III

Ma v'era un'altra industria, che si può dire quasi tutta opera dell'ingegno e dell'attività umana, e nella quale i Fiorentini furono davvero i primi nel mondo. Dal cominciare del secolo xiii a tutto il xv, l'Arte del cambio fu per eccellenza un'arte fiorentina. Avendo, colle loro industrie, esteso le proprie relazioni in tutti quanti i mercati d'Oriente e d'Occidente, vi facevano naturalmente girare moltissimo oro. Era quindi naturale, che se un mercante d'Anversa o di Bruges voleva mandar denaro in Italia a Costantinopoli, non trovasse modo piú semplice e sicuro, che rivolgersi ad uno dei mercanti fiorentini, che si trovavano nel suo proprio paese. Essi comperavano colà la lana o i panni intonsi, che, raffinati a Firenze, tornavano novamente nel settentrione d'Europa, o andavano a Costantinopoli, a Caffa, alla Tana, dove si cambiavano con seta, colori, spezierie. Il mandar quindi una somma qualunque da un paese all'altro del mondo allora conosciuto, costava loro poco piú che una semplice lettera, e guadagnavano per ogni verso. Ricevevano un aggio sul denaro, e, trasmettendolo in mercanzia, vi facevano un secondo guadagno. Se, invece, un Fiorentino voleva mandare a Londra la somma di 100 fiorini, egli trovava subito a pochi passi il mercante di Calimala o di Por S. Maria, che, scrivendo ai suoi corrispondenti in Lombard Street, la faceva pagare. E queste che si chiamarono lettere di cambio, furono una delle invenzioni piú utili ai progressi del commercio moderno. Si è molto discusso per sapere chi fu primo a fare una tale scoperta. Alcuni r attribuiscono agli Ebrei, raminghi e perseguitati in Francia ed Inghilterra; altri ne danno il merito, assai piú tardi, agli esuli guelfi di Firenze nel secolo xiii. Ma è molto difficile indovinare il primo autore di questa che non può veramente dirsi scoperta, perché si presenta all'uomo cosí naturalmente, che esempî se ne possono trovare anche in un'assai remota antichità. Ciò che costituisce la vera importanza della lettera di cambio, non è già la sua prima invenzione, ma il suo carattere legalmente stabilito, la sua diffusione, i mille usi diversi che se ne possono fare, per trasmettere con rapidità, ed accrescere il capitale. In ciò nessuno precedette e nessuno superò mai i Fiorentini di quel tempo, che in tali operazioni furono maestri inarrivabili.

Gli esuli guelfi, andando nel secolo xiii, raminghi pel mondo, riannodarono le già vaste relazioni commerciali di Firenze, fondarono molte banche per tutto, dettero un grandissimo impulso all'Arte, e furono quindi creduti inventori della lettera di cambio, cui avevano dato larga diffusione e nuova importanza. Non v'è sottile ed ingegnoso trovato, per moltiplicare il danaro col danaro, facendolo girare d'un mercato all'altro, là dove la scarsità n'era maggiore, e però maggiore l'aggio e l'interesse che si pagava; non v'è quasi operazione complicata e difficile dei nostri banchieri moderni, che i Fiorentini non avessero già trovata. Quando la Repubblica doveva fare un debito, essa iniziava coi banchieri fiorentini tutte quelle medesime pratiche, e nel medesimo modo, che si usan oggi, perché ad essi non era ignota nessuna delle vie di guadagno. E quando da questi debiti riuniti si fece il Monte Comune, che, consolidando il capitale, pagava la rendita, allora i luoghi di Monte, che oggi si direbbero le azioni del debito pubblico, si negoziavano come ora per l'appunto. Noi troviamo i mercanti fiorentini, sotto le Logge di Mercato Nuovo, scommettere sull'alzare e ribassare della rendita, come ai nostri giorni si fa alla Borsa delle grandi città. E tutti questi guadagni divenivano anche maggiori in un tempo nel quale l'interesse legale andava dal 10 al 20 per cento, né molti si facevano scrupolo di portarlo, con contratti fittizi, fino al 40. Fissavano l'interesse legale ad una scadenza, alla quale sapevano di non potere essere pagati, e passata questa, pigliavano, sotto pretesto di pena e di risarcimento convenuto, il 40.

