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Da questo momento i Fiorentini cominciarono a pensare sopra tutto alle cose interne della Città, che neppure durante le ultime guerre avevano abbandonate. Infatti l'amministrazione della Repubblica s'era andata migliorando sempre, ed in molte parti si poteva dire esemplare; il commercio, l'industria, la ricchezza erano assai aumentati. E nello stesso tempo si erano compiute molte opere pubbliche, lavorando allora il celebre architetto Arnolfo di Cambio, autore di parecchi de' piú bei monumenti di Firenze. Col suo disegno si pose mano nel 1285 ai primi lavori per allargare la Città, costruendo piú tardi il terzo cerchio delle mura, alle quali sorvegliò anche il celebre cronista Giovanni Villani; e per opera dello stesso architetto fu nel medesimo anno costruita e lastricata tutt'intorno la Loggia d'Or S. Michele, sotto la quale allora vendevasi il grano; e cosí pure fu lastricata la Piazza dei Signori, e venne abbellita e restaurata la Badia. Folco Portinari, padre della Beatrice di Dante, fondava a sue spese la chiesa e l'ospedale di S. M. Nuova. Si lavorò alla Piazza di S. M. Novella; e s'iniziarono molte altre opere di simil natura.

Intanto continuavano come sempre le riforme politiche, fra cui ricorderemo quella che nel 1290 ridusse da un anno a sei mesi l'ufficio del Podestà, che fu dato allora a Rosso Gabrielli da Gubbio, città dalla quale vennero in Firenze e per tutta Italia molti Podestà e molti Capitani del popolo. Le Marche, la Romagna e l'Umbria pareva ne fossero allora il vivaio, perché gli abitanti di quelle province dediti alle armi, come è provato dal gran numero di capitani e soldati di ventura che ne uscirono, erano anche assai pratici della giurisprudenza, a cagione della vicina Università di Bologna. Questa riduzione dell'ufficio del Podestà a soli sei mesi, non durò molto; ma si deliberò per le ragioni stesse che fecero restringere a due la durata della Signoria. L'ufficio di un magistrato, che doveva amministrar la giustizia, comandare l'esercito, e menava seco un certo numero di gente armata e per proprio conto assoldata, poteva riuscire pericoloso, perché assai facile a trasformarsi in tirannide, come era seguito già in parecchi Comuni italiani. Quindi è che a Firenze si cercava ripararvi con una rapida mutazione, la quale non desse modo di maturare disegni funesti alla libertà, né di trovare favori ed amici su cui a lungo contare.

Ma ben altri e piú gravi mutamenti politici e sociali avevano luogo nel seno della cittadinanza fiorentina. I segni d'una nuova e profonda trasformazione divenivano ogni giorno piú visibili; era perciò sempre piú necessario apparecchiarsi con la pace a sostenere l'urto inevitabile e vicino delle future rivoluzioni. Gli Angioini, colla loro presenza, coll'esempio dei loro baroni, col creare sempre nuovi cavalieri in Firenze, avevano fatto crescere a dismisura l'orgoglio dei potenti guelfi, cui ora si dava nome di Grandi. Costoro, imitando i nobili francesi, assumevano modi poco repubblicani, e volevano soverchiare in tutto e su tutti. Nel 1287 vi fu grave tumulto, perché uno di questi prepotenti, a nome Totto Mazzinghi, venne, per omicidio e per altri delitti, condannato a morte dal Podestà; e quando lo menavano al supplizio, messer Corso Donati, uno dei maggiori cavalieri in Firenze, si provò coi suoi a liberarlo colla forza. Il Podestà, non volendo tollerare una cosí manifesta violazione delle leggi, fece sonar la campana a martello, ed il popolo, levatosi a rumore, corse armato, a piedi ed a cavallo, gridando: giustizia, giustizia dopo di che la giustizia venne fatta, ed anche assai severa. Il Mazzinghi, condannato nel capo, fu prima strascinato per via e poi impiccato; gli autori della ribellione contro il magistrato, furono condannati in danaro, e la Città ritornò tranquilla. Ma questi non eran che segni di mali maggiori, e gli uomini politici in Firenze se ne impensierivano assai. I popolani guelfi, per mettere un argine all'alterigia dei Grandi, e per impedire la loro unione col popolo minuto, cominciarono ad allargare sempre piú le libertà politiche, nel tempo stesso che vincolavano l'azione dei potenti. Questi erano già stati costretti, come abbiam visto, a dare mallevadori responsabili delle loro azioni, a giurare di non far vendette, di non sopraffare la plebe, e simili. Destinata ad abbattere in Città e fuori la potenza dei Grandi, ad accrescere quella del popolo, disfacendo gli ultimi residui del sistema feudale, ancora esistenti, fu la legge assai memorabile del 6 agosto 1289. Con essa fu interamente distrutta la servitú nel contado, dichiarando con parole le quali suonano come una proclamazione dei diritti dell'uomo, che la libertà è un diritto imprescrittibile di natura; che essa non può dipendere dall'arbitrio altrui; che la Repubblica voleva in tutto il suo territorio, non solo mantenerla, ma anche accrescerla. E veniva cosí abolita ogni specie di servitú, temporanea o a vita, ogni contratto, accordo o patto contrario alla libertà personale.

