VIII

Mal si potrebbe dire, se in questi anni sia stata maggiore l'energia eroica dei Pisani nella sventura, o l'odio insaziabile dei loro nemici. Subito dopo la terribile rotta della Meloria, i Fiorentini ed i Lucchesi offerirono a Genova d'allearsi, per compiere insieme lo sterminio della comune rivale. L'alleanza doveva durare sino a 25 anni dopo finita la guerra. Le ostilità sarebbero cominciate fra 15 giorni, con l'obbligo a Genova di mettere in mare 50 galere, ai Fiorentini e Lucchesi di mettere insieme un esercito. Questi assalirebbero dalla parte di terra, quelli dalla parte di mare. Ogni anno, almeno per quaranta giorni, si sarebbe combattuto. Pisa capí che ormai si voleva la sua ultima rovina, e tale fu allora il suo odio contro Lucca, soprattutto contro Firenze, che, per non cedere ad esse, si dichiarò pronta a sottomettersi piuttosto ai patti che Genova avesse voluto imporle. Ma invano. Il 13 di ottobre l'alleanza fu conclusa nella casa della Badia in Firenze, presenti i sindachi di Genova e di Lucca, insieme con quelli di Firenze, fra i quali ultimi si trovava Brunetto Latini; e si lasciò luogo alle altre città toscane d'entrare nella Lega. Ma, quello che è piú notevole, in essa potevano essere ammessi ancora i piú autorevoli prigionieri pisani, che avessero dato sicurtà di venire a muover guerra alla patria loro. Potevano, alle medesime condizioni, essere ammessi anche il conte Ugolino, i suoi figli ed il Giudice di Gallura, se divenivano cittadini genovesi, e riconoscevano le proprie terre in feudo da Genova. Tutti questi dovevano però essere accolti di comune consenso degli alleati, e non oltrepassare il numero di 20. Si conferma da ciò chiaramente che fra i Pisani v'erano parecchi, che avevano tradito o erano disposti a tradire. Firenze non dimenticò neppure ora quello che del resto non dimenticava mai, cioè, di stipulare, insieme con le alleanze politiche, vantaggiosi patti commerciali.

Ben presto parecchie altre città di Toscana entrarono nella Lega, e cominciarono gli apparecchi di guerra. Pisa allora si vide subito da ogni lato circondata. I Fiorentini entrarono in Val d'Era, i Lucchesi pigliarono alcuni castelli, lo Spinola con le navi genovesi assalí e danneggiò molto Porto Pisano. Ma ad un tratto i Fiorentini si dimostrarono assai freddi nell'impresa, con grandissimo scontento dei Lucchesi e dei Genovesi. Essi volevano sopra tutto avvantaggiare il proprio commercio, e quindi era loro necessario fiaccare l'orgoglio di Pisa, e sottometterla, come avevano fatto delle altre città di Toscana; ma non volevano che ciò seguisse per opera principalmente dei Genovesi, molto meno poi a loro unico profitto, come sarebbe di certo ora avvenuto per la preponderanza che avevano sul mare. Ed in vero, se Genova si fosse resa padrona di Pisa, sarebbe stata padrona anche del Mediterraneo, e la sua potenza, di molto accresciuta, sarebbe divenuta addirittura formidabile ai Fiorentini. Quindi è che essi, dopo avere addensata cosí gran tempesta contro Pisa, pensavano ora, secondo la dubbia fede di quei tempi, in cui poco o punto si rispettavano i trattati, a volgere ogni cosa a loro esclusivo vantaggio. E i Pisani videro subito l'occasione opportuna, e cercarono profittarne; ma lo fecero poi in modo, che tutto tornò invece a loro rovina. Avendo, come vedemmo, invano cercato un accordo con Genova; non potendo, dopo tante calamità, sostenere una guerra del pari formidabile per terra e per mare, cercarono d'intendersi almeno con Firenze. Ed a questo fine nominarono loro Podestà il conte Ugolino, dandogli piú tardi anche il comando della guerra, non ostante le accuse ben note di tradimento alla Meloria. Ma essi lo sapevano guelfo e segreto amico dei Fiorentini, quindi lo ritenevano adatto allo scopo ora che li volevano allontanare da Genova. Il Conte, è vero, sembrava non avere che un solo pensiero, quello di dominare in Pisa; ed era perciò pronto ad intendersi, occorrendo, coi nemici della patria, capace di lasciarsi trasportare ad ogni atto nefando, pur di soddisfare la sua sfrenata ambizione. Una volta però che questa era soddisfatta, credevano i Pisani che egli, coraggioso, accortissimo, con molte amicizie tra i Guelfi, avrebbe saputo trovar modo di venire ad un accordo. E cosí fu, ma con resultato ben diverso da quello che s'aspettavano.