Importa notare, che tutte queste operazioni dei banchieri fiorentini venivano molto aiutate dalla buona qualità della loro moneta, nel coniare la quale la Repubblica ebbe sempre di mira il vantaggio maggiore del commercio. A questo fine, l'anno 1252 fu battuto il fiorino d'oro di ventiquattro carati, con l'immagine di S. Giovanni da un lato, il giglio di Firenze dall'altro; e per la bontà della lega e della sua coniazione, ebbe subito corso in tutti quanti i mercati, non solo d'Europa, ma anche d'Oriente. Otto di essi pesavano un'oncia, ed ognuno valeva circa 12 delle nostre lire. Ma i Fiorentini solevano fare i loro conti in lire soldi e danari. La lira d'argento, moneta allora di convenzione, era divisa in 20 soldi, il soldo in 12 danari. Il fiorino variò assai poco, ma la lira, sia per la maggiore mutabilità nel valore dell'argento, sia per altre ragioni, variò di continuo, e cosí la troviamo in proporzione sempre diversa col fiorino. Nel 1252 questo era eguale alla lira, e com'essa diviso perciò in 20 soldi; nell'82 era già di 32 soldi; nel 1331 di 60 soldi o sieno tre lire, e sempre mutando, giunse nel 1464 a valere lire quattro e soldi 8.

I Fiorentini avevano esperimentato di che grande vantaggio fosse al proprio commercio, avere una moneta universalmente ricercata in tutti quanti i mercati, in cui mandavano i loro prodotti. Ma quando, nel principio del secolo xv, i loro traffici s'estesero assai piú nell'Oriente, essi vi trovarono i Veneti, il cui ducato d'oro, alquanto piú largo e di maggior peso del fiorino, era già in corso per tutto. Fu per questa ragione, che nel 1422 deliberarono la coniazione del loro secondo fiorino, uguale di peso, grossezza e valore al ducato veneziano, per poterlo facilmente barattare con esso. E perché esso era destinato ad andar sulle galee in Oriente, ed era anche piú largo, lo chiamarono fiorino largo o di galea, distinguendolo cosí dal piú antico, che chiamarono di suggello. Nel 1471, i due fiorini si riunirono di nuovo in uno, tornando all'antico, che durò fino al 1530, quando valeva sette lire, e allora venne temporaneamente abolito. Noi abbiamo, adunque, per qualche tempo, due fiorini diversi; il valore della lira, che muta d'anno in anno; e se a questo aggiungiamo,che fra il valore dell'argento e dell'oro ai nostri tempi ed in quelli della Repubblica, passa una differenza non piccola, sulla quale gli economisti non poterono mai venire d'accordo, comprenderemo tutta la difficoltà di far calcoli sicuri, che, determinando con precisione il prezzo delle cose, abbiano un significato per noi chiaramente intelligibile. Vi sono scrittori, i quali pretendono che una medesima quantità di oro non valesse allora piú del doppio di quel che vale oggi; altri arrivarono, esagerando, a farla valere fino a 40 volte di piú. Il Sismondi crede che, nei secoli xiv e xv, l'oro valesse quattro volte piú di quello che vale oggi. In ogni modo il fiorino o zecchino, come lo chiamarono piú tardi, vale circa 12 delle nostre lire. Resta però sempre incertissima la differenza nel valore dell'oro. Quando poi gli scrittori antichi ci parlano di lire, è necessario ricordarsi che esse mutavano sempre, e che non si può fare un calcolo neppure approssimativo, se non sappiamo di quale anno si discorre.

Ma tornando ora all'Arte del cambio, dobbiamo ricordare ciò che piú volte dicemmo, e cioè che, oltre le estese relazioni commerciali, gli accorti provvedimenti della Repubblica e l'attività singolare dei cittadini, v'era un'altra condizione che contribuí moltissimo al rapido incremento dei banchieri fiorentini, e questa fu la loro vicinanza a Roma. Le rendite della Santa Sede e de' suoi prelati, sparse per tutta la Cristianità, da ogni dove affluivano nella Città Eterna. Ivi erano i grandi prelati, vescovi e cardinali, i cui ricchi benefizi si trovavano in Oriente ed in Occidente; ivi da ogni parte della terra conosciuta arrivavano l'obolo di S. Pietro e le offerte dei credenti, ricchissime in un tempo di fede e di fanatismo religioso. I Fiorentini col loro grande acume, s'avvidero subito, che il divenire banchieri del Papa era un grosso affare: la piú gran quantità di capitali circolanti nel mondo, sarebbe passata per loro mani. Ed a questo scopo rivolsero, fin dal principio, tutta quanta la loro tenace volontà. Se noi li vediamo in condizioni, in tempi diversissimi, restar sempre guelfi, e ritener questo nome ancora quando aveva perduto il suo significato, dobbiamo non solo alle ragioni politiche, ma anche alle ragioni commerciali dare non piccolo peso. Trovandosi nel centro d'Italia, vicini a Roma, essi dovevano lottare principalmente con i Senesi ancora piú vicini alla Eterna Città. Perciò li vediamo subito in guerra e gelosia con questi, che furono poi vinti dalle armi e dalle relazioni molto piú estese del commercio fiorentino. Dalle lettere di Gregorio IX si vede, che sin dal 1233 i Toscani rimettevano al Papa danari da piú parti del mondo; e a poco a poco il monopolio di questi affari s'andò restringendo sempre piú nelle mani dei Fiorentini. Quando la Sede pontificia si trasferí da Roma ad Avignone (1305), per ritornare piú tardi novamente a Roma, vi fu, per ben due volte, un grandissimo spostamento d'interessi, un gran movimento di capitali, grandi rimesse di danaro, e fu quello secondo i piú autorevoli scrittori, il tempo e l'occasione in cui i Fiorentini da appaltatori delle rendite papali, divennero anche i principali banchieri di Roma. Da quel momento la loro fortuna fu fatta, i piú grossi affari bancari d'Europa vennero nelle loro mani, ed essi acquistarono tanta reputazione, che in faccende di denaro tutti ricorrevano al loro aiuto ed ai loro consigli.

