VII

La città di Pisa, sebbene traesse tutta la sua forza e la sua potenza dal commercio marittimo, pure, sia per essere stata sempre imperiale, sia perché tale pareva che fosse in Italia il destino delle repubbliche marittime, si trovava dominata da una potente aristocrazia, al pari di Genova e di Venezia. I Fiorentini avevano, da lungo tempo e con molta prudenza, cercato d'esercitare fra i nobili pisani la loro azione per poterli dividere. Giovanni Visconti, chiamato giudice di Gallura, pel ricco e potente ufficio da lui già tenuto in Sardegna, dove aveva governato alcune province in nome della repubblica pisana, ne era stato poi esiliato nel 1274 come guelfo, e s'era quindi unito col vicario di re Carlo e colla Taglia dei Guelfi contro la sua patria. Egli morí nell'anno seguente; ma allora uno dei piú potenti e ambiziosi uomini di Pisa, il conte Ugolino della Gherardesca, che aspirava alla tirannide, fu, insieme con altri Guelfi assai possenti, esiliato (1275). Ed essi, non solamente s'allearono co' Fiorentini, ma, insieme con la Taglia, combatterono contro i Pisani, occuparono Vico Pisano ed altri castelli. Nel settembre del medesimo anno, tornarono all'assalto coi Fiorentini, coi Lucchesi, col vicario di re Carlo, ed a tre miglia della loro città sconfissero i proprî concittadini, pigliando il castello d'Asciano, che restò ai Lucchesi. Nel 1276 i Fiorentini ed i Lucchesi ripigliarono la guerra, istigati sempre dal conte Ugolino e da' suoi amici. Questa volta, come abbiamo già accennato piú sopra, s'incontrarono da una parte e dall'altra due poderosi eserciti, fra Pisa e Pontedera, presso quello che chiamavasi Fosso Arnonico, un canale fatto già dai Pisani colle acque dell'Arno, per difendere con esso il territorio della loro repubblica. La disfatta che questi subirono fu ora anche maggiore, e bisognò accettar dai Fiorentini le condizioni della pace, fra cui la prima e piú dura fu, che dovessero rimettere in città gli esuli guelfi, specialmente l'ambizioso e già molto odiato conte Ugolino.

Gregorio X era assai scontento della guerra, proseguita con tanto ardore, con tanta ostinazione d'animo, perché egli vedeva nel ghibellinismo pisano un argine contro la crescente potenza de' Fiorentini, i quali eran guelfi, ma facevano ogni opera per rendersi affatto indipendenti dal Papa. Avendo loro imposto di posare le armi, e vedendo che invece continuavano a combattere, scomunicò la Città, la quale, scusandosi alla meglio, non tenne di ciò alcun conto fino al 1276, quando si concluse una pace, che fu però assai breve, e già si meditavano nuovi assalti.

La repubblica di Pisa restò allora tranquilla qualche anno, ed il suo commercio era cosí vasto, le sue colonie cosí estese, che le finanze in brevissimo tempo ritornarono assai floride. Se non che, queste medesime ricchezze avevano colà reso alcune famiglie tanto potenti, che, non soddisfatte piú d'una eguaglianza repubblicana, volevano primeggiare nell'interno, e dirigere la politica estera, non già secondo l'interesse dello Stato, ma secondo le loro ambizioni personali. Il giudice di Gallura ed il giudice d'Arborea, i conti Ugolino, Fazio, Neri e Anselmo della Gherardesca tenevano ognuno una piccola corte con uomini armati, quasi fossero altrettanti principi. Occupati nelle loro gare ambiziose, distraevano l'attenzione dei magistrati dai pericoli che, ogni giorno piú da vicino e piú gravi, minacciavano la loro repubblica. Infatti non era solo la Lega guelfa, che con una guerra continua esauriva sempre piú le forze dei Pisani; ma da qualche tempo l'eterna rivalità di Genova minacciava una guerra ben piú sterminatrice. Queste due città marittime, ambedue ghibelline, avrebbero avuto ogni ragione d'essere unite, per difendersi dal predominio assai maggiore, che aveva sui mari quella di Venezia. Ma sembrava che tutto ciò le rendesse invece piú gelose l'una dell'altra. Le loro navi venivano continuamente alle prese sui mari di Oriente. Un fiero scontro ebbe luogo nel 1277 presso Costantinopoli e nel mar Nero. Cominciato dai Pisani, era finito con loro danno, ed aveva lasciato in essi un grande desiderio di vendetta. Né le occasioni mancavano. Mentre che i Veneziani dominavano quali padroni assoluti nell'Adriatico, i Genovesi ed i Pisani, che erano a poca distanza sul Mediterraneo, s'incontravano ogni giorno, perché facevano i medesimi commerci, e possedevano terre nelle medesime isole di Corsica e di Sardegna. Tutto ciò era cagione di continue discordie. Inoltre la Lega guelfa, diretta specialmente contro i Pisani, dava a Genova occasioni continue d'iniziare la guerra, alla quale i Fiorentini l'istigavano con tutte le arti della loro politica. Tale e tanto era poi l'odio fra loro, che furono i Pisani stessi quelli che primi si lasciarono indurre a provocarla. Li moveva un'ardente brama di tornare alle armi, sempre riaccesa dalle ambizioni dei nobili, che speravano cosí di farsi strada al potere, ed erano anch'essi stimolati, incoraggiati da Firenze.

