IX

Questi fatti però, sebbene indebolissero sempre piú la misera città di Pisa, abbatterono anche il partito guelfo, dettero luogo a nuovi esilî, ed aiutarono le speranze dei Ghibellini, che adesso sembravano risorgere in Toscana. Firenze dovette perciò ripigliare di nuovo le armi. Carlo I d'Angiò era morto, e papa Onorio, che si dimostrava favorevole al partito ghibellino, aveva spinto il suo parente Prenzivalle del Fiesco a venire in Toscana come Vicario imperiale. Ma le città della Lega lo accolsero assai male, ed egli se ne andò ad Arezzo, donde invano pronunziò condanne contro i Guelfi, giacché ai vicarî dell'Impero pareva che ormai nessuno desse piú ascolto. Se ne ripartí quindi per la Germania, lasciando Arezzo in preda a tumulti, nei quali la vittoria fu dei Ghibellini, che ebbero aiuto da molti esuli fiorentini. I Guelfi si ritirarono nei castelli del contado, dove ricevettero invece soccorsi dal governo di Firenze. Cosí la guerra diveniva inevitabile anche nel Valdarno di sopra, e bisognava da due lati combattere i Ghibellini, ritornati potenti sotto la guida del vescovo d'Arezzo e dell'arcivescovo di Pisa. Difatti come in Pisa l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, cosí in Arezzo comandava il vescovo ghibellino, Guglielmo degli Ubertini. Questi, dedito anch'esso piú alle armi che alla religione, signore di molte castella, e di assai dubbia fede, si provò dapprima a tradire la città ai Fiorentini, mediante accordi coi quali voleva salvare i suoi possessi. Ma gli Aretini seppero costringerlo a restar fermo nel proprio partito. Il 1.° di giugno 1288 l'esercito della Lega guelfa si mise in moto. Erano nobili, popolani d'ogni parte di Toscana, insieme con gente assoldata, formando in tutto 2,600 cavalieri e 12,000 pedoni. Restarono ventidue giorni in campo, assediando e disfacendo tra grandi e piccoli, piú di 40 castelli degli Aretini; ma poi sopravvenne una tempesta che pose il campo in tanto disordine da costringerli a ritirarsi. Avevano, in segno di disprezzo, corso un pallio sotto le mura d'Arezzo, nominandovi 12 cavalieri di corredo; ma poi, levato il campo, se ne tornarono a Firenze, senza avere abbattuto né scemato l'ardire del nemico. Ed infatti, quando i Senesi si separarono per tornarsene a casa, furono presi in un agguato, e rotti pienamente.

Nell'agosto i Fiorentini, insieme con Nino di Gallura, esule guelfo di Pisa, fecero scorrerie nel contado pisano, pigliando il castello d'Asciano, e nel settembre corsero contro gli Aretini, che avevano messo insieme un esercito di 700 cavalli e 8,000 pedoni. Ma non vi fu battaglia, perché i nemici si ritirarono, lasciando che i Fiorentini guastassero le loro campagne, andando poi essi in principio del 1289 a guastare il contado fiorentino, ed arrivando fin presso a S. Donato. Erano piú o meno grosse scaramucce, che facevano prevedere una guerra maggiore.

Da ogni lato s'armava adesso in Toscana. I Pisani eleggevano a loro capitano il conte Guido da Montefeltro, che aveva acquistato grandissima reputazione nello scontro vittorioso avuto a Forlí contro i Francesi di Carlo d'Angiò. Egli era veramente uno dei piú valorosi soldati del tempo, e giunto che fu a Pisa, riordinò subito le milizie, creò una nuova fanteria leggiera di tre mila balestrieri, che poté resistere con onore a quella cavalleria pesante, tenuta allora la forza principale degli eserciti. Da un altro lato anche gli Aretini s'armarono sempre di piú, in modo che, quando Carlo II d'Angiò passò da Firenze, per andare ad incoronarsi in Napoli, i Fiorentini, dovettero accompagnarlo con i loro migliori fanti e cavalieri, perché le genti aretine minacciavano d'assalirlo. Gli chiesero allora un buon capitano, per poter proseguir con vigore la guerra, e ne ebbero Amerigo di Narbona, che, in compagnia del bali Guglielmo di Durfort, venne con 100 uomini d'arme.

