Dopo la cacciata di Giano della Bella i Grandi parvero un momento tornati padroni della Città; ed il loro animo crebbe a dismisura, quando il 16 giugno del '96 riuscirono a fare eleggere una Signoria composta tutta di loro amici. Ai primi di luglio essi già s'erano messi fra loro d'accordo, e scesero addirittura armati in piazza. Ma il popolo fece lo stesso, ed in numero anche maggiore, sicché si era già sul punto di venire alla guerra civile, quando fortunatamente alcuni frati ed alcuni cittadini, messisi di mezzo, riuscirono a pacificare gli animi. Nondimeno la Signoria, che era amica dei Grandi, volle profittare della occasione, e fece vincere il 6 luglio '95 quella provvisione cui abbiamo piú sopra accennato, la quale fece parte degli Ordinamenti, che modificava, attenuandoli non poco.
Alcune di queste attenuazioni erano di pura forma, altre erano però di sostanza. Autori principali dei delitti puniti dagli Ordinamenti, non furono piú come nel passato tutti coloro che v'avevano preso parte; ma si riconosceva un solo Capitaneus homicidii. A provare il delitto non bastavano piú due testimoni di pubblica fama, ma ne occorrevano invece tre. E finalmente, per entrare a far parte della Signoria, non era piú necessario che i candidati esercitassero effettivamente l'arte, continue artem exercentes; bastava che fossero semplicemente ascritti ad essa, qui scripti sint in libro seu matricola alicuius artis. Questa ultima concessione era in realtà minore che non pareva, perché anche prima l'esercizio effettivo dell'arte era stato assai spesso piú apparente che reale. Ma il principio per cui s'era combattuto veniva abbandonato, e se si pongono insieme le varie concessioni fatte nel '95, si vedrà chiaro che la nuova legge fu veramente una vittoria dei Grandi. Infatti grandissimo si dimostrò per essa lo scontento del popolo, ed il Villani ci dice, che i Signori i quali la proposero e la fecero vincere, vennero, nell'uscire d'ufficio, derisi, insultati, col tirar loro persino delle sassate nella pubblica via. E ne seguí addirittura una reazione popolare, che fu il germe di nuove e gravi discordie cittadine. Si cominciò col levare ai Grandi alcune delle loro armi; e poi quelli fra di essi che erano tenuti meno faziosi, vennero dichiarati di popolo, per indebolire cosí il loro partito. Inoltre si cominciarono ben presto a fare altre leggi, che rafforzarono da capo gli Ordinamenti, procedendo sempre piú oltre per questa via, fino alla creazione d'un nuovo magistrato, che, come vedremo, fu esclusivamente destinato ad assicurarne la rigorosa esecuzione. Ma tutto ciò non poté seguir senza nuove divisioni e senza spargimento di sangue cittadino.
Questo infatti è il momento in cui non solo s'inasprí la divisione fra Grandi e popolo, ma i primi si divisero in due partiti, quelli cioè che persistevano a voler distruggere gli Ordinamenti, e quelli che di ciò abbandonavano il pensiero. I due nuovi partiti presero nome da due famiglie che li capitanarono, i Donati cioè ed i Cerchi. Questi ultimi erano gente venuta su di piccolo stato, ma fra i piú ricchi mercanti del mondo. Vantavano numerosa parentela, molte amicizie, vasti possessi in campagna ed in città, e menavano gran vita. Avevano recentemente comprato i molti palazzi dei conti Guidi, stati già fra i piú antichi nobili di Firenze; nelle proprie case, in S. Procolo, alloggiavano la Signoria stessa, che ancora non aveva un suo palazzo, e cosí restava ad essi piú facilmente tenuta ed amica. Il Villani, che era del partito avverso, li chiama «morbidi, innocenti e salvatichi». Non erano infatti gente data alle armi, ma al commercio, né molto rotta ai maneggi politici. Il nome di salvatichi veniva loro dalla modesta origine, e lo stesso Dante chiama selvaggia la loro parte, che fu anche la sua. Questa origine ed il continuare essi nell'esercizio della mercatura, faceva loro incontrar simpatia e favore nel popolo, favore che crebbe sempre piú quando si dimostrarono avversi ai Donati. Né meno delle ricchezze e della larga parentela giovavano ad essi i modi cortesi.