Comandava in Corsica un tale Sinucello, che aveva titolo di Giudice di Cinarca. Costui, allevato in Pisa, era stato da essa aiutato a riprendere ed accrescere nell'isola i possessi della sua famiglia. Dominando come protetto e dipendente da Pisa, s'era poi sottomesso invece con giuramento di fedeltà, a Genova, che teneva un'altra parte dell'isola. E piú tardi, commettendo ogni sorta di crudeltà e di prepotenze, era tornato nemico dei Genovesi, le cui città nell'isola aveva devastate. Rifuggitosi a Pisa, questa se ne dichiarava protettrice come di suo antico vassallo, senza fare alcun conto né dei posteriori trattati, con cui esso aveva giurato fedeltà a Genova, né delle crudeltà commesse. Voleva rimetterlo colla forza in Corsica, ma i Genovesi volevano invece tenerlo lontano, e fu questa un'occasione alla guerra. Egli venne ricondotto nell'isola con 120 cavalli e 200 fanti, coi quali riprese le sue terre; e da quel momento (1282) le navi genovesi e pisane s'andarono cercando sul Mediterraneo, per combattersi. Ed infatti dalla fine dell'anno 1282 all'agosto del 1283 fu una serie continua di sanguinose scaramucce, che piú d'una volta presero le proporzioni di vera battaglia navale, quasi sempre colla peggio dei Pisani, i quali però ripigliavano subito forza, e s'apparecchiavano a nuove lotte. Una volta ebbero metà delle navi distrutte dalla tempesta, e, ciò nonostante, poco di poi (1284) ventiquattro delle loro galee scortarono il conte Fazio, che andava in Sardegna, dove essi avevano coi Genovesi continua cagione di guerra. Infatti il dí 1 maggio incontrarono l'armata genovese, e cominciò la battaglia, che durò tutto il giorno con grande ostinazione; ma finalmente i Pisani lasciarono 13 galere in mano del nemico, con moltissimi prigionieri. Eppure fu in quello stesso anno, che ebbe luogo fra le due repubbliche un'altra battaglia navale, che è fra le piú memorabili nelle storie del Medio Evo.

Genova, che aveva dovuto pagar care le sue vittorie, faceva costruire ed armare navi in tutta la Riviera; Pisa, esausta da tante guerre per terra e per mare, fece prodigi d'ogni sorta. Ricorse al patriottismo delle sue piú nobili famiglie, che si mostrarono degne del proprio nome. I Lanfranchi, assai numerosi in Pisa, armarono a loro spese non meno d'undici galere; i Gualandi, i Lei, i Gaetani ne armarono sei, i Sismondi tre, gli Orlandi quattro, gli Upezzinghi cinque, i Visconti tre, i Moschi due, altre famiglie s'unirono per armarne una. Andrea Morosini veneto, dei piú reputati nelle cose di mare, fu nominato Podestà, ed a lui venne data ogni autorità per provvedere agli apparecchi della guerra, e tener poi sul mare il comando supremo del naviglio. Cosí, da un lato e dall'altro, si misero in moto due delle piú formidabili armate, che si vedessero mai a que' tempi. Gli scrittori genovesi fanno ascendere a 96 le navi di Genova, a 72 quelle di Pisa; gli storici pisani, invece, numerano 130 navi genovesi e 103 pisane. Comunque sia, gli uni e gli altri riconoscono nelle prime una superiorità numerica, che fu aiutata anche dall'arte maggiore nel comando. Le due armate si cercarono lungamente, e poi temporeggiarono, perché ciascuna voleva trovarsi in una posizione piú vantaggiosa. Dicesi che i Pisani arrivassero sino al porto di Genova, tirando frecce d'argento e palle fasciate di porpora, per far pompa della propria ricchezza, secondo il costume del tempo. Certo è però, che una parte delle loro navi trovavasi ancorata a Porto Pisano, altre erano nell'Arno fra i due ponti della città, quando venne l'annunzio che i Genovesi erano in vista. Tutta Pisa fu a rumore; i marinai corsero alle loro navi; l'arcivescovo, seguito dal clero, portando in mano lo stendardo della repubblica, venne sul Ponte Vecchio, di dove benedisse l'armata, che con un grido di gioia levò l'ancora, e, scendendo il fiume, s'avviò al mare. Si racconta pure che, nel momento della benedizione, cadde il Cristo che era sull'alto della bandiera, e fu tenuto segno di sinistro augurio.

Il 6 agosto 1284 fu un giorno memorabile. I due navigli s'incontrarono presso la Meloria, a poca distanza da Porto Pisano. Ivi, in passato, i Genovesi aveano ricevuto una grave disfatta dai Pisani, ed ora venivano a vendicarla, con la battaglia memorabile di cui son piene le nostre storie. La distanza del tempo, e la moltitudine spesso discorde degli scrittori toscani e genovesi, rendono assai difficile una vera esattezza nei particolari. Cercheremo quindi d'accennare solo i piú notevoli e sicuri.

