VII

Dalla fine dell'anno 1260, in cui seguiva la battaglia di Montaperti, al 1266, in cui cessava il dominio del conte Guido e di Manfredi, la storia di Firenze non presenta alcun fatto notevole. La sua libertà è distrutta, le sue guerre sono piccole e ingloriose scaramucce di partito, le nuove istituzioni, se pur meritano questo nome, non hanno valore nello svolgimento storico della sua costituzione. Chi vuol conoscere il logico legame, che unisce le varie sue forme, nella storia della Repubblica, non deve por mente a queste soste che la libertà subisce, a questi interregni, nei quali la tirannide spezza il corso regolare degli eventi e delle istituzioni, che poi ripigliano il loro naturale cammino, quando la libertà torna a rivivere. Il Podestà che governava in nome di Manfredi, lasciò sussistere i due Consigli (nei quali prevalsero come era naturale i Grandi ed i Ghibellini), il Generale cioè di 300, lo Speciale di 90. Ma del Capitano del popolo e de' suoi Consigli non sentiamo piú parlare, come non sentiamo parlare degli Anziani e del loro Consiglio. Troviamo però, invece di essi, Ventiquattro cittadini, quattro per Sesto, che siedono nei Consigli del Podestà. Dell'antica costituzione non sono rimasti che frammenti ed anche questi di antico non sembrano avere altro che il nome. In sostanza si è, coll'aiuto di Manfredi e per opera dei Ghibellini, costituito un dispotismo aristocratico, che fa singolare contrasto con la costituzione che lo precedette, e con quella che lo seguirà, le quali invece si trovan fra di loro in perfetta armonia e connessione. Intanto, a continuare la guerra contro i Guelfi, non solo si demolivano le loro case, confiscavano i loro beni, ma si ponevano ancora taglie sopra taglie, che oppressavano duramente il popolo, cui s'era tolta ogni parte al governo. Nel 1264 però moriva Farinata degli Uberti, nel 1265 nasceva Dante Alighieri, e l'Italia cominciava ad essere agitata da nuovi eventi, che dovevano ripercuotersi anche in Firenze.

Era veramente un pezzo, che la politica italiana accennava a volersi sostanzialmente mutare. Federico II dispotico e crudele assai spesso, aveva pure saputo raccogliere intorno a sé gli uomini piú culti della Penisola, fra i quali aveva incontrato grandissimo favore. Manfredi, che gli successe, fu un principe avventuroso ed infelice, d'animo grande, che doveva quindi trovare e trovò molti ammiratori. I Papi, è vero, avevano combattuto l'uno e l'altro come Ghibellini; ma la loro politica cominciava lentamente ad essere avversa del pari ai Ghibellini ed alle libertà comunali, perché l'ambizione loro cresceva ogni giorno, e volevano rafforzare il dominio temporale a danno dei Comuni. Firenze si manteneva ancor sempre guelfa; ma i tempi mutati cominciavano in tutta Italia a mutare, se non il nome, il carattere e il valore dei partiti, laonde spesso si passava dall'uno all'altro, senza troppo esitare, né era sempre facile dire se il mutamento seguiva piú nell'animo di chi abbandonava il proprio partito, o nel partito stesso, che perciò veniva abbandonato. E questo disordine cresceva grandemente ora che i Papi, sempre inquieti, sempre paurosi di perdere il loro predominio in Italia, si decidevano a chiamare nuovi stranieri, e quindi facevano su di essa cader nuove miserie.

