ogerio, podestà di Poggibonsi, non si fosse intromesso. Accettato che fu il suo arbitrato, egli esaminò con gran diligenza la questione dei confini, e li determinò coscienziosamente. Il suo lodo fu pronunziato il 4 giugno 1203. A Firenze restò tutto il contado fiesolano e fiorentino, secondo la delimitazione esattamente data da Ogerio, nella quale la valle di Paterno veniva compresa. I Senesi dovevano adoperarsi a far cedere anche il castello da coloro che ne erano signori. Questo trattato dalle due parti accettato, e dai Senesi rispettato scrupolosamente, venne il 15 maggio 1204 sanzionato da papa Innocenzo III, secondo l'espresso desiderio dei Fiorentini. I quali però continuarono i loro segreti accordi con Montepulciano, che avevano, nei giorni 30 e 31 maggio 1203, indotto a giurare di nuovo alleanza offensiva e difensiva contro Siena. Quindi, non appena che ciò si seppe, nuovi rammarichi, nuove proteste di Siena, che portò l'affare dinanzi alla Lega, i cui Rettori furono perciò espressamente radunati il 5 aprile del 1205, a S. Quirico di Osenna, sotto la presidenza del vescovo di Volterra, avendo ricusato di presentarsi i Fiorentini e gli Aretini. Dall'esame dei testimonî risultò chiaro che Montepulciano apparteneva ai Senesi. Non sappiamo se venne allora pronunziato il lodo, né quale risultato definitivo ebbe la disputa. Sembra però chiaro che questo fu il momento in cui la Lega di fatto si sciolse, per opera dei Fiorentini stessi che l'avevano iniziata. Lo scopo che s'erano proposto, essi lo avevano in gran parte raggiunto; ora non potevano dagli alleati aspettarsi altro che ostacoli al conseguimento dei loro fini ulteriori, perché tutti erano piú o meno insospettiti della loro ambizione, di cui nessuno voleva piú a lungo continuare ad essere strumento passivo.

Ma ciò non arrestava punto nel loro cammino i Consoli fiorentini, che ora attaccarono briga coi conti di Capraia, i quali avevano un castello di tal nome sulla riva destra dell'Arno, vicino al confine dei Pistoiesi. Unendosi con questi, potevano essi facilmente chiudere la via dell'Arno ai Fiorentini, che perciò, sin dal 1203, avevano deliberato costruire sull'opposta riva del fiume, nel luogo chiamato Malborghetto, un altro castello, cui dettero il nome di Montelupo, nome che spiegava chiaramente quale era il loro scopo. Infatti già s'andava ripetendo il motto:

Per distrugger questa capra.

Non ci vuol altro che un lupo.

Anche qui la guerra sarebbe necessariamente scoppiata, se profittando della intromissione amichevole dei Lucchesi, l'accortezza diplomatica dei Fiorentini non avesse trovato modo d'evitarla, come sempre, a proprio vantaggio. Nel giugno del 1204: infatti si concluse un trattato, mediante il quale essi s'obbligavano a non recare molestia sulla destra, e i conti di Capraia a non recarne alcuna sulla sinistra del fiume. Il Conte poco dopo giurò addirittura alleanza e fedeltà ai Fiorentini, insieme co' suoi uomini, i quali restarono obbligati a pagare un tributo di 26 denari per focolare, ad eccezione dei militi. Cedeva inoltre il castello e tutto ciò che possedeva sulla sinistra dell'Arno, presso Montelupo, che si obbligava anche a difendere.