I Donati, invece, che il Villani chiama «gentili e guerrieri», erano di antica origine feudale. E Messer Corso loro capo era un uomo audace, manesco, accorto, non molto ricco, ma pure ambizioso e superbo in modo, che non sapeva tollerare uguali, massime poi fra i mercatanti arricchiti. Lo chiamavano il Barone, ed il Compagni, che parteggiava pei Cerchi, dice che, quando passava per le vie a cavallo, pareva «che la terra fosse sua». A lui facevano capo molti Grandi della città e nobili del contado, principali fra di essi i Pazzi del Valdarno di sopra. Né mancavano anche mercatanti, fra i quali sono da annoverare gli Spini, che avevano banco a Roma, dove facevano gli affari della Curia e del Papa, col quale avevano perciò grande entratura. Dal popolo grasso erano odiati, ma trovavano invece favore nel minuto, che acclamava per le vie il Barone. Al quale, se assai giovavano, nella lotta cui già s'apparecchiava, l'audacia e l'accortezza, noceva non poco la sua superbia, che allontanava molti da lui, respingendoli verso i Cerchi. Lo detestavano fra gli altri i Cavalcanti, e sopra tutti il giovane Guido, gentile poeta, ardito cavaliere, che gli era divenuto mortale nemico, a segno tale che non si potevano scontrare per via senza metter mano ai ferri. I Donati si facevano valere in città piú specialmente col favore dei Capitani di Parte; i Cerchi invece col favore della Signoria. Cosí il Palazzo della Parte e quello dei Priori erano come i quartieri generali dei due campi avversi. Le due famiglie si trovavano inoltre vicine nei loro possessi in campagna ed in città. Ambedue avevano case nel sesto di S. Piero, che per le continue zuffe fu chiamato allora il Sesto dello Scandalo. Tutto dava esca al fuoco. Le parole venivano da una parte all'altra riferite, esagerate. Quando Corso alludeva a Guido Cavalcanti, lo chiamava Guido Cavicchia; quando alludeva a Vieri de' Cerchi, che era il capo della famiglia e della parte, domandava: Ha oggi ragghiato l'asino di Porta? I Donati invece erano dai loro avversari chiamati Malefami, quasi di mala fama, autori di malefici.
Come e quando questi partiti assumessero il nome di Bianchi e di Neri, non è facile dirlo con precisione, perché i cronisti non sono in ciò molto chiari, né vanno tra loro sempre d'accordo. I due nomi erano antichi in Firenze, come distintivi di famiglia; v'erano infatti già prima i Cerchi bianchi ed i Cerchi neri, ma questi ultimi erano quelli che poi divennero i capi della parte bianca. I medesimi nomi avevano allora diviso in due avverse fazioni la famiglia dei Cancellieri in Pistoia, dove fieramente si laceravano. I Fiorentini, che vi esercitavano molta autorità, s'intromisero fra quelle parti, per pacificarle; ed a tal fine mandarono da quella città alcuni dei Bianchi ed alcuni dei Neri a Firenze. I primi alloggiarono in casa Frescobaldi, i secondi in casa d'alcuni dei Cerchi, loro parenti. Ma avvenne il contrario di ciò che si sperava, giacché, osserva il Villani: come una pecora malata corrompe l'altra, cosí i Pistoiesi comunicarono i loro odi partigiani ai Fiorentini, che sempre piú si divisero. Certo è che d'ora in poi i Donati sono Neri ed i Cerchi sono Bianchi.
Questa divisione, come chiaro apparisce da quanto abbiam detto, non ha piú nulla che fare con quella di Guelfi e di Ghibellini. Ai principi si vanno ora sostituendo sempre piú gli odî, le passioni personali. Se però, stando alla natura delle cose, si fosse voluto dare a qualcuno il nome di ghibellino, questo in Firenze sarebbe di certo toccato ora ai Donati, famiglia di origine feudale, alleata coi nobili piú antichi nella città e nel contado. Essi avevano a loro capo Messer Corso, il quale, morta la prima moglie, aveva condotto in seconde nozze una giovane degli Ubertini, antica famiglia ghibellina, stata sempre avversa al governo popolare, e pareva che egli avesse nelle vene il sangue stesso dei tiranni di Romagna e di Lombardia. Pure fu principalmente per opera sua, che anche ora avvenne il contrario di quel che si poteva supporre. Divorato dall'ambizione, egli iniziò a Roma, per mezzo degli Spini, segrete pratiche con Bonifacio VIII, il quale credette d'avere in lui trovato finalmente il suo uomo. E tutto ciò non tardò molto a rendersi palese.