I semi di questi rivolgimenti erano nella costituzione stessa, come abbiamo già accennato, ed aspettavano solo un'occasione propizia a germogliare, la quale non tardò molto a venire di fuori. Il partito ghibellino, decaduto dopo la morte di Federico, risorgeva ora in Italia, per opera di Manfredi, che a tutt'uomo s'adoperava a ciò. I suoi messi arrivarono finalmente anche a Firenze nel 1258, e, come era naturale, si diressero a casa gli Uberti, che trovaron prontissimi a tentare la fortuna delle armi. Questi chiamarono subito i loro amici, e congiurarono di levare il governo di mano al popolo. Ma era ancora troppo presto, perché, come giustamente osservava il Machiavelli, allora «i Guelfi molto piú che i Ghibellini potevano, sí per esser questi odiati dal popolo pei loro superbi portamenti, quando al tempo di Federigo governarono; sí per esser la parte della Chiesa piú che quella dell'Imperatore amata, perché con l'aiuto della Chiesa speravano preservare la loro libertà, e sotto l'Imperatore temevano perderla». La congiura infatti fu subito scoperta, e gli Anziani citarono gli Uberti, i quali, per consiglio di Farinata loro capo, invece di presentarsi, s'afforzarono nelle proprie case. Il popolo allora, assai sdegnato, si levò a tumulto, e le case degli Uberti vennero saccheggiate; alcuni dei loro amici furon presi, altri uccisi, e neppure a quelli che erano semplicemente sospetti si volle usare pietà. L'abate di Vallombrosa, dei Beccaria di Pavia, ebbe tagliato il capo, sebbene fosse, come fu poi da molti riconosciuto, innocente. Tutta la famiglia Uberti e i principali seguaci dovettero, per questi fatti, salvarsi coll'esilio, andandosene a Siena, fautrice dichiarata di Manfredi, e quartier generale dei Ghibellini di Toscana. Gli esuli ivi radunati, si posero sotto il comando di Farinata, il piú ardito e autorevole fra di essi. I Fiorentini giustamente si lamentarono dei Senesi, che, accogliendo i profughi, violavano la pace del 1255; ma i Senesi, che da gran tempo erano in segreto accordo coi Ghibellini, non dierono retta.
Il conflitto era perciò inevitabile, ed i primi segni se ne videro subito nell'assalto dato da Firenze a parecchi castelli e terre nella Maremma senese. Poi la Martinella fu attaccata all'arco di Mercato Nuovo, e sonò a distesa, per annunziare una guerra assai piú grossa. Da una parte e dall'altra cominciarono ad armarsi, chiamando a raccolta anche gli amici. I Fiorentini avevano inviato Brunetto Latini ambasciatore ad Alfonso di Castiglia, che aspirava alla corona imperiale, perché venisse in Italia contro di Manfredi. Ma già i Senesi, con assai maggiore speranza di buon successo, avevano, per mezzo degli esuli fiorentini, chiesto aiuto direttamente a Manfredi. Questi, trovandosi allora assai occupato nel Reame, mandò Giordano d'Anglona, conte di S. Severino, con circa cento cavalieri tedeschi, che arrivarono a Siena nel dicembre 1259, portando la bandiera del Re. I Fiorentini uscirono finalmente, nell'aprile del 1260, col carroccio, armati a Popolo ed a Comune, con alla testa il podestà Iacopino Rangoni, gli Anziani, i capi delle Compagnie, e vennero addirittura sotto le mura di Siena, presso la Porta Camollia. Il 17 maggio, nel luogo dove è il monastero di Santa Petronilla, vi fu battaglia. Si narra che Farinata degli Uberti, il quale, come capo degli esuli s'era molto adoperato a promuovere la guerra, vedendo il piccolo aiuto mandato da Manfredi con la propria insegna, dicesse: «Noi la conduceremo in luogo che ne sarà fatto tale strazio, che gli verrà voglia d'essere nemico de' Fiorentini, e (de' cavalieri) daranene piú che non vorremo noi». E si aggiunge ancora, che ubriacarono i soldati tedeschi, perché combattessero con cieco furore. Certo è che da Siena uscirono i cittadini armati sotto il comando del loro Podestà, e i Tedeschi con gli esuli, fra i quali primeggiava sempre Farinata, sotto il comando del conte Guido Novello. L'impeto del primo assalto fu da parte de' Tedeschi tale, che i Fiorentini, credendo d'avere addosso un formidabile esercito, si misero in rotta; ma avvistisi poi che il nemico era assai inferiore di forze, resistettero con valore, e dopo una mischia sanguinosa, lo respinsero e presero la bandiera di Manfredi, che trascinarono nel fango. La gioia in Firenze fu grandissima, sebbene la vittoria fosse costata cara, e si fosse anche visto che pochi cavalieri tedeschi, assai bene addestrati, avevano, per un momento almeno, potuto mettere in rotta un esercito numeroso d'artigiani e di contadini. Ciò dava invece animo ai Senesi, massimamente ora che il loro principale cittadino Provenzano Salvani, con altri ambasciatori, tornava da Manfredi, menando un grosso sussidio di 800 Tedeschi, posti anch'essi sotto il comando del conte Giordano, il quale aveva ora anche l'ufficio di vicario di Manfredi in Toscana.
