VIII

I Guelfi, rimasti ora padroni della Città, posero mano alle riforme necessarie a riordinarla popolarmente, consigliati sempre con lettere imperiose dal Papa, cui però si dava retta solo quanto era necessario per non irritarlo. Prima di tutto furono licenziati i due frati Gaudenti, che non avevano fatto buona prova; poi si mandò ad Orvieto a chiedere un Capitano del popolo ed un Podestà, con qualche aiuto di cavalieri a guardia del Comune. E vennero 100 cavalieri, con messer Ormanno Monaldeschi podestà, ed un messer Bernardini capitano. Per amor di pace rimisero in Firenze i Ghibellini, concludendo tra essi ed i Guelfi paci e matrimonî, sperando cosí accomunare il popolo, e smorzare gli odî: ma in verità si riuscí solo ad eccitare piú vivi rancori, perché gli animi erano ancora troppo esaltati.

Firenze adesso sembrava non aver piú l'antica fiducia nelle proprie forze, tanto che in mezzo alle gravi complicazioni della politica italiana, anche i Guelfi sentivano il bisogno d'avere un protettore straniero. Era un uso funesto, introdotto la prima volta dai Ghibellini, che, per ossequio all'Impero, avevano chiesto un vicario imperiale in Città, ed ora che il popolo aveva vinto, perché nel regno di Napoli, agli Svevi erano successi gli Angioini, parve quasi inevitabile ricorrere allo stesso pericoloso procedimento. Il Papa, facendola da Imperatore, aveva nominato Carlo d'Angiò, prima Paciaro, poi addirittura vicario imperiale per dieci anni in Toscana. E i Fiorentini, credettero di dovere accettare questo nuovo stato di cose, anzi fare ad esso buon viso, e quindi offrirono addirittura a Carlo la signoria della loro Città per sei anni, che furon poi dieci. Ma sia che a ciò ponessero condizioni le quali al Re angioino piacevano poco, sia che egli volesse farsi pregare, certo è che parve dapprima esitar molto. Poco dopo mandò Filippo di Monforte, il quale con 800 cavalieri entrò in Firenze, il giorno di Pasqua del 1267, anniversario, come fu allora notato, della morte del Buondelmonti. Piú tardi vi mandò qual suo vicario Guido di Monforte; poi venne anch'esso a condurre in persona la guerra contro i Ghibellini in Toscana.

Ed ora, cacciati i Ghibellini, accettata la supremazia di Carlo come inevitabile, era pur necessario dare a Firenze un assetto definitivo, studiandosi, in mezzo a condizioni cosí nuove, cosí difficili, di garantirne la libertà, e si venne a quella che fu la quarta costituzione della Repubblica. Le condizioni della società fiorentina erano assai mutate, e con esse doveva mutare anche il carattere della nuova costituzione. Il partito ghibellino o aristocratico s'era ristretto in un piccolo numero di Grandi, che esercitavano l'arte della guerra e volevano spadroneggiare. Coi nobili che, mutando nome e abbandonando i titoli, s'univano ai popolani, e con coloro che, pei rapidi guadagni della mercatura, entravano in una nuova condizione di viver civile, s'era formata, come abbiam visto, quasi una nuova aristocrazia, un popolo grasso divenuto padrone della Città. E v'era poi anche questo di notabile, che andavano, tanto il popolo grasso, quanto il minuto, perdendo ogni giorno piú l'antica educazione militare, non solamente perché ora nelle guerre prevalevano gli uomini d'arme, e cominciavano a valer poco gli eserciti popolari, ma anche perché il commercio aveva preso tali proporzioni, che non potevano i mercanti, sempre affaccendati a bottega, o in giro pel mondo, passare ogni anno, come pel passato, due o tre mesi al campo. Il commercio era divenuto la principalissima occupazione, quasi la vita stessa del popolo fiorentino, che ora poteva dirsi davvero un popolo di banchieri e di mercanti. Ed a tutto questo s'aggiungeva, che in Firenze v'era adesso un'autorità straniera con soldati stranieri. Carlo d'Angiò direttamente, o per mezzo di suoi vicari, o di persone in altro modo da lui nominate, teneva l'ufficio del Podestà, e spesso sceglieva anche il Capitano. I Fiorentini perciò, sempre accortissimi, ristabilirono i Dodici Anziani, due per Sesto, col nome Dodici Buoni Uomini, coi quali il Podestà doveva consigliarsi. E con essi ancora, invece di 36, un Consiglio di 100 Buoni Uomini di popolo, «senza la diliberazione dei quali nessuna grande cosa, né spesa si poteva fare». Con questo Consiglio, unito al Parlamento, che, di diritto almeno, a Firenze non mancò mai, noi abbiamo la ricostituzione di un governo centrale e popolare, che toglieva importanza al Podestà angioino. Può quasi dirsi un ritorno all'antica costituzione consolare, da cui erano già usciti il Podestà ed il Capitano, che si cercava ora sottomettere ad essa. Ma ciò non era tutto. Furono ripristinati i due Consigli, speciale e generale, del Podestà e del Capitano. Se non che, il Capitano del popolo che, nella costituzione del 1250, teneva il secondo posto, e sotto il dominio ghibellino sembrava quasi scomparso, adesso non solo ricomparisce, ma si cerca dargli prevalenza sul Podestà.