Narrano i cronisti, che egli inviasse ai rettori di Firenze un dono di fiaschi con vino di vernaccia, in fondo ai quali aveva messo fiorini d'oro per corromperli. Questa tradizione prova solamente, che egli era tenuto capace di ricorrere ad ogni mezzo pur di raggiungere i suoi fini. Ma ben duri furono i sacrifizî, che dovette imporre a Pisa, per indurre i Fiorentini a sospendere la guerra contro di essa. Bisognò cedere terre e castelli importanti, come S. Maria a Monte, Fucecchio, S. Croce, Monte Calvoli, e mandare in esilio i Ghibellini, riducendo la città a parte guelfa, il che per una repubblica stata sempre ghibellina, era un'umiliazione grandissima. Pisa doveva ormai piegarsi a tutto, perché trattavasi di salvare la propria esistenza. Quando però i Genovesi e i Lucchesi s'accorsero che erano abbandonati da Firenze, la quale sosteneva i Pisani contro Lucca, i lamenti furono cosí grandi contro la violata fede, che il conte Ugolino, per far tacere almeno i Lucchesi, cedette loro Bientina, Ripafratta e Viareggio. In questo modo l'orgogliosa repubblica pisana restringeva il suo territorio fin quasi alle mura, privandosi d'ogni difesa dalla parte di terra, quando le sue navi erano su tutti i mari inseguite e predate dai Genovesi. Solo il conte Ugolino trionfava in mezzo a tante rovine ed umiliazioni, perché comandava in città, ed era tutto quel che voleva. Ma nel suo ambíto dominio egli era essai meno sicuro di quel che pensava, perché i fieri spiriti pisani non erano del tutto domati, e già i piú tolleravano assai male una tirannia interna, che non riusciva a salvare dalle umiliazioni esterne. Ogni piú piccola occasione faceva ora veder segni manifesti, che le passioni cittadine potevano da un momento all'altro prorompere.

Un'altra causa di mali umori continuavano ad essere le trattative per riavere da Genova i prigionieri, che formavano parte non piccola della migliore gioventú pisana. Tutti desideravano riaverli in ogni modo; ma il Conte frapponeva ogni giorno nuovi ostacoli, perché li sapeva ghibellini e però a lui avversi. Faceva sempre proposte inaccettabili dai Pisani, per mandare le cose in lungo. Cosí nulla si concludeva, ed era quel che voleva. Ma la sua alterigia finí col portare la divisione nel seno dello stesso partito guelfo. Nino Visconti, giudice di Gallura, suo nipote e capo naturale dei Guelfi, cominciò ad accostarsi ai Ghibellini per far guerra allo zio. Il quale allora, senza esitare, mandò in esilio molti altri Ghibellini, e fece abbattere dieci dei loro piú ricchi palazzi. Lo sdegno cominciò a divampare. Nino si uní strettamente ai Gualandi, ai Sismondi, e cercarono di sollecitare il ritorno dei prigionieri, cosa che il Conte ritardava con nuovi pretesti, mantenendo vive le cagioni di guerra con Genova. Pensarono allora di sollevare il popolo contro di lui, ma non vi riuscirono; ricorsero perciò alle vie legali, per vedere se cosí potevano porre un freno alla sua autorità eccessiva. Egli era stato nominato Capitano generale del popolo, ma aveva illegalmente assunto anche l'ufficio di Podestà, e senza diritto s'era alloggiato nel Palazzo della Signoria. Nino e i suoi amici protestarono presso gli Anziani, e l'obbligarono ad abbandonare il Palazzo, riducendosi nei termini della legge. Il che egli fece, ma per poco tempo, e ripigliò ben presto con la forza la sua prima autorità. Intanto l'odio delle parti cresceva, studiandosi il Conte di mantener viva la discordia con Genova, i suoi nemici cercando invece di concludere la pace e riavere i prigionieri, perché anche questo era un mezzo per abbatterlo.

