IV

Con tutti questi vantaggi, se i nobili fossero stati uniti, anche dopo le battiture avute nel '66 e nell'82, avrebbero potuto ottenere una rivincita, e dominare il popolo. Ma erano invece divisi e si combattevano aspramente anche fra di loro. «Aveva grande guerra (dice il Villani) tra gli Adimari e' Tosinghi, e tra' Rossi e' Tornaquinci, e tra i Bardi e' Mozzi, e tra i Gherardini e' Manieri, e tra i Cavalcanti e' Buondelmonti, e tra certi de' Buondelmonti e' Giandonati, e tra' Visdomini e' Falconieri, e tra i Bostichi e' Foraboschi, e tra' Foraboschi e' Malespini, e tra' Frescobaldi insieme, e tra la casa de' Donati insieme e piú altri casati». Né deve recar maraviglia, che le consorterie cosí forti e potenti fossero gelose le une delle altre. S'aggiungeva poi, che fra questi nobili guelfi c'erano gli avanzi del partito ghibellino, con le loro simpatie imperiali, il che costituiva un altro germe di discordia, e dava animo, eccitava il popolo a procedere sempre piú oltre nella guerra di sterminio, che aveva incominciata. Assai meglio ordinato e piú unito; associato nelle varie Arti, che formavano parte della generale costituzione dello Stato, esso dimostrava, in ogni occasione, una forza ed unità di azione, che i Grandi non avevano mai. Cominciava, è vero, a scorgersi già sin d'allora il germe di qualche gelosia tra le Arti maggiori, le minori e la plebe; ma questa discordia scoppiò assai piú tardi. Per ora non se ne vedeva neppure il principio. S'erano formate, tra i membri d'una stessa Arte o di varie Arti, quelle che allora chiamavansi Leghe, Posture, Convegni, ossieno accordi speciali, fatti anche per mezzo di regolari scritture. Ma avevano uno scopo piú che altro commerciale, mirando a tenere abusivamente alti certi prezzi, a fare monopolî poco legittimi: solo in piccola parte nascevano da passioni o interessi politici. Non erano permessi dalle leggi, né certo favorivano la concordia, ma avevano poca importanza.

La Città si trovava cosí sempre piú divisa e suddivisa in gruppi, e pareva che minacciasse d'andare in frantumi. I popolani erano di certo sempre i padroni del governo; ma i nobili, sebbene in diverso modo, erano anch'essi potenti; quindi l'unità e la concordia dovevano di continuo correre grave pericolo. L'ottenere una maggiore uguaglianza fra i cittadini, una maggiore unione e forza cosí nella società come nel governo, doveva essere perciò lo scopo cui, per necessità delle cose, bisognava mirare, se non si voleva restar sempre sull'orlo di un precipizio. Da gran tempo infatti la legislazione fiorentina e le continue rivoluzioni si erano indirizzate a questo fine. La legge del 6 agosto 1289, con la quale si aboliva la servitú, per dare la libertà ai contadini, fu anch'essa un nuovo passo verso l'uguaglianza. Quelle del 30 giugno e 3 luglio 1290 proibirono ogni accordo, che in qualunque modo s'allontanasse dalla costituzione legale delle Arti. La legge del 31 gennaio 1291 pose un altro freno ai nobili, obbligando tutti i cittadini, senza alcuna distinzione, a sottostare ai giudici ordinarî, minacciando pene severissime a chiunque pretendesse d'avere o di volere impetrare il privilegio di tribunali eccezionali.

Ma ciò che è ancora piú, la pena pecuniaria minacciata in tali casi, ricadeva sul consorto o parente del colpevole, se esso riusciva a sfuggire alla giustizia. È questa una legge che deve a noi sembrare molto strana; ma che pur trova la sua spiegazione in quello che abbiamo già detto sull'ordinamento che aveva allora la proprietà, sulla costituzione delle famiglie e delle consorterie. Il patrimonio domestico rimanendo, in massima parte, indiviso nella famiglia, l'imporre pena pecuniaria ad uno solo de' suoi membri, senza colpire gli altri, doveva riuscire di certo non solo assai difficile, ma anche pericoloso, e per questa ragione la legge tendeva sempre ad obbligarli tutti in solido. Un tal principio sembrava piú logico ancora quando trattavasi di pene imposte ai Grandi, che vivevano strettamente uniti fra di loro nelle consorterie; che in comune trattavano i loro interessi, deliberavano le vendette, mostrando di volere in ogni cosa vivere ed essere insieme responsabili. Se la proprietà apparteneva a tutta la famiglia, ed era perciò sempre questa che pagava; se comune era anche la vendetta, e le piú gravi offese erano fatte in nome e per volontà di tutti i parenti, non pareva che vi fosse nulla di strano nella legge che obbligava l'un consorto o parente a pagare per l'altro, cominciando dai piú prossimi. E già da lungo tempo, per queste ragioni appunto, le leggi, dopo aver ordinato l'elenco dei Grandi, li obbligavano a sodare, cioè a dare, ciascuno, malleveria non solo direttamente per sé, ma anche l'uno per l'altro parente, mediante la somma di lire due mila, che a questo fine si depositava. In tal modo, quando le pene pecuniarie, che generalmente non passavano mai tale somma, ricadevano sopra un Grande, v'era già il danaro da lui stesso depositato, o il parente in simil modo vincolato a pagare per lui, nel caso in cui questi fosse fuggito o avesse con qualche indebito artifizio saputo eludere la legge. Tali precisamente e non altri sono i principi sui quali si fondano anche gli Ordinamenti di Giustizia, che non si possono perciò in nessun caso ritenere opera personale di Giano della Bella, essendo invece una conseguenza logica, un resultato naturale, inevitabile delle rivoluzioni, delle istituzioni e delle leggi precedenti. In gran parte anzi essi non fanno altro che raccoglierle ed ordinarle, rendendo piú chiaro e visibile il loro scopo antico e costante.

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