Se ora paragoniamo lo Statuto fiorentino cogli altri italiani, troveremo vari caratteri che lo distinguono, e che in gran parte dipendono dal fatto, che in esso le libertà democratiche raggiunsero l'estremo limite cui era possibile arrivare nel Medio Evo. Non solo ogni privilegio feudale, a poco a poco, scomparve in esso del tutto; ma i magnati finirono col trovarsi in una condizione inferiore a quella dei popolani. Firenze fu, come vedemmo, una delle prime città italiane che abolirono affatto la servitú nel contado, con la legge del 1289. E sebbene trattasse gli abitanti della campagna peggio assai dei cittadini, pure è certo che essi si trovavano in condizioni di gran lunga migliori che in moltissimi altri Comuni. Prova ne è quel contratto di mezzeria, che fa del lavoratore della terra un vero socio del proprietario, e resta sempre un grande monumento di civiltà, ammirato dai moderni economisti, i quali non seppero mai escogitare nulla di meglio. La libertà e la forza delle associazioni, la straordinaria facilità con cui si saliva al governo del Comune, tutto contribuiva al trionfo della piú larga democrazia. Ma un altro carattere generale dobbiamo pur notare in questo, come in quasi tutti gli Statuti italiani, ed è la mira costante a liberarsi dalla ingerenza dell'autorità ecclesiastica, la quale s'adopera, con una ostinazione incredibile, a mantenere intatti i suoi privilegi, e vuole aumentarli; ma li vede, invece, poco a poco ridotti quasi a nulla. Lo Statuto del 1415 dice: «nessuna persona. Università, Chiesa, luogo religioso o clericale, osi ricusare il fòro del Comune, sotto scusa di beneficio o privilegio, e quando operi in contrario, si proceda all'arresto, fino a che non rinunzia a tale privilegio. Nessuna scomunica o interdizione potrà impedire, né diminuire l'azione dei magistrati, o l'effetto delle loro sentenze. Ognuno può esercitare liberamente i suoi diritti su tutti i beni della Chiesa, che le vengano da laici».