Infatti, quando una legge era stata dai Dodici proposta ai Cento ed approvata, passava ai due Consigli del Capitano, e prima a quello speciale e delle Capitudini, detto anche la Credenza, che rimaneva come in antico, composto di 80 membri. Approvata la legge in questa assemblea, veniva proposta al Consiglio generale, speciale e delle Capitudini, che era di 300. Le tre votazioni si facevano di regola in un giorno solo. Nel successivo la legge veniva portata dinanzi ai due Consigli del Podestà, e prima al Consiglio speciale di 90, poi al Consiglio generale di 300, ai quali spesso si univano quelli dello speciale, ed erano allora 390. Poco sappiamo del modo con cui s'eleggevano questi Consigli, che solevano durar sei mesi. Però, essendo molto numerosi, e trovandosi dall'altro lato assai ristretto il numero dei cittadini, noi riteniamo che tutti gli abili a sedere, o sia gli eleggibili, che erano appunto i veri e proprî cittadini, v'entrassero a turno. Ma qui è da notare che non sempre, né tutte le deliberazioni passavano per ognuno di questi varî Consigli. Le leggi e le consuetudini lasciavano non di rado ai magistrati la libertà di consultarne alcuni solamente, come lasciavano loro il diritto di radunar prima un piú ristretto Consiglio di Richiesti, invitandovi solo quegli ufficiali o cittadini, che potevano giovare colla loro esperienza a preparare le deliberazioni. Altre volte s'invitavano nei Consigli anche alcuni estranei. Cosí, per esempio, discutendosi le faccende della guerra, vi si trovano chiamati coloro che avevano l'incarico di provvedervi. Gli Statuti non erano né molto precisi, né molto rigorosi a questo proposito. E pareva che si studiassero singolarmente di frenare la libertà della discussione, forse per impedire che la moltitudine di tanti Consigli mandasse le cose troppo per le lunghe. La proposta d'un provvedimento qualunque, era sempre riservata ai soli magistrati, che la facevano sostenere dal notaio o da altri in loro nome. I Consiglieri, meno i casi di molta gravità, dicevano solo poche parole prima di votare. Il numero degli oppositori era sempre assai piccolo, e ciò anche perché quando una provvisione veniva portata ai Consigli, era stata già prima vagliata molte volte. Piú tardi, lasciando sempre liberissimo il votare contro le proposte dei magistrati, si giunse perfino a proibire il parlare altrimenti che in favore. Laonde con tanti Consigli non si vide nascere in Italia la vera eloquenza politica, della quale infatti la nostra letteratura è assai povera. E qui v'è ancora un'ultima considerazione. Il Consiglio dei 100 era tutto di popolani, e cosí quelli del Capitano; i Consigli del Podestà eran composti invece di popolani e di Grandi. Le Capitudini come abbiam visto, erano sempre presenti nei Consigli del Capitano, ed assai spesso anche in quelli del Podestà. Da tutto ciò risulta chiarissimo che il partito democratico e le Arti maggiori, le quali ne formavano il nucleo principale, avevano grandissima prevalenza. Ed in questo modo re Carlo ottenne la signoria della Città, ma fu vincolato in modo che il potere effettivo rimase nelle mani del popolo, soprattutto del popolo grasso.

