XI

Venendo ora ad esaminare particolarmente le disposizioni statutarie, che risguardano da vicino il soggetto di cui ci occupiamo, volgeremo l'attenzione piú di tutto allo Statuto fiorentino, il quale ha per noi una doppia importanza. Noi abbiamo intrapreso questo studio, con lo scopo di aprirci la via a meglio comprendere alcune riforme politiche seguite in Firenze, che potevano trovare la loro spiegazione solamente nelle condizioni sociali della Repubblica. Ed inoltre, esaminando il Comune fiorentino, bisogna pure riconoscere che esso è quello in cui l'aristocrazia venne piú radicalmente distrutta, e la democrazia piú ampiamente trionfò. Ogni traccia di feudalismo, ogni elemento estraneo scomparisce dal suo Statuto, che perciò, in mezzo alle perenni mutazioni, serba un carattere piú uniforme e costante, ha una tendenza continua verso uno scopo che finalmente raggiunge. Negli altri Statuti, invece, la mutabilità non è minore; ma è prodotta da cause meno costanti, da elementi che sono assai piú spesso estranei alla vita del Comune, e quindi rendono sempre piú difficile il comprendere quali sono i veri principî che ne informano le leggi, e che determinano il carattere storico di esse.

Se cominciamo negli Statuti ad esaminare la patria podestà, vediamo subito l'incerto carattere che domina in questa legislazione. Dapprima troviamo il mundio longobardo; ma a poco a poco esso si trasforma nella patria potestà romana, secondo il diritto giustinianeo, che finalmente predomina, non mai però in modo assoluto. E nelle varie disposizioni, anche su questo argomento sempre monche degli Statuti, ora troviamo imposta al figlio una soggezione maggiore che nel diritto romano, ora esso gode d'una grandissima indipendenza, e predomina invece il diritto longobardo. Il piú delle volte sono particolari ragioni di politica o di commercio, che portano questa poco logica mutabilità. Secondo gli Statuti romani, il figlio di famiglia si può presentare ai giudizi criminali, senza permesso del padre, che non sopporta alcuna condanna pei delitti del figlio, il quale può anche essere arbitrariamente punito dai suoi genitori. I bastardi dei Magnati sono in una condizione inferiore, civilmente e politicamente, ai figli legittimi, giacché non possono salire ad alcuna dignità popolare. Secondo gli Statuti di Pesaro, il figlio può disporre per testamento del peculio avventizio, lasciando il dovuto usufrutto al padre; tutte le emancipazioni, per riuscir valide, debbono esser fatte dinanzi al Consiglio generale; ma i figli che sposano senza il consenso del padre, possono essere diseredati. Il padre è obbligato ad assegnare la sua parte di eredità al figlio condannato in danaro, acciò possa pagare. Se esso percuote i figli o nipoti o le loro mogli, in nihilo puniatur, nisi pro enormi delicto. In Lucca il figlio di famiglia può a 18 anni obbligarsi per un prestito, se anche il padre non vi consente; a 25 anni il prestito, fatto in suo proprio nome, è valido. Il padre poi ha facoltà di mandare in prigione il figlio, emancipato o sotto tutela, che abbia dissipato i propri beni, viva senza rispetto al buon costume. Il magistrato è tenuto ad eseguire la volontà paterna, senza bisogno di alcuna prova. Il figlio può cosí essere dal padre confinato in casa, legato, imprigionato a suo arbitrio, con obbligo solo di somministrare a lui gli alimenti. Lo stesso ha luogo ancora verso altri discendenti.

Se in tutta questa grande varietà di leggi, vogliamo trovare un qualche carattere piú proprio e speciale degli Statuti, dobbiamo cercarlo nella unitas personæ tra padre e figlio, che spesso è molto estesa. Ed anche ciò risulta dal concetto generale, che della famiglia hanno gli Statuti. Ad Urbino ed altrove il padre può essere punito per il figlio, il padrone pel servo. Quanto poi alla responsabilità commerciale, non solo tra padre e figlio, ma fra i parenti in genere, questa la troviamo a Genova, a Firenze, in molte delle città piú commerciali. In Firenze il padre, l'avo, il proavo sono responsabili pel loro discendente, anche se figlio di famiglia, che si trovi nel commercio, come se lo avessero garentito. Non volendo a ciò sottostare, debbono farne pubblica e formale dichiarazione, ricusando ogni responsabilità. Cosí se il figlio di famiglia è agente o fattore in una compagnia o casa di commercio, il padre è ritenuto responsabile, quando non abbia diffidato la società commerciale per mezzo di pubblico istrumento. E per la stessa ragione anche la emancipazione del figlio deve essere pubblica e denunciata alla Società dei mercanti. Col matrimonio della donna, però cessa sopra di lei la patria potestà, ed ella non può piú, in nessun modo, essere chiamata a rispondere pel padre, sia che si tratti di obblighi civili o di delitti, quando egli siasi sottratto alla pena con la fuga.