Noi li vediamo chiamati a dirigere le zecche, ad ordinare i pesi e le misure in vari Stati d'Europa. Nel 1278 una convenzione tra il re di Francia e le Universitates dei Lombardi e dei Toscani, chiama gli uni e gli altri a trovar danari per quel governo. Nel 1306 un decreto del popolo modenese, per la medesima ragione, si rivolgeva ai notai e banchieri fiorentini. E quando nel 1302 il re di Francia, non avendo denari per fare la guerra, si decise ad alterare piú volte la moneta, quel funesto consiglio non si seppe attribuire ad altri, che a due Fiorentini, Bicci e Musciatto Franzesi, che furono perciò severamente biasimati dai loro concittadini, molti dei quali vennero nel proprio commercio rovinati da quella falsificazione. Ogni volta che i re di Francia si decidevano ad una grossa guerra, eran come costretti ad assicurarsi prima il concorso di qualche noto banchiere fiorentino, per sostenerne le spese. Alcuni di questi erano allora quel che sono oggi i Rotschild in Europa, e le fortune che accumulavano, sembrano anche a noi favolose. Nel 1260 i Salimbeni prestarono ai Senesi 20 mila fiorini. I Bardi ed i Peruzzi li troviamo nel 1338 creditori del re Edoardo III d'Inghilterra per un milione e trecentosessantacinquemila fiorini, il che, senza tener conto d'alcuna differenza nel valore dell'oro, risponderebbe a circa sedici milioni delle nostre lire; e tenendo conto di questa differenza, secondo i computi del Sismondi, s'arriverebbe a 64 milioni. Il Pagnini aggiunge una nota di molti altri prestiti, che ammontano ad un totale davvero straordinario. Nel 1321 i Peruzzi avevano col solo Ordine dei Gerolosomitani un credito di 191,000, ed i Bardi ne avevano un altro di 133,000 fiorini. La casa di Tommaso di Carroccio degli Alberti e suoi parenti aveva nel 1348 banchi in Avignone, Brusselle, Parigi, Siena, Perugia, Roma, Napoli, Barletta, Costantinopoli, Venezia. E Filippo di Commines, nella fine del secolo xv, affermava che Edoardo IV d'Inghilterra dovette il suo trono all'aiuto dei banchieri fiorentini.

L'Arte del Cambio era assai antica in Firenze, i suoi Consoli si trovano al pari degli altri nominati nei documenti; abbiamo una copia de' suoi Statuti del 1299 (1300 s. n.), i quali si riferiscono ad un'altra redazione del 1280, che neppur essa era la piú antica. Quest'arte fiorí e decadde insieme col commercio fiorentino; si esercitava in Mercato Nuovo, dove erano le sue botteghe con banco o tavolello, la borsa del danaro ed il libro. Tutti gli affari dovevano essere conclusi nella bottega, notati a libro, sotto gravi pene per ogni infrazione; né si poteva esercitare l'arte, senza essere scritti nella matricola, il che si otteneva solamente dopo aver dato in essa prove di capacità e di onestà, e dopo averne giurato gli Statuti. Nel 1338 questi banchi di cambiatori erano circa 80, e si battevano in Firenze da 350 a 400 mila fiorini d'oro. Nel 1422 erano invece 72 e si calcolava, che in Firenze vi fosse un capitale circolante di 2 milioni di fiorini, senza mettere in conto alcuno il valore delle mercanzie. Nel 1472, parte perché incominciavano i primi segni della decadenza del commercio, e parte perché esso s'era andato accumulando in un numero sempre minore di case, i banchi erano già ridotti a 33, e tuttavia il cronista Benedetto Dei ancora scriveva con orgoglio, che questi banchieri facevano affari per Levante e per Ponente, «et i Venetiani e Gienovesi lo sanno benissimo, e cosí lo sa la Corte di Roma». Essi erano conosciuti per tutto col nome di cambiatori, prestatori, usurai. Toscani, Lombardi, e insieme cogli altri Italiani, occupavano una intera strada a Parigi ed a Londra.

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