Se è vero, come si trova nel pseudo Brunetto ed in uno degli antichi elenchi di Consoli, non però in documenti ufficiali, che il conte Rodolfo di Capraia, figlio del conte Guido, fu nel 1205 podestà di Firenze, bisogna credere che ciò avvenisse anche in conseguenza di questi accordi. Nell'anno seguente pare si tornasse ai Consoli, ma nel 1207 abbiamo finalmente in Gualfredotto Grasselli da Milano, il vero e proprio Podestà forestiero, che ormai rappresenta il Comune, senza piú bisogno d'essere assistito dai suoi Consiliarii. Anch'egli fu riconfermato un secondo anno, perché condusse a compimento le imprese da tanto tempo, con tanto ardore iniziate dai Fiorentini. E l'occasione a ricominciare non si fece aspettare. La faccenda di Montepulciano s'era inasprita; i Senesi erano perciò decisi ad assalire quella terra, su cui credevano avere giusto diritto di possesso. Montepulciano, sicuro d'essere aiutato, si difese con ostinato ardore; e i Fiorentini dapprima lasciarono fare, poi nel 1207 corsero anch'essi alle armi. Uniti ad amici lombardi, romagnoli, aretini, andarono col Carroccio ad assalire il castello di Montalto della Berardenga, fra l'Ambra e l'Ombrone, che i Senesi avevano circondato coi loro amici pistoiesi, lucchesi, orvietani. Tutti questi furono il 20 giugno messi in fuga, lasciando in mano del nemico un gran numero di prigionieri, che Paolino Pieri fa ascendere a 1254. Il castello venne distrutto; ma la guerra continuò, sebbene il Papa si fosse interposto per la pace. I Fiorentini assalirono quasi con ferocia il castello di Rigomagno, ed essendosi rotte le scale, salirono gli uni sulle spalle degli altri, riuscendo cosí ad entrare. Con Rigomagno essi furono padroni della valle dell'Ombrone. I Senesi dovettero allora (febbraio 1208) sottomettersi a durissime condizioni di pace, che ben presto giurarono (fra il 13 e 20 ottobre), rinunziando con esse a tutto ciò che possedevano in Poggibonsi, obbligandosi a cedere Tornano con la torre, a rispettare in ogni sua parte il lodo di Ogerio, né piú molestare Montepulciano. I prigionieri furono vicendevolmente resi.

Ma questa guerra segna già il principio di un nuovo periodo nella storia di Firenze. Ormai non si trattava piú di conquistare il proprio contado, che la Repubblica già possedeva. Si trattava invece di aprire le vie del grande commercio ad una città, che, per le molte sue conquiste, prosperava ogni giorno piú. Siena e Firenze erano in conflitto continuo, non solo per la incertezza dei loro confini, che ognuno voleva allargare; ma per la gara delle loro manifatture nei mercati d'Italia, e specialmente del commercio colla vicina Roma, la quale, per le grandi relazioni che la Chiesa aveva per tutto, era divenuta il centro principale degli affari bancarî nel mondo civile. Firenze mirava da un pezzo ad avere il monopolio di tali affari, ed anche perciò si mantenne sempre guelfa. Essa contrastò piú volte con Arezzo, Volterra, sopra tutto con Siena, la piú potente delle città che trovava sulla via di Roma. Questo fu causa permanente di nuove e piú grosse guerre fra le due rivali, come il bisogno irresistibile, che Firenze cominciò ben presto a sentire d'arrivar sino al mare, fu principale causa di guerre non meno lunghe e sanguinose con Pisa, che gliene sbarrava la via. Ma su di ciò dovremo tornare in seguito, giacché per ora questi conflitti non sono anche cominciati. Dopo la pace con Siena, abbiamo infatti alcuni anni di tregua, fuori però, non dentro la Città, dove invece sono già pronti a germogliare i semi della guerra civile.

La istituzione del Podestà forestiero, non piú circondato e frenato da quelli che potrebbero dirsi Consoli-consiglieri, è ormai definitiva. Salvo la loro breve ripristinazione negli anni 1211 e 12, i Consoli sono ora, come già dicemmo, per sempre scomparsi. Questo era di certo un trionfo evidente dell'aristocrazia, al quale il popolo artigiano s'era momentaneamente piegato, per averla cooperatrice nella difficile impresa di sottomettere colle armi il contado. Ed una tale conquista dette straordinario incremento all'industria, al commercio, cui apriva ogni giorno campo piú vasto, e faceva nascere voglia d'ingrandirlo sempre di piú. Non era quindi in modo alcuno sperabile, che quella Repubblica la quale nell'industria e nel commercio trovava la sua prosperità, e da essi riceveva la sua forza, potesse o volesse, a lungo andare, rimaner contenta d'un governo favorevole all'aristocrazia, la quale mirava a divenire ogni giorno piú forte, piú prepotente e superba. La lotta fra il popolo ed i Grandi si può perciò ritenere ormai inevitabile. La lunga serie delle guerre civili, che dovranno lacerare ed insanguinare la Città, è infatti già vicina a cominciare.

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