Era perciò inevitabile che la guerra continuasse, ed i Senesi già erano in campo per sottomettere Staggia e Poggibonsi, dare il guasto a Colle, Montalcino e Montepulciano, il che rendeva inevitabile che i Fiorentini pigliassero di nuovo le armi. Farinata degli Uberti e gli altri esuli gettavano di continuo olio sul fuoco, adoperando ogni sottile astuzia per provocarli, e per ordir tradimenti nella loro stessa Città. Furono infatti mandati due frati minori a dire, sotto apparenza di gran segreto, agli Anziani, che Siena era stanca dei Ghibellini e del predominio che in essa aveva Provenzano Salvani; sarebbe perciò stato facile fare aprire le porte all'esercito fiorentino, mediante 10,000 fiorini. Fu agevole ai frati, ingannati, come pare, essi stessi, ingannare gli altri. Venuti nella Città, cosí almeno narra il Villani, chiesero di trattare con due soli degli Anziani, sotto giuramento di strettissimo segreto. E furono a ciò deputati due, i quali, udite le proposte, e pensando che venivano dagli esuli, figli anch'essi della stessa Repubblica, non rammentando quanto potenti erano stati sempre fra loro gli odî di parte, prestarono fede ai fallaci messaggi. Sebbene tutto fosse proceduto con gran mistero, pure a decidere la guerra, era sempre necessario consultare i cittadini. Si tenne perciò un Consiglio numeroso di nobili e di popolo, nel quale gli Anziani, sotto varî pretesti, piú o meno plausibili, sostennero l'utilità e la necessità di ricominciare subito la guerra contro i Senesi. Vi fu nondimeno grandissimo dissenso. E quantunque le leggi fiorentine mettessero mille freni alla discussione, massime quando si trattava di combattere una proposta dei magistrati, pure la deliberazione era di tanta gravità, che piú d'uno si provò a combatterla, sostenendo che il far la guerra adesso, quando si sapeva che Siena non aveva mezzo di mantenere a lungo i Tedeschi, era impresa stoltissima. I nobili specialmente si dimostravano contrarî, perché essi avevano riconosciuto la superiorità della cavalleria tedesca, e non credevano possibile adesso, che ne era venuto un assai maggior numero, tenerle fronte con un esercito d'artigiani e di mercanti poco pratici nell'arte della guerra, la quale aveva già cominciato a far tali progressi, che le battaglie non si vincevano piú col solo valor personale. Ma l'opposizione dei nobili rendeva invece piú caldi i popolani, i quali gridarono che bisognava armarsi e partire senza indugio. Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari era stato dei primi a dichiararsi contrario, proponendo che s'aspettasse. Ma a lui lo Spedito, che era, secondo il Villani, uno dei due Anziani a parte del segreto, rispose con ingiuriose parole, concludendo, che se aveva paura, si cercasse le brache. Al che messer Tegghiaio di rimando esclamò, che allo Spedito non sarebbe bastato l'animo di seguirlo a gran distanza nella guerra. E dopo queste irate parole, sorse Cece Gherardini, il quale, senza alcuna reticenza, cominciò anch'esso a parlar forte contro la guerra proposta dagli Anziani. Questi allora, in nome della legge, gl'imposero silenzio, minacciando la pena di 100 lire, voluta dagli Statuti contro chi parlasse senza permesso dei magistrati; ma egli rispose, che voleva pagare e parlare. Portarono allora la pena a 200, poi a 300 lire, e finalmente dovettero, per farlo tacere, imporgli silenzio sotto minaccia del capo. Cosí fu infine deliberata la guerra, la quale, del resto, anche senza questi segreti maneggi, narrati ed esagerati dai cronisti, sarebbe stata inevitabile, tanto s'erano omai accesi gli animi.