Intimoriti nel vedere il gran potere e il gran favore acquistato dagli Svevi, cercarono mettervi riparo, seguendo quella politica cosí bene descritta dal Machiavelli, quando dice che i Papi, «ora per carità della religione, ora per loro propria ambizione, non cessavano mai di chiamare in Italia umori nuovi, e suscitare nuove guerre. E poiché eglino avevano fatto potente un principe, se ne pentivano, e cercavano la sua rovina, né permettevano che quella provincia, la quale, per loro debolezza, non potevano possedere, altri la possedesse». Cosí, dopo molte ed ostinate pratiche, riuscirono finalmente a far venire gli Angioini contro Manfredi, alla conquista del regno di Napoli. Carlo d'Angiò, benedetto ed aiutato da papa Clemente IV, seguito non solo dai suoi Francesi, ma anche da molti Italiani, tra cui gli esuli guelfi di Firenze, che si dimostrarono fra i piú valorosi, s'avanzò verso la frontiera napoletana, ed il 26 febbraio 1266 venne, presso Benevento, a battaglia con Manfredi, il quale, abbandonato e tradito da' suoi, pugnò da valoroso, morí da eroe. Il suo cadavere, invano cercato per tre giorni in mezzo ai morti, venne poi trovato e trasportato sopra un asino. Non volle re Carlo concedergli sepoltura in terra consacrata, perché era stato scomunicato dal Papa, e fu quindi messo in una fossa, presso il ponte di Benevento, dove i soldati francesi, gettando, ognuno, sopra il cadavere una pietra, elevarono un monte, che poteva dirsi monumento condegno al valore ed alla sventura del soldato morto combattendo. Ma papa Clemente gl'invidiò anche questo umile riposo, e per suo ordine l'arcivescovo di Cosenza persuase il re angioino a far disotterrare il cadavere, e gettarlo fuori del Regno, presso il fiume Verde. Tutti questi fatti diedero il crollo al partito ghibellino in Italia. La sede imperiale era vacante, gli Svevi abbattuti, ed in Napoli succedeva ad essi un'altra dinastia straniera, venuta per opera del Papa. Se la morte di Federico II aveva fatto decadere in Firenze i Ghibellini, ben si può immaginare che cosa dovesse succedere ora che il loro mal governo aveva accumulato contro di essi odî sempre maggiori, e che con Manfredi non era morto solamente un principe amico, ma s'estingueva in Italia il dominio d'una casa imperiale e reale, che era stata il piú valido sostegno del partito.