Parve ad alcuni che già sin dal 1256 il Comune di Bologna avesse compiuta questa riforma importantissima, la quale i Fiorentini avrebbero solo 33 anni piú tardi imitata. Ma è un errore nato dal supporre che l'abolizione della servitú si compiesse nei Comuni italiani a un tratto, quando invece procedette lentamente e per diversi gradi. Nel contado v'erano non solo i nobiles ed i loro servi, ma anche i fideles, i quali avevano già una personalità giuridica, ma dipendevano ancora dai nobiles, cui prestavano servigî e pagavano dazî. Piú tardi questa condizione dei fideles migliorò ancora, ed essi ottennero terre, in feudo o a livello, dai signori, ai quali rimanevano però legati da patti personali, che li obbligavano a restare in perpetuo sul fondo. E per questa ragione, i signori si credevano sempre, o almeno fingevano credersi, in diritto di vendere il fondo insieme coi fideles, anche quando ciò era divenuto contrario allo spirito della legislazione. Nel 1256 i Bolognesi abolirono la servitú, lasciando i contadini sempre dipendenti dal padrone, cioè nella condizione piú o meno di fideles, condizione che nell' 83 migliorarono ancora, ma non abrogarono del tutto. Invece già prima del 1289 nel contado fiorentino non v'erano piú servi, e i fideles erano giuridicamente da piú tempo divenuti quasi indipendenti dai padroni, sebbene questi, abusando di patti puramente personali, li obbligassero spesso a risiedere sul fondo, e presumessero di poterlo vendere, anzi lo vendessero non di rado insieme con essi. Questi sono gli abusi che i Fiorentini condannarono e soppressero nel 1289, come contrarî alla libertà, la qual è «di diritto naturale», e perciò inalienabile. La nuova legge dichiarava inoltre che, in conseguenza di ciò, tutte queste vendite erano abusive e però di nessun valore nei loro effetti: sciogliendo ed annullando ogni patto illegale, garantiva finalmente al contadino la sua piena ed intera libertà. Aggiungeva anzi, che d'ora in poi esso poteva (ancora senza che la vendita del fondo avesse luogo) sciogliersi, mediante denaro, dai patti personali con cui s'era legato al padrone. Cosí è che la legge del 1289 non aboliva la servitú già da un pezzo abolita dai Fiorentini, ma per la prima volta rendeva pienamente liberi i lavoratori della terra. E ciò seguiva ancora con grande vantaggio economico del Comune, perché essi divenivano cosí tutti suoi contribuenti diretti, e con non minore vantaggio della democrazia, perché si spezzavano gli ultimi legami del sistema feudale, e si fiaccava la potenza dei signori del contado.