L'armata pisana era divisa in tre schiere. Comandava la prima l'ammiraglio Andrea Morosini; la seconda era affidata al conte Ugolino, valoroso, ma poco sicuro, perché divorato da un'ambizione, che gli faceva posporre l'interesse della patria al desiderio di dominarla; la terza era comandata da Andreotto Saracini. Oberto Doria, assai valoroso ed esperto, era l'ammiraglio dell'armata genovese, la quale, a vederla allora sul mare, sembrava per numero uguale alla pisana; ma ciò era perché Benedetto Zaccaria, con una riserva di trenta galere, se ne stava nascosto, secondo alcuni, dietro la Meloria, secondo altri, dietro Montenero, pronto ad accorrere in tempo opportuno. Poco dopo il mezzogiorno si cominciò a combattere, e la lotta durò aspra ed incerta per lungo tempo. Quando le due navi ammiraglie s'avvicinarono, lo scontro delle armate fu generale. Un numero grandissimo d'uomini vennero da una parte e dall'altra gettati nel mare, tra morti, feriti o storditi dai colpi ricevuti. Le onde erano rosse pel sangue; i naufraghi s'attaccavano ai remi per salvarsi, ma venivano dai medesimi remi rituffati nel mare, per la necessità di continuare le manovre, in un momento in cui la mischia era giunta al suo punto culminante e decisivo. Ed allora appunto, Benedetto Zaccaria, il quale già aveva ricevuto l'ordine d'avvicinarsi, fece forza di vele e di remi, per arrivare in tempo a decidere l'esito della battaglia. Quando i Pisani lo videro apparire, riconobbero subito la inferiorità delle proprie forze, e l'animo cominciò loro a mancare, sebbene proseguissero con uguale ardore a combattere. Lo Zaccaria, appena che sopraggiunse, riuscí ad avvicinare la sua galera a quella del Doria, per poter cosí pigliare in mezzo il Morosini, che con la sua capitana combatteva fieramente. Nel medesimo tempo la galera che portava lo stendardo di Pisa, veniva anch'essa circondata da piú lati. L'improvviso aiuto aveva per tutto accresciuto l'animo dei Genovesi, abbattuto quello dei Pisani. La lotta, divenuta troppo disuguale, continuava pure senza cedere da ambo i lati, perché ciascuna delle due eterne rivali pareva che volesse questa volta distruggere con l'armata nemica, l'esistenza stessa dell'avversa repubblica.

Ma cosí non si poteva durare a lungo. Ad un tratto si vide lo stendardo di Pisa, che era sostenuto da una grossa asta di ferro, piegarsi e cadere con fracasso orribile sotto i ripetuti colpi che aveva ricevuti, e nello stesso tempo cominciava a cedere la capitana dell'ammiraglio Morosini, il quale, orrendamente ferito nel volto, dovette arrendersi insieme con essa. Fu questo il momento in cui il conte Ugolino tradiva, dando il segnale della fuga: la disfatta divenne allora generale. Sette galere pisane colarono a fondo, ventotto restarono in mano del nemico, e i prigionieri furono, secondo una iscrizione che si trova sulla facciata della chiesa di S. Matteo a Genova, non meno di 9,272. Gli scrittori pisani li fanno ascendere fino ad undici, ed alcuni anche a quindicimila, forse perché vi computano molti dei morti, che furono 5,000. Certo è che dopo la battaglia della Meloria, soleva dirsi in Toscana, che per veder Pisa bisognava ormai andare a Genova.

Quando i superstiti pisani ritornarono a casa, tutti i cittadini uscirono nelle strade, per aver notizia dei loro parenti, e non vi fu quasi nessuno che non dovesse piangere qualche morto o prigioniero. Una moltitudine di donne, di vecchi e bambini, errava per la città come forsennata, a segno tale, che i magistrati dovettero dare ordine, che ognuno tornasse alle proprie case. Ben presto tutti in Pisa erano vestiti a bruno, e per le vie non si vedevano che donne. A Genova, invece, era dovunque gioia e tripudio; né l'odio contro i nemici s'era per la vittoria punto scemato. E di ciò s'ebbe una prova, quando si venne a discutere che cosa dovesse farsi dei prigionieri. Alcuni proposero di restituirli per una grossa somma di danaro; altri volevano invece avere il Castel di Castro, in Sardegna, ch'era la chiave dei possedimenti pisani in quell'isola; ma non fu vinto nessuno di questi partiti. Si levarono oratori, i quali proposero di ritenere i prigionieri fino a che non fosse finita del tutto la guerra. In tal modo, si diceva, le donne resterebbero vedove, senza potersi rimaritare, e si sarebbe impedito alla popolazione, e quindi all'armata pisana, di rifarsi delle perdite sofferte. La guerra infatti durò sedici anni ancora, e quando i prigionieri vennero restituiti, erano ridotti a poco piú di mille, gli altri essendo morti per le malattie, l'età, le ferite o gli stenti sofferti.

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