Ed infatti, all'annunzio di questi eventi, tutto il popolo di Firenze si commosse, e cominciò a pigliare animo contro i Grandi che dominavano ancora. Quando poi si seppe che buona parte di quei Guelfi fiorentini, i quali avevano con gran valore combattuto nell'esercito di Carlo d'Angiò, tornavano con la sua bandiera a Firenze, la moltitudine si mostrò cosí pronta a sollevarsi, che al conte Guido ed ai suoi mancò l'animo. E però i Ghibellini, dice il Machiavelli, «giudicarono che fosse bene guadagnarsi con qualche beneficio quel popolo, che prima avevano con ogni ingiuria aggravato, e quelli rimedî che, avendoli fatti prima che «la necessità venisse, sarebbero giovati, facendoli di poi, senza grado, non solamente non giovarono, ma affrettarono la rovina loro». Volevano infatti il conte Guido ed il partito ghibellino concedere qualche libertà, per acquetare il popolo, ma non sapevano da che parte rifarsi. Gli antichi ordini erano distrutti, ed eglino s'erano talmente allontanati dal popolo, governando ad arbitrio e taglieggiando, che ora il cominciare a ceder qualche cosa, li avrebbe ben presto costretti a ceder tutto. Il popolo dall'altro lato, escluso dal governo, s'era dato all'industria ed al commercio, portandovi quell'attività ed energia, che gli era vietato di esercitar direttamente nella politica. Le industrie perciò, maravigliosamente cresciute, s'ordinarono sempre piú fortemente in associazioni politico-industriali, chiamate Arti maggiori ed Arti minori, le quali, cominciate nei primordî del Medio Evo, andarono assumendo anche una grande forza ed autorità politica, ed acquistarono un grandissimo predominio nella Città. Cosí s'erano formate adesso molte famiglie di nuovi potenti, quasi una nuova aristocrazia del danaro e del lavoro, o, come incominciavano già a chiamarla, di popolani grassi, divenuti di fatto i veri padroni della cittadinanza fiorentina. I Ghibellini quindi, a poco a poco, si trovarono al governo, come una casta separata, e si dovettero sempre piú reggere con la sola amicizia di Manfredi, e con l'aiuto de' suoi Tedeschi. Quasi gente accampata in terra straniera, erano andati perdendo di giorno in giorno ogni ascendente morale e politico, ogni civile autorità sopra i popolani, i quali colle loro industrie ed il loro commercio, s'erano come formato un mondo a parte, costituendosi in una società divisa, e, fra certi limiti, indipendente da chi li governava. Rivolgersi dunque ai piú autorevoli fra costoro, era difficile e pericoloso, perché essi, capi del popolo guelfo, non potevano chiedere altro che la sua partecipazione al governo, il che sarebbe stato ben presto la rovina dei Grandi e dei Ghibellini. Dare, di loro propria iniziativa, parziali riforme neppure era facile ai Grandi, perché non si sapeva quali, né come darle, ora che il popolo si sentiva già in forza da dominar la Città. Si pensò quindi a chiamar da Bologna due cavalieri del nuovo Ordine detto dei Frati Gaudenti, il cui ufficio era di soccorrere vedove e pupilli, metter pace fra i partiti avversi. E perché apparisse un qualche segno piú visibile d'imparzialità, si volle che fossero guelfo l'uno, ghibellino l'altro. E tutto ciò fu fatto col consenso, anzi quasi per consiglio di papa Clemente IV, il quale, provenzale e grande sostenitore di Carlo d'Angiò, scriveva continuamente lettere imperiose ai Fiorentini, come se per la vacanza dell'Impero, ne potesse egli assumere l'autorità, e come se, per la vittoria di Carlo, fosse divenuto il loro padrone.

Questi frati gaudenti però, il cui Ordine durò poco, erano, secondo il Villani, uomini dati piú ai loro piaceri, che capaci di trattar seriamente l'impresa loro affidata di far come da podestà in Firenze, proponendo anche le nuove riforme. E tanto ciò era evidente, che essi stessi videro subito la necessità di consigliarsi e intendersi con le Arti. Laonde, arrivati in Città, alloggiarono nel Palazzo del Comune, e convocarono un Consiglio di 36 mercatanti guelfi e ghibellini, i quali cominciarono subito a radunarsi ogni giorno, per discutere, nella Corte dell'Arte di Calimala, o sia de' panni forestieri che si raffinavano in Firenze, dove questa industria era assai progredita e formava già l'Arte piú potente. Furono subito tutti d'accordo, che si dovesse proporre la costituzione industriale e politica delle sette Arti maggiori, con insegne proprie, armi e capi intorno a cui raccogliersi, e cominciarono ad ordinarle, dando un gonfalone a ciascuna di esse cioè: Giudici e Notai, di Calimala o dei panni forestieri, della Lana, dei Cambiatori, de' Medici e Speziali, della Seta, dei Pellicciai. Ma i Ghibellini s'avvidero che per questa via s'andava rapidamente a costituir di nuovo, sotto altra forma, il Primo Popolo. E però gli Uberti, i Lamberti, i Fifanti, gli Scolari si dimostrarono decisamente avversi a tali novità, e fecero sentire al conte Guido il bisogno di mettervi immediato riparo, se non si voleva lasciarsi fuggire di mano il governo. Ed il conte Guido, che altro non cercava, mandò subito a chiedere aiuti dalle città ghibelline. Da Arezzo, da Siena, Pisa, Pistoia, Colle, S. Gimignano vennero parecchi cavalieri, che uniti ai Tedeschi, furono in tutto circa 1,500. Ma se essi erano agli ordini del conte Guido, erano anche alle sue spese: i Tedeschi già gridavano che volevano le paghe, e a lui mancavano affatto i danari. E però, continuando tuttavia le pratiche d'accordo col popolo, pensò di mettere una nuova imposta del dieci per cento sulle entrate dei cittadini. Ma questa, dopo tante altre gravezze, riusciva ora incomportabile alle piccole fortune, tanto che il popolo, già stanco del mal governo, irritato ancora dal vedere che il Conte aveva spogliato dell'armi il Palazzo del Comune, per arricchirne il suo castello di Poppi, imbaldanzito dalla prospera fortuna, e sempre piú eccitato contro i Ghibellini, protestò energicamente, dando chiari segni di voler correre alle armi. I Trentasei cercarono allora di calmarlo, e, postisi di mezzo, proposero di riscuotere essi la nuova tassa, distribuendola in modo da farla il piú possibile cadere sopra i ricchi e potenti.