L'esercito dei Fiorentini si trovava (1260) sotto gli ordini del medesimo Podestà, che lo aveva comandato nel passato maggio. Ma ora essi avevano aiuti dai Guelfi di tutta Toscana, di Perugia, Orvieto, Bologna ed altre molte città, in modo che si dice ponessero insieme 30,000 fanti e 3,000 cavalli. Messo in moto, nel mese d'agosto, un cosí gran numero di gente, col carroccio, con tutti i capi, con le molte salmerie, entrarono nel territorio senese, e fecero sosta il 2 settembre, alla Pieve Asciata. Le pratiche fatte dagli esuli avevano avuto un doppio resultato. Da un lato cioè avevano nei Fiorentini infuso la vana speranza, che Siena potesse aversi senza sangue, solo con danaro e con la mostra di grandi forze. Da un altro s'erano nell'esercito stesso stretti veramente segreti accordi di tradimento coi nemici. Si cominciò quindi col mandare baldanzosamente ad intimare la resa. Ma gli ambasciatori, entrati in Siena, trovarono tutto il popolo animato dal furore della guerra e della vendetta. Accolti solennemente dai Ventiquattro, che erano alla testa del governo, questi, udite le domande, dissero: Che sarebbe loro risposto in campo, a viva voce. Non restava quindi che apparecchiarsi senz'altro alla decisiva giornata.
La mattina del tre di settembre un banditore andava in giro per Siena, intimando che ognuno s'affrettasse, «in nome di Dio e della Vergine Maria», ad accorrere sotto il proprio gonfalone. Cosí fu raccolto un grosso esercito, che il giorno stesso uscí di città, per andare incontro ai Fiorentini. È assai difficile dirne il numero, tanto variano i ragguagli dei cronisti. Coi Senesi v'erano i Tedeschi, v'erano gli esuli ghibellini di Firenze, v'erano anche parecchi alleati. Tuttavia erano certo in numero minore dei nemici. Come di regola, il comando generale lo aveva il podestà Francesco Troghisio. Ma la condotta effettiva delle armi l'avevano il conte Giordano e il conte d'Arras, che conducevano i cavalieri ed i fanti tedeschi; il conte Aldobrandino di Santa Fiora ed altri capitani valorosi. Il conte Guido Novello comandava gli esuli fiorentini, fra i quali, piú irrequieto che mai, era Farinata degli Uberti. Alla testa dell'esercito fiorentino stava del pari il podestà Iacopino Rangoni; ma i capitani erano gente inesperta, che si cullava ancora nella lusinga di vincere senza combattere. S'avanzarono adunque col carroccio fino a Monselvoli, in Val di Biena, dove misero il campo, non lungi dal fiume Arbia e dal castello di Montaperti, a quattro miglia da Siena. La mattina del quattro settembre i Senesi, sopra tutto i Tedeschi, iniziarono con grandissimo slancio la battaglia. Il conte d'Arras si teneva con la sua banda in agguato, per attaccare di fianco il nemico, al momento opportuno. Sino all'ora di vespro i Fiorentini resistettero con valore, ma poi cominciarono a dar segni di stanchezza. Ed allora il conte d'Arras, uscendo dall'agguato, al grido di San Giorgio, piombò sul loro fianco con tale impeto, che subito li sgominò. Nello stesso tempo, Bocca degli Abati, uno dei Fiorentini che tradivano, mozzò, con un colpo di spada, la mano a Iacopo dei Pazzi, che teneva la bandiera della cavalleria. E questa, che era quasi tutta di nobili, parte per lo sgomento, parte pel tradimento, si dette alla fuga. La fanteria, composta invece di buoni popolani e fedeli alleati, tenne ancora fermo; ma poi cedette, e fu anch'essa trascinata nella fuga generale. Solo la guardia del carroccio, comandata da Giovanni Tornaquinci, che a 70 anni combatté da leone, stette salda fino a che l'ultimo di essa non fu morto accanto alla bandiera, la quale, con la Martinella e col carroccio, cadde in mano del nemico, che li portò via, trionfando, in Siena, dove mise in pezzi ogni cosa. La strage fu grandissima, molti dei Fiorentini correvano al castello di Montaperti, gridando: misericordia, ch'io m'arrendo; ma erano uccisi lo stesso. Finalmente il capitano dei Senesi, conte Giordano, d'accordo coi gonfalonieri del popolo, consigliato anche da Farinata degli Uberti, mandò ordine, che si sospendesse la strage, e restasse salva la vita di chi s'arrendeva. È assai difficile dire qual fosse in quel giorno funesto il numero dei morti. Il Villani, che li riduce al minimo, afferma che i cavalieri si salvarono tutti colla fuga, ma che la strage fu tra i popolani, di cui 2,500 rimasero morti, 1,500 prigionieri. I Senesi, che riducono le loro perdite a 600 morti e 400 feriti, portano quelle dei Fiorentini a 10,000 morti, 15,000 prigionieri, 5,000 feriti, oltre 18,000 cavalli fra morti e perduti. Se queste cifre sono al di sopra, quelle del Villani possono ritenersi al di sotto del vero. Ma questi descrive il vero stato delle cose quando conchiude: e allora «fu rotto e annullato il Popolo vecchio di Firenze». Tale infatti può dirsi la conseguenza ultima di quella battaglia, che fece l'Arbia colorata in rosso.