Il 2 di giugno 1289, il nuovo capitano Amerigo di Narbona usciva in campagna alla testa d'un esercito di 1,600 cavalieri e 10,000 fanti della Lega. V'era il fiore della nobiltà e delle genti fiorentine, fra cui seicento cavalieri dei meglio armati, che uscissero mai della Città. Prato, Pistoia, Siena e tutti gli alleati, anche i Guelfi di Romagna avevano mandato il loro contingente. Gli Aretini avevano dall'altro lato raccolto tutti i Ghibellini delle vicine città, e vennero a Bibbiena con 800 cavalieri e 8,000 pedoni, sotto il comando dei loro capitani, fra cui primeggiava il fiero arcivescovo Guglielmo degli Ubertini. Dopo essersi persuaso che l'accordo con Firenze, per salvare i suoi propri castelli, lo avrebbe esposto al furore degli Aretini, esso s'era gettato con giovanile ardore nella guerra. Procedeva altiero e pieno di baldanza, perché fidava nel proprio coraggio ed in quello de' suoi soldati; aveva poca stima de' Fiorentini, i quali, esso diceva, si lisciavano come donne.

Sul piano di Poppi, il giorno 11 di giugno, i due eserciti si trovarono di fronte, presso Campaldino, dove ebbe luogo, e donde prese nome quella battaglia che fu resa piú celebre, per esservisi trovato a combattere Dante Alighieri, allora giovane ancora ed ignoto. I Fiorentini avevano in prima linea una schiera mista di pedoni, balestrieri e scudieri, ed alle loro ali avevano messo 150 feritori di cavalleria leggiera, scelti fra i piú arditi. V'era fra questi Vieri dei Cerchi, che, avendo avuto il carico di fare la scelta degli uomini del suo Sesto, volle, sebbene malato, trovarsi alla battaglia insieme col figliuolo e coi nipoti. Dietro la prima schiera, ne veniva un'altra piú grossa di pedoni e cavalleria pesante, in ultimo erano le salmerie. Corso Donati comandava un drappello di circa 250 tra pedoni e cavalieri lucchesi, pistoiesi e forestieri. Egli era allora Podestà di Pistoia e doveva, con la sua piccola riserva, accorrere all'uopo, secondo il comando del generale. Si vedeva un'emulazione grandissima, perché da un lato e dall'altro v'era lo sforzo dei Guelfi e dei Ghibellini, e s'erano, per soddisfare anche l'ambizione dei potenti, creati nuovi cavalieri in quel giorno stesso, acciò dessero maggior prova di valore. L'ordine dato ai Fiorentini fu d'aspettare l'impeto del nemico, e messer Simone dei Mangiadori da San Miniato, disse ai suoi uomini: - Signori, le guerre di Toscana si vincevano per bene assalire, ed ora si vincono per istare ben fermi. - Gli Aretini invece, fidando nel proprio valore e nell'abilità dei capitani, assalirono al grido di Viva S. Donato, con tale impeto, che l'esercito fiorentino mal sostenne il primo urto, e dovette cedere. I feritori furono quasi tutti scavalcati, la schiera grossa indietreggiò; ma i pedoni che erano alle ali della seconda schiera, s'avanzarono al grido di Narbona cavaliere, e minacciando di circondare il nemico, l'arrestarono, dando cosí tempo ai compagni di riordinarsi. Il conte Guido Novello, che aveva 150 cavalieri degli Aretini, per ferire di lato, mancò d'animo nel momento appunto in cui doveva assalire il nemico disordinato, e fu grandissimo danno. Ma gli seguiva sempre cosí, e poco di poi, fervendo ancora la mischia, si dette alla fuga. Corso Donati, invece, che aveva ordine di star fermo colle sue genti, e non muoversi senza comando espresso, nel vedere i Fiorentini cedere a quel primo urto, non poté piú stare alle mosse, e disse ai suoi: - Se perdiamo, io voglio morire coi miei concittadini; se vinciamo, aspetterò che chi vuole, venga in Pistoia a punirci della nostra disobbedienza; - e ordinò subito d'investir di fianco i nemici. Cosí gli Aretini da assalitori si trovarono assaliti. Resistettero con mirabile valore, e non avendo sufficiente numero di cavalieri, i loro pedoni si spinsero carponi fra la cavalleria nemica, e con le coltella sventravano i cavalli, ferendoli nella pancia, dove non avevano difesa. Ma erano prodigi di valor personale, che non potevano decidere la battaglia. La mischia fu aspra e lunga, i Fiorentini pugnarono con gran coraggio, e gli Aretini perderono quasi tutti i loro capi. L'arcivescovo Ubertini morí combattendo; cosí pure il suo nipote Guglielmino dei Pazzi, tenuto allora fra i piú valorosi capitani d'Italia, e Buonconte figlio del conte di Montefeltro. Perirono ancora molti esuli fiorentini, fra cui tre Uberti e uno degli Abbati. Solo il conte Guido Novello salvò la vita con la fuga. La rotta degli Aretini fu grandissima, e, secondo il Villani, lasciarono sul campo 1,700 morti e 2,000 prigionieri. Di questi però ne entrarono in Firenze solo 740, gli altri essendo stati trafugati o riscattati per denaro. Né ciò deve far gran meraviglia, se si pensa che in queste guerre di Guelfi e Ghibellini combattevan fra loro uomini della medesima città, e spesso antichi amici o parenti; per il che la pietà era piú naturale che l'odio, sebbene questo fosse pur troppo frequente e feroce. I Fiorentini ebbero poche perdite, e nessuna d'importanza. Corso Donati che, col suo ardire, contribuí assai a decidere la battaglia, e Vieri de' Cerchi si coprirono di gloria. Molti, poco stimati in passato, acquistarono quel giorno grande reputazione, e molti invece che già prima l'avevano, la perdettero allora. In ogni modo tutti i principali cittadini e capitani tornarono salvi a Firenze, dove l'allegrezza fu perciò universale.