Ma questo fu invece il momento in cui i Grandi, divenuti audaci pei nuovi soccorsi avuti, scelsero per farla finita, e levarono addirittura il rumore nella Città. Primi a muoversi furono i Lamberti, che, scesi in Piazza armati, andavano gridando: ove sono questi ladroni dei Trentasei, che noi vogliamo farli in pezzi? E i Trentasei, che erano allora a consiglio, si sciolsero; le botteghe si chiusero; il popolo, levato a rumore, si pose sotto gli ordini di essi, dei Consoli delle Arti, e soprattutto di Giovanni Soldanieri, nobile che, per ambizione, si era nel tumulto messo alla testa dei popolani. Fecero capo a S. Trinita, dove ben presto sopraggiunse colla sua cavalleria il conte Guido, che si teneva sicuro della vittoria. Ma trovò, invece, che la moltitudine, asserragliata, resisteva gagliardamente, e dalle finestre, dalle terrazze venne giú una tal pioggia di sassi e di frecce, che i suoi cavalieri cominciarono a perdersi d'animo, ed egli si sbigottí per modo, che, fatte subito voltar le insegne, se ne tornò alla piazza S. Giovanni; di là, andato poi al Palazzo del Comune, dove erano i due Gaudenti, chiese le chiavi della Città, per partirsene. Né le preghiere de' suoi amici, né lo sdegno de' suoi seguaci bastarono a persuaderlo, che non v'era nessun grave pericolo, e che poteva restare. Egli si sentiva cosí smarrito che, avute le chiavi, volle essere accompagnato da tre dei Trentasei, temendo altrimenti d'essere ferito dalle finestre. E, per la porta detta dei Buoi, se ne andò colle sue genti a Prato, il giorno di S. Martino, 11 novembre 1266.

Il dí seguente, passata la paura, s'avvide dell'errore commesso, e persuaso dai Ghibellini di Firenze, che lo avevano accompagnato, si provò, dice il Machiavelli, «a ripigliare quella città per forza, che aveva per viltà abbandonata». E venne co' suoi ordinato a battaglia, fin sotto la porta del Ponte alla Carraia, là dove è ora Borgo Ognissanti. Ma il popolo, che difficilmente lo avrebbe potuto cacciare prima, se egli non avesse avuto cosí gran paura, facilmente poteva respingerlo adesso. Ed alle domande, tra minacciose ed umili del Conte, perché aprissero, fu risposto colle armi, saettando dalle mura. Dové quindi retrocedere co' suoi, e si sentivano tutti cosí umiliati e adirati, che per via tentarono di pigliare un castello vicino, pur di aver l'aria di fare qualche atto di vigore. Ma respinti anche in questo piccolo assalto, ritornarono a Prato piú avviliti che mai, in gran dissenso tra loro. Il Conte, persuaso ormai d'aver perduto lo Stato, se ne andò in Casentino, ed i Ghibellini di Firenze se ne andarono nei castelli o ville del contado.

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