In questo e nel seguente anno furono prese altre non poche deliberazioni intese a rafforzare il popolo nella Città, le quali dimostrano che Firenze procedeva sempre piú oltre nelle sue trasformazioni politiche e sociali. Prima di tutto s'accrebbe il numero delle Arti legalmente costituite, aggiungendone alle 7 maggiori altre cinque, portandole a 12, con proprie insegne, ordini, armi ed importanza politica. Infatti noi ora troviamo, che gli atti ufficiali della Repubblica parlano di 12 Arti maggiori, mentre che per lo innanzi parlavano solo di sette. Ben presto, è vero, esse tornarono a sette; ma le cinque che restavano, vennero allora unite ad altre, e portate cosí a quattordici, col nome di Arti minori, formando in tutto 21 Arti, che fa il numero definitivo. Si fece nel 1290 un'altra legge, chiamata del divieto, la quale ordinò che chiunque fosse stato una volta Priore, non potesse per tre anni di poi tornare in ufficio. Piú tardi questo divieto fu in parte esteso anche ai parenti. Erano sempre provvedimenti intesi a mettere un argine contro ogni possibilità di futura tirannide, un freno alla crescente alterigia dei Grandi.

A questo medesimo fine miravano ancora altre leggi. Troviamo infatti due provvisioni deliberate alla quasi unanimità il 30 giugno ed il 3 luglio 1290. Con esse si proibiva severamente a tutti coloro che erano a capo delle Arti di far monopolio, accordi, leghe, posture e simili, con cui si cercasse, in qualunque modo, imporre prezzi arbitrariamente fissati, senza osservare le norme prescritte dagli Statuti. E la pena ricadeva severamente non solo sugli autori di questi arbitri, che dovevano pagare l'ammenda di 100 lire, ma anche sull'Arte cui essi appartenevano, la quale era condannata in 500 lire, per non aver provveduto all'osservanza delle leggi, e sui Rettori e Consoli di essa, che erano condannati in 200 lire.

Di assai maggiore importanza fu un'altra legge deliberata il 2 gennaio 1291, la quale diceva chiaro di voler frenare con la forza la rapacità felina dei Grandi (volentes lupinas carnes salsamentis caninis involvi). Essa proibiva severamente di ricorrere a tribunali o magistrati, che non fossero quelli per legge costituiti, cioè i Priori, il Capitano, il Podestà e i giudici ordinarî del Comune. Coloro che dal Papa, dall'Imperatore, dal re Carlo o dai loro Vicarî avessero ottenuto esenzione di qualunque sorta, o arbitrio di ricorrere ad altri magistrati, e pretendessero di poterlo fare; coloro che, con questo medesimo intento, vantassero pretese di antichi diritti feudali, erano avvertiti di non valersene sotto minaccia di pene gravissime. La nuova legge discorreva per minuto le varie forme di tali pretese esenzioni, e determinava le pene. Ma quello che è piú singolare, essa puniva non solamente coloro che vantavano questi diritti e li volevano esercitare, i notai che trascrivevano gli atti, e gli avvocati che ne sostenevano la validità; ma quando i veri autori fossero riusciti a sfuggire la pena, chiamava responsabili i loro parenti o anche lontani congiunti, i loro coloni e perfino i loro inquilini. Il popolo minuto, il popolo grasso e i Grandi formavano a quel tempo come tre ordini di cittadini, anzi tre società distinte, che nelle offese e nelle difese, negli odî, nelle vendette e nei diritti politici, agivano come se ognuno fosse, volesse e dovesse essere responsabile pe' suoi colleghi. La legge veniva quindi spinta, riconoscendo questo stato di cose, a provvedimenti che, se erano opportuni o anche necessarî in aiuto della democrazia e dei deboli contro i potenti, non cessavano perciò di essere arbitrarî. Tuttavia ogni giorno si vedeva piú chiara la necessità di ricorrere a rimedî estremi. I Grandi, pei favori del Papa e degli Angioini, erano divenuti troppo orgogliosi. E i prosperi successi ottenuti recentemente a Campaldino, dove il valore di Corso Donati e di Vieri de' Cerchi aveva deciso la battaglia, li inorgogliva per modo, che si vantavano di non temer piú le leggi, le quali di fatto ogni giorno violavano. E cosí fu apparecchiata quella rivoluzione che, scoppiata nel 1293, costituí il secondo popolo, e condusse i potenti alla loro ultima rovina.

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