I Fiorentini s'erano tenuti sin da principio sicurissimi della vittoria. Si narra infatti che quando, nel giorno stesso della battaglia, i Priori, stanchi delle vigilie durate, si addormentarono, furono desti, come da una voce, che ad un tratto pareva dicesse loro: levatevi su, che gli Aretini sono sconfitti. E nello stesso tempo tutti i cittadini si trovavano per le vie, aspettando impazienti la notizia che ancora non veniva. Finalmente arrivò il desiderato messo, e la gioia, le feste furono grandissime. Dispiacque piú tardi sentire che l'esercito non aveva saputo profittare della vittoria, inseguendo il nemico fin dentro le mura della città, della quale allora sarebbe stato facile impadronirsi. Invece presero Bibbiena, terra del vescovo; saccheggiarono varî castelli, e guastarono il contado per venti giorni. Corsero il pallio intorno alle mura d'Arezzo, a forza di mangani gettandovi dentro, per dileggio, asini con le mitrie in capo. Ma in sostanza non fecero altra impresa di momento, sebbene la Repubblica, quando furono eletti i nuovi Priori, ne mandasse due al campo, perché sollecitassero in persona la guerra, e tentassero subito di prendere la nemica città. Ma omai era tardi, e gli Aretini riuscirono anche a fare qualche sortita, nella quale misero fuoco alle macchine d'assedio. Per il che i Fiorentini, lasciati ben guardati i castelli già presi e le opere cominciate, tornarono a casa il 23 di luglio; e ciò dispiacque tanto alla Città, che si disse esser corso nel campo oro nemico. In ogni modo la vittoria era stata grande, e grandissima fu l'accoglienza che ebbero i reduci. Tutto il popolo, con le insegne e i gonfaloni di ciascuna Arte, tutto il clero uscí in processione per andare incontro al vittorioso esercito. Il capitano Amerigo di Narbona ed il podestà Ugolino de' Rossi fecero la loro entrata solenne, sotto ricchissimi baldacchini di drappi d'oro, portati dai piú nobili cavalieri di Firenze. E tutta la spesa di questa guerra si fece con una imposta di lire sei e soldi sei per cento sui beni nella Città e nel contado, il che portò subito trentasei mila fiorini d'oro, essendo allora l'estimo, l'amministrazione e le rendite del Comune mirabilmente ordinate, come osserva il Villani (VII, 132).

La repubblica fiorentina, dopo la umiliazione delle due nemiche città d'Arezzo e di Pisa, aveva in tutta Toscana abbattuto il partito ghibellino, fatto trionfare il guelfo; s'era assicurato in essa un predominio politico e commerciale quasi senza limiti; e la sua ricchezza andò d'ora in poi rapidamente crescendo. Vi furono grandi feste, cene, desinari in tutte quante le piú ricche case, radunandosi i cittadini nelle corti dei loro palazzi, le quali venivano ricoperte di zendado, ornate di ricchissimi drappi. Le donne, in segno d'allegrezza, andavano per la Città, inghirlandate di fiori. Eppure si voleva ancora proseguire la guerra, perché pareva che si desiderasse addirittura veder la fine delle due piú potenti città ghibelline. Ma ciò non poteva riuscir facilmente.

