III

Pure, al disotto di questa apparente tranquillità, v'era nel seno della Repubblica il germe d'una profonda discordia, che di tanto in tanto scoppiava in sanguinosi conflitti, dei quali era causa principale il malcontento dei Grandi. È un grave errore il credere, che gli Ordinamenti di Giustizia li escludessero per la prima volta dal governo. Questo era una disposizione di lunga mano apparecchiata, e che, sebbene non fosse ancora rigorosamente eseguita, poteva dirsi già sanzionata nel 1282, con la istituzione dei Priori delle Arti, posti a capo della Repubblica. Ma non bisogna credere per questo, che allora i Grandi avessero di fatto perduto nella Città ogni potere. Prima di tutto, il nuovo modo di guerreggiare, pel quale gli eserciti municipali d'artigiani, senza cavalieri, senza uomini d'arme, facevano pessima prova, aveva reso inevitabile l'aiuto dei nobili, e cominciava anche a rendere necessario il ricorrere a gente forestiera: Tedeschi, Francesi e Spagnuoli, soldati di ventura che vivevano per la guerra e della guerra. A Montaperti (1260) erano stati i Tedeschi di Manfredi e i nobili ghibellini, esiliati da Firenze, che avevano inflitto una terribile rotta all'esercito guelfo della Repubblica. A Campaldino (1289) erano stati Corso Donati, Vieri dei Cerchi e altri Grandi o potenti di Firenze, che avevano deciso la giornata. Questi lo sapevano e lo ripetevano di continuo, sprezzando gli artigiani ed il popolo. Educati alle armi, non distratti dal commercio, erano irritatissimi, vedendosi esclusi dal governo da gente piú rozza e assai meno di loro atta alla guerra. Le passioni politiche s'accendevano perciò sempre di piú, ed essi non avevano né davano pace.

Bisogna poi notare che i Grandi d'allora non erano piú i nobili feudatari d'una volta, isolati e chiusi nei loro castelli, come tanti sovrani, dipendenti solo dall'Impero, e nemici della Repubblica. Vinti nel contado, ed obbligati già da un pezzo ad entrare ed abitare in Città, le si erano adesso affezionati, ma avrebbero in essa voluto comandare. Trovandosi circondati per ogni lato da un popolo potente, associato in Arti, e padrone del governo; sottomessi per forza alle leggi repubblicane, che non riconoscevano i diritti feudali, s'erano dovuti, a legittima difesa, associare nelle consorterie o società delle Torri, regolate meno da leggi che da consuetudini, e però tanto piú fortemente unite. Questi erano stati in origine, quasi esclusivamente, vincoli di sangue, che s'andarono sempre piú stringendo collo scomporsi dell'ordinamento feudale, quando le parentele, per non perdere la loro forza, si formarono in caste o associazioni separate, che accoglievano un numero sempre maggiore di soci. Abitavano gli uni vicino agli altri nei loro palazzi, che stavano accosto ed occupavano spesso una o piú vie della Città; vivevano insieme co' loro aderenti, uomini d'arme, palafrenieri, servitori, stallieri, e nei momenti di pericolo chiamavano anche i contadini dai loro ricchi possessi nella campagna. Non solamente le loro proprietà restavano sempre nella famiglia o nella consorteria, e le liti si componevano per mezzo di arbitri; ma le vendette si deliberavano in comune, e colui che le eseguiva era sempre messo in salvo dagli amici, ritenendosi tutta la consorteria responsabile del fatto. Spesso avevano tra casa e casa, o nelle Corti dei loro palazzi, un arco sotto cui davano la corda a chi loro piaceva. Della famiglia Bostichi, infatti, dice il Compagni: «Feciono moltissimi mali e continuoronli molto. Collavano gli uomini in casa loro, le quali erano in Mercato Nuovo, nel mezzo della Città, e di mezzodí gli metteano al tormento. E volgarmente si dicea per la terra: molte corti ci sono; e annoverando i luoghi dove si dava tormento, si diceva: a casa i Bostichi, in Mercato». Tuttociò continuava sempre, quantunque si fossero già pubblicate severissime leggi contro i Grandi. Un popolano era bastonato, ferito o messo alla corda, senza che l'autore dell'offesa si potesse mai legalmente ritrovare. In campagna questi medesimi Grandi s'adoperavano in mille modi a tener viva la servitú, che pure era stata per legge abolita da piú anni, inducendo i contadini, con la forza o le minacce, a riconoscere, mediante contratti fittizî, obblighi che non avevano.

E cosí fu che questi cittadini, già potenti per le loro condizioni sociali, avevano sempre molta forza ed autorità politica nella Repubblica, non ostante le leggi fatte contro di loro. Esclusi dalla Signoria, non potevano entrare nel Consiglio dei Cento, e neppure in quelli del Capitano, nei quali le cose piú importanti si trattavano. Entravano però in quelli del Podestà, che doveva esser cavaliere, e però spesso favoriva i nobili ne' suoi giudizî. Nelle ambascerie erano di continuo adoperati, e nelle guerre pigliavano i primi posti; ma sopra tutto prevalevano in quella istituzione che dicevasi la Parte Guelfa, i cui principali ufficî erano ad essi piú specialmente affidati. Fondata, come abbiamo già visto, nel 1267, dopo la cacciata del conte Guido Novello, essa doveva amministrare tutti i beni confiscati ai Ghibellini, dei quali s'era fatto monte o mobile, o come diremmo noi capitale. Questi beni dovevano essere adoperati ad abbassare i Ghibellini ed a sostenere i Guelfi, dei quali Firenze era capo in Toscana. Fu a questo proposito, che il cardinale Ottavio degli Ubaldini esclamò: Dappoi che i Guelfi di Firenze fanno mobile, giammai non vi torneranno i Ghibellini; e la sua profezia s'avverò. Difatti il partito ghibellino a poco a poco scomparve, per le continue persecuzioni subite dopo il rovescio generale degli Svevi; e la Città, divenuta allora affatto guelfa, si divise in popolani da un lato, nobili, potenti o Grandi dall'altro. Questi, esclusi dal governo o dagli onori, come dicevano allora, non poterono mai essere esclusi dalla Parte, di cui continuarono invece ad amministrare le ricche entrate. Essa era ordinata come una piccola repubblica, e nonostante i molti tentativi fatti per introdurvi, in proporzione sempre maggiore, i popolani, non vi si poté mai riuscire, e furono invece sempre sopraffatti, tanto che nello statuto, che ne abbiamo a stampa, compilato nel 1335, si trova incoraggiata, con premî in danaro, la nomina di nuovi cavalieri. Ad ognuno di essi, fino a sei per anno, davasi la somma di cinquanta fiorini in oro, «conciosiacosaché a cosí magnifica Città si confaccia risplendere per quantità di cavalieri». E cosí da un lato s'abbassavano i Grandi, e quasi pareva che si volessero sterminare: da un altro invece essi trovavano sempre forza ed aiuto.

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