Grandi furono la gioia, le feste, i trionfi in Siena; grandissimi il lutto, i lamenti in Firenze, dove non era famiglia che non avesse perduto qualcuno. I capi dei Guelfi sapevano, che per essi non v'era omai piú speranza di salvezza, e però, in gran numero, esularono le famiglie dei loro nobili, e non poche anche di popolani. Uscirono di Città il 13 settembre, ed alcuni si sparsero pei castelli della Toscana, ma i piú andarono a Lucca, che rimase come centro principale dei Guelfi. Il 16 entrò in Firenze il conte Giordano con i suoi Tedeschi, e con essi tornarono gli esuli carichi di preda, che la fecero subito da padroni. Uno dei primi loro pensieri fu d'andare in Duomo a disfare il monumento d'Aldobrandino Ottobuoni, quasi che egli, piú che guelfo o ghibellino, non fosse stato cittadino onesto e benemerito della patria. Cosí cominciarono, sin dal principio, a fare ogni opera, per rendersi sempre piú odiosi ed incomportabili. Poggibonsi, Montalcino, molti dei castelli, pei quali s'era tanto combattuto, furono abbandonati a Siena. Gli ordini della libertà furono distrutti, ed il conte Giordano nominò, per due anni, podestà di Firenze il conte Guido Novello, che entrò subito nel Palazzo del Comune, di dove fece poi aprire una via, che andò fino alle mura, e si chiamò, come anche oggi si chiama, Via ghibellina. Cominciarono intanto gli esilî, le persecuzioni, le distruzioni delle case e delle torri de' Guelfi, i cui beni, confiscati, venivan raccolti a benefizio della parte ghibellina, che doveva trionfare per tutto. Fra gli esuli vi fu anche Brunetto Latini, già stato, come vedemmo, ambasciatore ad Alfonso di Castiglia, e rimasto ora in Francia, dove scrisse il Tesoro, in cui ricorda la sua ambasceria.
Il conte Giordano, richiamato da Manfredi nel Reame, dové partire, lasciando in sua vece il conte Guido Novello. Ed allora si tenne in Empoli un concilio di tutti i capi ghibellini, per prendere accordi sul da fare. Quello che dimostra a che segno fosse giunto allora il feroce odio di parte contro Firenze, si fu la proposta fatta di distruggerne le mura, abbatterne le case, e ridurla a borgo, come nido eterno dei Guelfi, i quali altrimenti sarebbero in essa sempre risorti. A questo si oppose però generosamente Farinata degli Uberti, il quale nell'impeto della sua collera, mettendo la mano sull'elsa, dichiarò al conte Giordano ed agli altri capitani, ch'egli aveva combattuto per riavere, non per perdere la patria, e che l'avrebbe difesa contro coloro i quali la volevano distruggere, con piú ardore che non aveva combattuto i Guelfi. Tali parole fecero subito respingere l'insensata proposta.
Il conte Guido pose in Toscana alcuni ghibellini come podestà, ritenendo nelle sue mani il governo generale di quella provincia, e reggendo anche la Città, come vicario di Manfredi. Egli si fece basso strumento di tutti gli odî della parte ghibellina, alla quale però assai poco potevano giovare la sua condotta incerta, il suo carattere debole. Tuttavia la persecuzione contro i Guelfi continuò non solamente in Firenze, dove le confische, le demolizioni di case e di torri s'andarono lungamente ripetendo, ma anche nei vicini castelli ed in Lucca, di dove i Guelfi, che vi s'erano rifugiati, vennero cacciati. Fu in questa occasione, che Farinata degli Uberti, avendo preso prigioniero Cece dei Buondelmonti, se lo portava in groppa del cavallo, chi dice per salvarlo, chi dice come preda di guerra. A quella vista però non seppe frenarsi suo fratello Piero degli Uberti, il quale, a colpi di mazza, uccise il prigioniero sulla groppa stessa del cavallo. Tale era allora la ferocia degli odî di parte. Dopo la sconfitta del '60 molti dei Guelfi andarono pel mondo raminghi. Alcuni si recarono colle armi a servire il proprio partito nell'Emilia, addestrandosi nelle nuove discipline dell'arte militare; altri invece andarono in Francia ad esercitare la mercatura, dando cosí nuovo ed assai maggiore impulso al commercio fiorentino.