Finalmente, accortosi del grave pericolo in cui versava, il Conte voleva in qualche modo uscirne. Visto che alcuni dei Guelfi, uniti ai Ghibellini, gli erano divenuti del pari avversi e gli facevano guerra, pensò d'avvicinarsi a questi, per separarli da quei Guelfi che lo avevano abbandonato, e che perciò voleva abbattere, sperando di potere piú tardi compiere la medesima opera contro i Ghibellini, dopo averli isolati. Ma, sebbene non gli mancasse di certo l'astuzia, finí coll'aver contro di sé gli uni e gli altri, ed alla testa de' suoi nemici cosí riuniti, si pose l'arcivescovo Ruggieri, ghibellino autorevolissimo. La guerra civile infiammò la città intera, ed il Palazzo del popolo si trovò in mano ora dell'Arcivescovo, ora del Conte, il quale, accecato dal furor della vendetta, non tollerava avvertenze o consigli neppure da' suoi piú intimi. Un giorno in cui lo scontento del popolo era al colmo pel caro dei viveri, e niuno osava parlargli, uno de' suoi nipoti si presentò a lui, per rivelargli lo stato delle cose, consigliandogli di sospender le gabelle, acciò diminuisse il prezzo dei viveri. Ed il Conte si lasciò talmente trasportare dall'ira, che gli tirò un colpo di pugnale, ferendolo nel braccio. Un nipote dell'arcivescovo, amico del giovane, trovandosi presente, non seppe resistere, e gli fece scudo della sua persona. Il Conte, fuori di sé pel furore, pose mano ad un'ascia, che era vicino a lui, e con un colpo alla testa lo stese morto a' suoi piedi.

L'arcivescovo Ruggieri dissimulò un pezzo, aspettando l'occasione, che finalmente venne. Il 1.° luglio 1288 il Consiglio della repubblica era radunato nella chiesa di S. Sebastiano, per deliberare sulla pace coi Genovesi. I Ghibellini ed il popolo la volevano in ogni modo, ma il Conte frapponeva nuovi ostacoli, sperando sempre aiuto dagli amici. Quando uscirono dall'adunanza, l'Arcivescovo capí che l'ora era giunta, che non v'era piú tempo da perdere. I Gualandi, i Sismondi, i Lanfranchi ed altri ancora s'unirono con lui, e andarono ad assalire il Conte, che con due figli, due nipoti, ed alcuni altri a lui piú fidi, si difese valorosamente. Dopo il primo scontro, nel quale vide morire un suo figlio naturale, si ritirò nel Palazzo del popolo, e continuò a difendersi da mezzogiorno alla sera, quando gli assedianti si decisero a mettervi fuoco. Penetrando poi attraverso le fiamme, fecero prigioniero il Conte con i suoi due figli piú giovani, Gaddo e Uguccione, e due nipoti, Nino detto il Brigata e Anselmuccio. Furono chiusi nella torre dei Gualandi, sulla piazza degli Anziani, dove l'arcivescovo Ruggieri li tenne alcuni mesi in assai dura prigionia. Finalmente la chiave della torre fu gettata in Arno, e morirono tutti di fame, tra quelle angosce che l'Alighieri rese immortali.

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