Le nuove leggi da noi esaminate, parlano ora assai poco di Guelfi e di Ghibellini, assai piú di Grandi e di Popolani, perché la lotta dei partiti comincia a mettersi ne' suoi veri termini, e si vede chiaro che, in sostanza, trattasi di aristocrazia e democrazia. Ma ciò nondimeno, il partito ghibellino esisteva sempre, anzi era esso veramente il partito aristocratico. Il popolo ne voleva quindi la totale rovina, ed a ciò mirava un'altra parte della nuova costituzione. Si pose mano a fare un elenco di tutti coloro che dal 1260 al 1266 erano stati perseguitati dai Ghibellini, e dei beni loro confiscati. Si trovò che grandissimo era stato il numero dei condannati, e che i danni ascendevano alla somma allora assai ingente di lire 132,160.8.4. Si cercò allora di fare lo stesso contro i Ghibellini, e negli anni 1268 e 69 vi furono tremila circa fra confinati e ribelli, con le rispettive confische, le quali continuarono poi lungamente. Dei beni via via confiscati si cominciò, come dicevasi, a far Monte, cioè a raccoglierli insieme; poi vennero divisi in tre parti, una delle quali doveva andare al Comune; una ai Guelfi, per risarcirli dei danni sofferti; una finalmente alla Parte guelfa, per darle sempre maggior forza, a scapito dei Ghibellini. Coll'andare del tempo però, quasi tutti questi beni si concessero solo alla Parte, e ad amministrarli furono creati sei governatori, tre Grandi e tre popolani, chiamati prima Consoli dei cavalieri, poi Capitani della Parte guelfa, seguendosi in tutto ciò i funesti consigli di papa Clemente IV e di Carlo d'Angiò. E siccome allora ogni magistratura importante soleva essere circondata da due Consigli, cosí anche i Capitani di Parte ebbero un Consiglio segreto o speciale di 14 membri, ed uno generale di 60. Duravano i Capitani due mesi in ufficio, e si radunavano nella chiesa di S. Maria sopra Porta. Piú tardi ebbero un proprio palazzo, e vennero loro concessi altri incarichi, come la cura delle pubbliche fabbriche, la direzione degli ufficiali di torre, e simili. Ma la loro principal cura fu sempre di proteggere la Parte, perseguitare i Ghibellini. E questo ufficio essi adempierono con tanto ardore, e tante furono le persecuzioni, che, coll'andar del tempo, si giunse a tale che chi era padrone dei Capitani di Parte, si poteva dire padrone di Firenze. Esclusione dai pubblici ufficî per mezzo delle ammonizioni, esilî, confische saranno le opere con cui fra qualche tempo li vedremo funestar la Repubblica, e rendersi sempre piú potenti.

Se ora gettiamo finalmente uno sguardo generale alla nuova costituzione, in mezzo alla intricata moltitudine de' suoi Consigli e de' suoi magistrati, essa ci parrà abbandonata al disordine ed all'arbitrio. Ma se guardiamo piú attentamente allo scopo cui essa era destinata, noi la vedremo singolarmente adatta a raggiungerlo. La guerra civile non è finita di certo, deve anzi ancora per lungo tempo continuare; la democrazia s'avanza, per giungere al suo pieno trionfo, e distruggere totalmente l'aristocrazia. Né si contenterà di toglierle il dominio della Repubblica, ma vorrà toglierle l'esistenza stessa, il che non potrà fare senza versar molto sangue, senza molte rivoluzioni. Nel nuovo ordinamento politico, il potere centrale, mutabile ben presto ogni due mesi, è sempre debolissimo di fronte alla grande importanza, alla durata ed alla forza che hanno assunta il Podestà ed il Capitano. Messi alla testa del Comune e del Popolo, circondati ognuno da due Consigli, essi restan sempre come capi di due repubbliche armate e nemiche. Ma in quella del Popolo, che finora era stata la piú debole, niuno dei nobili può entrare; in quella del Comune, invece, il popolo ha preso accanto ai nobili un posto assai importante, e nelle sue mani è perciò legalmente venuta la decisione principale di tutti gli affari, non ostante la supremazia che di fatto Carlo d'Angiò esercitava nei piú gravi momenti. Che odî nasceranno da un tale stato di cose è facile immaginarselo. Se poi osserviamo che, in siffatta repubblica, quasi preordinata alla guerra civile, v'era una magistratura importante, quale i Capitani di Parte, che sembrava creata solo a tener viva la discordia, come una macchina di guerra, che agitava continuamente queste forze incomposte, senza dar mai posa, come uno strumento di sanguinosi disordini e di distruzione, allora noi possiamo prevedere dove ci condurrà il seguito della narrazione. Dobbiamo aspettarci continue lotte, un mutare irrequieto di magistrati e di leggi, il non veder mai giungere a mezzo novembre quello che si fila d'ottobre. Ma tutto era anche singolarmente preordinato al fine costante cui la Repubblica, fin dalla sua prima origine, mirava.

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