Nel 1289 seguirono nuove scaramucce tra Guelfi e Ghibellini, ma furono cose di poco momento. I Fiorentini tentarono piú volte, però sempre invano, di pigliare Arezzo per forza o per inganno. Nel novembre erano riusciti a fare un accordo segreto, col quale pareva dovessero proprio entrare nella nemica città, per sorpresa. Improvvisamente fu dato ordine a tutti gli uomini atti alle armi di trovarsi riuniti fuori delle mura, prima che una candela accesa innanzi ad una delle porte, fosse consumata. E l'esercito cosí tumultuariamente raccolto, corse a furia verso Arezzo; ma l'accordo era stato già scoperto, almeno si disse, da uno che morendo l'aveva rivelato al confessore. Certo è che bisognò ritirarsi senza aver nulla concluso. I Fiorentini tornarono nel giugno del seguente anno, con un esercito di 1,500 cavalieri e 6,000 pedoni della Lega; circondarono Arezzo, e per sei miglia intorno ne guastarono il contado, durante 29 giorni, ma anche ora non conclusero altro. Le città erano a quei tempi tutte fortificate, e le opere d'assedio, prima dell'invenzione della polvere, riuscivano affatto inutili, ogni volta che v'era una resistenza decisa e senza tradimenti. Al che s'aggiungeva adesso, che i Fiorentini volevano combattere nello stesso tempo Arezzo e Pisa. Infatti, lasciati a guardia dei vicini castelli 300 cavalieri e molti pedoni, andarono col resto dell'esercito dal Valdarno di sopra a quello di sotto, per far guerra a Pisa.

Nello scorso anno erano stati i Lucchesi che, con l'aiuto di Firenze e della Lega, avevano raccolto e guidato un esercito di 400 cavalieri e 2,000 pedoni, per tener viva la guerra contro Pisa, mentre che Firenze era occupata con Arezzo. Arrivarono fino alle porte, e, secondo il solito costume, vi corsero il pallio; per 25 giorni guastarono il contado, pigliando il castello di Caprona, assalendo piú volte Vico Pisano, ma senza altro risultato. Nel 1290 si ripigliava dai Fiorentini la medesima guerra, con le forze assai maggiori di tutta la Lega. E nel tempo stesso che questa, col suo esercito, faceva dalla parte di terra un assalto generale, i Genovesi assalivano dalla parte di mare, con un'armata la quale recò danni infiniti. Livorno e Porto Pisano furono presi, rovesciate in mare le quattro torri a guardia del porto, e il fanale detto della Meloria fu del pari abbattuto, insieme cogli uomini che v'erano dentro. Prima di ritirarsi i Genovesi affondarono alla bocca del porto quattro navi cariche di pietre, distrussero i palazzi ed i magazzini. Ma dalla parte di terra non vi furono che guasti nel contado e rovine di piccoli castelli. Intanto i Pisani resistevano a tutti con animo fermo. Il loro capitano Guido di Montefeltro, alla testa della nuova fanteria leggiera da lui istituita, combatteva con molta efficacia contro i fanti toscani della Lega, contro la cavalleria pesante da essa assoldata. E piú volte riuscí a fare sortite, con le quali vendicò sanguinosamente le perdite sofferte. Nel dicembre del '91, i Pisani assalirono il castello di Pontedera, e trovandolo mal difeso, se ne impadronirono; fecero poi ribellare contro S. Miniato il castello di Vignale. I Fiorentini volevano subito correre a nuova battaglia; ma il loro esercito partí tardi, e quando fu in via, caddero pioggie torrenziali, le quali inondarono per modo la campagna, che bisognò retrocedere.

Le cose della guerra procedettero ora sempre piú debolmente, perché cominciavano in Città mali umori, che facevano presentire discordie assai gravi. Laonde, sebbene il giudice di Gallura spingesse a ripigliare le armi, nelle quali egli s'era mostrato operoso e valoroso, pure era divenuto cosí grande nei Fiorentini il bisogno della pace, che finalmente la conclusero a Fucecchio il 12 giugno '93. I patti furono: restituzione dei prigionieri; esenzione da ogni gabella, tanto per gli abitanti dei Comuni della Lega, che passavano per Pisa, quanto pei Pisani, che passavano per detti Comuni. L'ufficio del Podestà o Capitano di Pisa doveva darsi ad uomini della Lega, venendo espressamente vietato il darlo a ribelli o nemici di essa, o ad alcuno dei conti di Montefeltro. Ed il conte Guido, il valoroso soldato, che con tanta energia e coraggio aveva difeso la repubblica pisana, dovette essere licenziato con tutti i Ghibellini forestieri, in fede di che bisognò dare in ostaggio 25 cittadini delle migliori famiglie. Cosí furono pagati la fede e l'eroismo del vecchio capitano, che, riscosso il suo soldo, entrò nel Consiglio, e rimproverata dignitosamente ai Pisani la loro ingratitudine, se ne partí senza mostrare alcun desiderio di vendetta. E avrebbe potuto farla, se avesse voluto operare secondo il costume di quei tempi, trovandosi egli tuttavia a capo d'un esercito agguerrito, che in lui fidava pienamente. Fu ancora pei patti di questa pace stabilito, che i discendenti del conte Ugolino ed il giudice di Gallura venissero liberati da ogni bando, e rimessi nei loro beni.

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