La donna è in Firenze sotto la continua protezione del mondualdo. Questo nome dura ancora nel secolo xviii, ma il mundio diviene negli Statuti ben presto simile affatto alla tutela romana. Essa può scegliere e chiedere al magistrato che le conceda un mondualdo, anche vivendo il padre o il marito. Non può nelle cause civili agere, experiri vel defendere per se, ma solo per mezzo del procuratore o altro idoneo amministratore da lei scelto. Richiesta dall'avversario, può tuttavia rispondere positionibus, capitulis et interrogationibus da sé stessa, anche senza il consenso del suo mondualdo. Questa disposizione però e propria degli ultimi tempi. Nello Statuto del 1355, il procuratore è ancora necessario. E sebbene, cosí negli Statuti come nel diritto romano, la tutela della donna vada col tempo diminuendo, pure i suoi diritti non arrivano mai ad essere pareggiati a quelli dell'uomo.

Nel matrimonio è piú che altrove visibile la mescolanza delle varie giurisprudenze. Fu già notato dal Gans come i Pisani, trovando che il diritto romano vietava le seconde nozze, durante l'anno di lutto, mentre che il diritto canonico non faceva un uguale divieto, perché vedeva nella parola dell'Apostolo un permesso illimitato, e che il germanico si contentava del divieto di soli 30 giorni, essi limitarono nei loro Statuti il divieto a sei mesi. Ma con questa meccanica conciliazione, non si ottenne lo scopo voluto dal diritto romano, che cioè il secondo matrimonio non avesse mai luogo durante la gravidanza, che poteva essere conseguenza del primo, né si concesse la libertà data dal diritto canonico e dal longobardo. Piú spesso però la unione dei vari diritti ha luogo con la graduata trasformazione dell'uno nell'altro. Gli Statuti pisani, ad esempio, regolano il matrimonio secondo la legge romana. Vi è una dos portata dalla moglie, e una donatio propter nuptias, data dal marito, e detta anche antefactum perché fatta prima del matrimonio. Essa viene, per questo lato, a confondersi con la meta, e la parola stessa accenna ad un'origine longobarda. Cosí per l'una come per l'altra, v'era l'ipoteca privilegiata sui beni del marito, anche al di là di ciò che prescrive il diritto romano. Ma l'antefactum deve corrispondere alla quarta parte della dote, e può esser maggiore, quando non superi la quarta parte dei beni del marito. Esso è piuttosto un assegnamento vedovile, un aumento della dote, e non può quindi paragonarsi alla meta vera e propria. Nei popoli germanici l'assegnamento vedovile e la donazione si confondono nella comunione dei beni, e la dote non è mai altro che un accessorio. Negli Statuti, invece, come nel diritto romano, questa è il principale, e tutto si riferisce ad essa. Quindi è che la meta e il dono germanico, non potendo svolgersi normalmente, si confondono con la donatio, la quale tende a divenire un augumentum dotis. Di rado infatti troviamo le due cose distinte negli Statuti; pure non ne mancano esempi, e uno trovasene in quello di Firenze, nel quale si parla continuamente di donatio e di augumentum. In questo modo la donazione non è piú una guarentigia della dote, ma tende a confondersi con essa, facendola supporre maggiore.

I Pisani, oltre la dote e la donazione o antefactum, aggiungono altri donativi, che chiamano corredo, e che appartengono alla donna, quando si scioglie il matrimonio; ma se allora fossero stati dissipati, ella avrebbe diritto ai due terzi del valore di essi. In generale poi i coniugi pisani vivono in una perfetta separazione di beni, tanto che il matrimonio sembra qualche volta una relazione ostile, piuttosto che una comunione d'interessi.

Alcuni Statuti ammettono una dos e una donatio propter nuptias, con la meta e il donativo longobardo. Lo Statuto fiorentino parla di una dote, di una donazione che deve essere uguale alla metà della dote, purché non superi le 50 lire, e di un aumento. In mancanza di figli, di nipoti maschi o nipoti venuti da figli maschi, la donna ripigliava, a morte del marito, la dote con la donazione e l'aumento; in caso diverso aveva solo la dote, e ciò che piaceva al marito di lasciarle. Se questi moriva, senza ancora aver ricevuto la dote, la moglie prendeva la donazione promessa, che non doveva però superare un ottavo dei beni del marito. Sui beni di esso v'era per la dote ipoteca privilegiata, e l'avevano cosí la moglie come tutti coloro che, col marito o separatamente, si erano obbligati per la dote stessa. Né il consenso della moglie a far vendere o alienare i beni del marito, toglieva l'ipoteca sui beni venduti, sui quali v'era anche reversibilità: ma ciò solamente a cominciare dal 1388. Questa data, che si legge nello Statuto fiorentino a stampa, che è del 1415, ci prova che il regime dotale e la separazione dei beni avevano col tempo fatto grande progresso, il che del resto è confermato anche dagli altri Statuti, nei quali l'avanzarsi del diritto romano è costante.

La moglie non poteva defendere bona viri contro i creditori del marito in genere; ma bensí contro quelli che si erano obbligati alla restituzione della dote, il che non indeboliva la garanzia che essa poteva avere sui beni di lui. Anche i beni dotali inestimati venivano difesi da lei contro qualunque creditore, e poteva, se il marito era caduto nella miseria, richieder sempre la restituzione della dote. I beni che acquistava o ereditava, lui vivente, le appartenevano; ma non poteva alienarli senza il consenso del marito, al quale spettava l'usufrutto. Ciò che, a morte di lui o della moglie, rimaneva ancora intatto di tali frutti, poteva essere richiesto da lei o dai figli. E poteva la moglie obbligarsi col consenso del marito, nel qual caso esso era il suo legittimo mondualdo.

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